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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 17 aprile 2016
Te ne accorgi dal paesaggio che cambia, che sei arrivato al finis terrae della Penisola, come l’ha raccontato di recente l’antropologo Giovanni Gugg: non sei più nel mosaico delle “terre murate” del pianoro di Sorrento; e non ancora sui terrazzamenti eroici della Costiera amalfitana, a precipizio sull’azzurro. Massa Lubrense è al passaggio tra questi due mondi, è fatta di colline di pietra arenaria e marna: una distesa dolce di oliveti, punteggiata di casali, una trentina, come nelle stampe di inizio Settecento, con le torri di avvistamento angioine e vicereali.
“Le Tore” – il toponimo antico che sta proprio per “colline” – è il nome dell’azienda di agricoltura e turismo di Vittoria Brancaccio, nel mezzo di questo favoloso paesaggio. Ci arrivo da Sant’Agata sui Due Golfi, prendendo la stradina che sale verso Pontone; Tex il labrador e Sofia, tenerissima terranova nera, vengono a salutarmi appena scendo dalla macchina. La masseria è antica, della metà del ‘700, Vittoria l’ha ristrutturata proprio com’era, facendo un mutuo e investendoci di suo, e la gestisce da vent’anni. Lei è minuta, colta, appassionata, i capelli di ragazza hanno fili d’argento; lavorava in una grande organizzazione agricola nazionale, poi ha mollato tutto d’improvviso, ed è venuta qua.
L’azienda è di otto ettari, per la maggior parte a oliveto, ma c’è anche un vigneto secolare, il meleto, l’orto biologico, lembi di pascolo e l’ombra scura delle querce. Produce un olio DOP di qualità superiore: Raffaele Sacchi, insigne maestro di extravergine della Federico II, ha scoperto coi suoi studi che la “minucciola”, la varietà tradizionale di olivo che qui si coltiva, sviluppa in questi suoli un particolare bouquet, con un terpene – il limonene – che conferisce all’olio una fragranza di agrumi.
Trascorri una giornata con Vittoria, e capisci una volta per tutte che il paesaggio – che qui è il motore di tutto – non è una cartolina, ma un’immane fatica quotidiana. Conosce i suoi duemila olivi uno a uno, ce ne sono di giovani e di secolari, col tronco meravigliosamente contorto e scolpito, me li mostra come opere d’arte, ma lungi da lei l’idea di una conservazione tout court. Perché questi paesaggi continuino a vivere, c’è bisogno di innovazione intelligente, ed allora lei studia nuovi sistemi di allevamento e potatura che facilitino la raccolta delle olive, preservando la bellezza dei luoghi. Per il resto, è un lavoro senza fine, per curare l’orto, il frutteto, il bosco, e poi le pergole, i muri in pietra, le strade e i sentieri: in una parola, tutti gli ingranaggi minuti che compongono la grande macchina del paesaggio.
Poi c’è l’altra parte di lavoro, non meno impegnativa, che è l’accoglienza degli ospiti, nelle stanze fresche e ornate della casa: circa duemila presenze l’anno, da Pasqua a inizio novembre, per il 90% stranieri, inglesi, francesi scandinavi, che prenotano tutto via web. A colazione incontriamo una famiglia olandese, in tenuta da escursione, coi due figli ragazzini. La maggior parte arriva a piedi, vengono per camminare i sentieri della Penisola e della Costiera, ma anche per visitare le aree archeologiche, pochi sono qui solo per il mare. Cercano da noi il Mediterraneo, il nostro Mediterraneo, fatto di giardini millenari, di spazi aperti, di montagne terrazzate e colline che emergono improvvisamente dal mare. Determinante in tutte queste cose è stata la sinergia con Genius loci, l’agenzia per il turismo sostenibile fondata da Peter Hoogstaden, un visionario pianificatore olandese che si è innamorato delle nostre terre, e riesce con uno straordinario lavoro a condurci escursionisti da tutte le parti del mondo.
Dicevamo che il paesaggio è fatica, e Vittoria mi racconta quanto sia difficile reperire manodopera qualificata, ingaggiare maestranze che sappiano potare, che conoscano le tecniche tradizionali per ricostruire una pergola o un muro a secco. Giovani che siano magari disposti ad apprendere, a costruirsi su queste cose una professionalità e un futuro. Per lanciare un segnale, con Giulia e Antonella De Angelis del FAI, Vittoria ha organizzato per maggio prossimo un laboratorio pratico, una vera e propria “scuola di paesaggio”, per insegnare le tecniche tradizionali, che si terrà qui a Le Tore, e alla stupenda Baia di Ieranto.
Per il resto il problema, come accade in molti paesaggi storici della Campania, è che le aziende agricole della Penisola sono piccole e frammentate, tanto piccole che l’ISTAT rileva meno di un terzo di quelle esistenti; il resto è gestito da agricoltori invisibili, che sfuggono alle statistiche ufficiali, e che incontrano difficoltà insormontabili nell’accesso agli aiuti comunitari.
In queste condizioni, mantenere vivo il paesaggio è una missione impossibile, i costi sono troppo alti, le aziende si spengono una a una: secondo Vittoria, l’unica strada è quella di promuovere forme di gestione associata delle operazioni di manutenzione e potatura, unendo le forze anche per cose come l’assistenza tecnica, la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti, la gestione dei flussi turistici. In questo modo diventerebbe anche più facile curare i poderi in abbandono, rimasti orfani di agricoltori. Insomma, bisognerebbe considerare la Penisola come un unico paesaggio-azienda, ma siamo molto lontani, le politiche pubbliche latitano, mentre l’urbanizzazione e i parcheggi interrati continuano a mangiarsi suoli e terrazzamenti, ed il bosco avanza sulle aree agricole abbandonate.
Nel racconto combattivo di Vittoria, alla fine, cogli come un senso di solitudine. Se è il paesaggio il nostro vero petrolio, è venuto il momento di passare da questi faticosi successi individuali a un gioco di squadra, ricordando che stiamo parlando di una nuova economia in grado di crescere e affermarsi nel mercato globale; ma anche di una grande opera d’arte collettiva, costruita nei secoli, che i turisti di tutto il mondo accorrono ancora ad ammirare; dell’espressione migliore, in definitiva, del vivere coordinato di una società.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 16 aprile 2014
Ci sono alberi che cadono, nella piana campana, ma anche foreste che crescono, e il problema, come al solito, è che non fanno rumore. In mezzo al disordine della grande pianura, ci sono cose che funzionano, ed anche molto bene. Un esempio è a Parete, il piccolo comune con il quale termina a sud la provincia di Caserta. Ci arrivo una mattina fredda di inizio primavera, scendo dal viadotto dell’asse mediano, seguo a destra la provinciale che corre tra i campi, fino allo stabilimento della Cooperativa Sole. E’ un piccolo grande gioiello: 100 agricoltori associati, 200 addetti stagionali, per un fatturato che supera i 26 milioni. Grazie a questi numeri, e soprattutto a un volume di ottantamila quintali l’anno, la Cooperativa Sole è diventata azienda leader in Italia nella produzione della fragola.
La struttura è moderna, ordinata, potresti stare a Forlì o a Bolzano. Passo per il magazzino, vengo investito dal profumo buono della frutta, soprattutto devo stare attento a scansare il traffico dei muletti che movimentano le pedane con le prime fragole. Pietro Ciardiello è il direttore, mi riceve sulla porta dell’ufficio, gli ho chiesto per una volta di raccontarmi la storia dall’inizio. Pietro è agronomo, è nato a Parete, è in tutto figlio di questa terra, con un tratto normanno negli occhi chiari, e nel rigore assoluto che mette nel lavoro.
L’atto costitutivo della cooperativa è del novembre 1962, reca in calce le firme dei ventisei soci fondatori: un gruppo di agricoltori visionari, che già all’inizio della grande trasformazione, aveva compreso che le micro-aziende della piana campana, da sole non ce la potevano proprio fare: che stare insieme era il solo modo per affrontare la modernità e il cambiamento, per dotarsi di macchinari e mezzi tecnici avanzati; soprattutto, per stare sul mercato a schiena dritta, senza sottostare alle opacità e agli arbitrii dell’intermediazione.
Di lì è partita la storia, che nel racconto di Pietro si sviluppa come un missile a più stadi. Nei primi vent’anni la cooperativa lavora pomodori e percoche. Tutt’intorno, il paesaggio millenario della centuriazione cambia rapidamente: al posto dei cereali e dei filari alti di vita maritata, dove non arrivano la città e le infrastrutture, c’è adesso la maglia precisa delle ortive e dei frutteti industriali, la rete dell’irrigazione. All’inizio degli anni ’90 poi, il grande cambiamento, la scommessa di puntare su un prodotto nuovo, la fragola, ed allora il paesaggio cambia ancora, accanto ai frutteti compaiono i tunnel e le serre. Associata a questa, la scelta coraggiosa di sganciarsi una volta per tutte dal mercato locale, e di collegarsi stabilmente alla rete della grande distribuzione, con il risultato che i prodotti di Parete finiscono in prevalenza sulle mense esigenti del centro-nord e di mezz’Europa, più che su quelle nostrane
Ma la decisione cruciale, è quella di puntare tutto sulla qualità e il controllo dei processi produttivi. Da un ventennio la cooperativa è all’avanguardia nella lotta a malattie e parassiti con metodi biologici, spende ogni anno duecentocinquantamila euro per l’acquisto degli insetti utili, la chimica di fatto è abolita. C’è una squadra di agronomi che segue passo passo, in tutte le aziende associate, l’intero ciclo di coltivazione, con la tracciatura di ogni singola vaschetta di fragole, dal campo al banco del supermercato.
Ma Ciardiello non vuole parlare di queste cose. Si limita a dire che l’obiettivo della cooperativa è fare un prodotto sicuro, semplicemente buono. Perché secondo lui, alla fine, la qualità della fragola di Parete è merito del suolo, della terra vulcanica che il Padreterno ci ha regalato, piovuta quindicimila anni fa dai vulcani flegrei, che è poi realmente la più fertile dell’universo conosciuto.
In questo modo si torna, al di là delle complicazioni della tecnica, a una cosa semplice, che è il legame con la terra. Lo stesso legame che spinse quei ventisei agricoltori a mettersi insieme per coltivarla, migliorarla, custodirla, per costruirsi una prospettiva di vita. Da questo punto di vista, i quattrocentocinquanta ettari che la cooperativa Sole coltiva attualmente, sono un presidio sicuro di economia, di sapienza tecnica e spirito civile. Come lo sono certamente anche gli altri centoquarantamila ettari di pianura agricola che ancora rimangono, che però vivrebbero assai meglio, più prosperi e sicuri, se quel modello venisse emulato e replicato.
Perché l’agricoltura della Campania rimane per molti aspetti un paradosso. A scala nazionale siamo nel gruppo delle regioni di testa per valore della produzione, pur avendo solo la metà della superficie agricola. Questo significa che le nostre terre, come quelle vulcaniche di Parete, hanno una produttività doppia rispetto al resto d’Italia. Campania felix è tutta qui, e immaginiamo allora cosa riusciremmo a fare, se solo ci organizzassimo meglio. Se cogliessimo pienamente il messaggio di quei ventisei agricoltori, che mezzo secolo fa, rischiando tutto, indicarono la strada, ancora tremendamente moderna, che è quella di lavorare insieme, di fare rete, sistema: di abitare questa terra come una foresta, anziché come alberi isolati.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 16 aprile 2016 con il titolo “Il paradiso delle fragole delizia le mense di mezza Europa”
Antonio di Gennaro
Il suolo è la base della vita, è quella cosa che regge tutto l’ecosistema e anche, in definitiva, l’intera comunità umana. Dal suolo traiamo il cibo, le fibre, il legno; ma è anche il grande filtro naturale che depura l’acqua buona che beviamo. Insomma, i suoli lavorano per noi, in tanti modi diversi. I suoli della piana Campania, in particolare, per la loro natura vulcanica e il clima favorevole, sono tra i più fertili dell’universo conosciuto. Per fabbricare tutta questa fertilità, la natura ci impiega del tempo, e i differenti strati del suolo sono come le pagine di un libro, nel quale possiamo leggere quindicimila anni di storia naturale: un racconto spettacolare di eruzioni, inondazioni, cambiamenti climatici, colonizzazioni agricole.
Insomma, il suolo è la risorsa dal quale dipende il nostro futuro, è fragile, non si rinnova facilmente, ed è maledettamente importante proteggerlo. Per tutti questi motivi, appare davvero sconcertante e paradossale il recente provvedimento con il quale il comune di Caivano ha ordinato ad una ventina di agricoltori, nientemeno che di smaltire in discarica lo strato superficiale dei suoli, proprio quello più fertile. Con un simile provvedimento, quello che è il nostro tesoro durevole di fertilità, viene trasformato in un rifiuto come un altro.
Quali siano gli inghippi burocratici che hanno condotto a una simile, assurda decisione, è presto detto. L’analisi di quei suoli ha evidenziato un contenuto in alcuni microelementi, in particolare il berillio e lo stagno, superiori ai limiti della legge nazionale, la 152. Peccato che nei suoli di Caivano quei contenuti particolari di microelementi siano legati ai “valori di fondo”, cioè ai valori che contraddistinguono naturalmente quel determinato tipo di suolo. Insomma, quei microelementi non provengono da contaminazione, ma ce li ha messi il Padreterno. Per dirla tutta, la peculiare composizione dei nostri suoli è un aspetto peculiare della loro fertilità, è il vero segreto di Campania felix.
Nel caso dell’ordinanza di Caivano, l’ignoranza di tutte queste cose, assieme ad un goffo e incomprensibile eccesso di zelo, ha generato un mostro burocratico, trasformando inopinatamente la nostra risorsa più importante in un pericoloso rifiuto. E imponendo in prospettiva, una rimozione totale dei suoli, tenuto conto che quei microelementi sono presenti anche negli strati profondi. Insomma, dopo aver rimosso lo strato superficiale, dovremmo procedere sbaraccando per intero le nostre pianure, o cessare del tutto le attività agricole, che rimangono pur sempre uno dei pilastri economici e sociali di questa nostra scombinata regione.
E evidente che questo clamoroso errore deve essere rapidamente sanato, evitando a quelle venti aziende, agli imprenditori agricoli e alle loro famiglie, un danno ingiusto, una mortificazione imperdonabile, e all’intera agricoltura regionale una condizione di funesta precarietà. Un passaggio cruciale, è l’ufficializzazione da parte della Regione dei valori di fondo che contraddistinguono i nostri suoli, seguendo la strada di altre regioni, che hanno dovuto affrontare problemi simili, prevenendo alla base la possibilità che simili provvedimenti possano verificarsi ancora. Bisogna agire subito, ci stiamo coprendo di ridicolo.
Per una storia di suoli fertili maltrattati, per fortuna ce n’è una buona di suoli recuperati. In questi giorni il Commissario per le discariche di Giugliano, Mario De Biase, e i ricercatori della Federico II coordinati dal docente di agronomia Massimo Fagnano, hanno completato l’allestimento del campo pilota di S. Giuseppiello: si tratta di un rigoglioso frutteto di sei ettari, di proprietà della famiglia Vassallo, nel quale Gaetano, pentito di giustizia, ha confessato lo sversamento di fanghi industriali ricchi di cromo. Su quei suoli, ora sequestrati, è stato ora impiantato un bosco di ventimila pioppi, che lavoreranno, assieme a compost e batteri, per ripulire l’ecosistema. Si tratta di una metodologia efficace e a basso costo (venti volte meno delle tecniche tradizionali) per recuperare i suoli, con il vantaggio di mantenerli alla destinazione agricola; un approccio che potrà essere applicato agli altri suoli della piana con problemi analoghi. Il lavoro di questa grande macchina verde sarà accuratamente monitorato nel tempo, seguendo attentamente l’andamento di tutti i parametri fisico-chimici e biologici.
Ricordiamoci di questo nuovo bosco, andiamo a visitarlo. A S. Giuseppiello non è solo la fertilità che stiamo ricostruendo, ma la credibilità della Repubblica: il paesaggio verde che rinasce al posto del degrado e dello squallore, è un presidio di legalità e civiltà, il segnale visibile che le cose possono cambiare.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 13 aprile 2016
Antonio di Gennaro, 8 aprile 2016
Sei ettari di frutteto, proprio vicino alla discarica ex RESIT, tristemente famosa, all’interno della cosiddetta “Area vasta” di Giugliano. In questo arboreto magnifico per anni Gaetano Vassallo, oggi collaboratore di giustizia, come accertato dalle indagini della Magistratura, ha scelleratamente interrato per anni fanghi industriali. Ed è proprio in quest’area simbolo, attualmente sottoposta a sequestro giudiziario, che il Commissariato di Governo per le bonifiche delle discariche di Giugliano e i ricercatori della Federico II stanno realizzando un importante progetto pilota, utilizzando tecniche di fitorisanamento, sarebbe a dire utilizzando le piante e i microrganismi per pulire i suoli.
Al posto delle tecniche ingegneristiche tradizionali, estremamente costose, e che per di più non consentono di proseguire con l’agricoltura, nel fondo di S. Giuseppiello si piantano alberi. Proprio oggi è stata completata l’operazione di messa a dimora di ventimila pioppi, che lavoreranno negli anni per ridurre la frazione biodisponibile dei metalli ora presenti nel suolo. La spesa: circa ottocentomila euro, al posto dei venti milioni che sarebbero serviti con le tecniche tradizionali. Con il vantaggio di conservare queste aree all’uso agricolo, di non consumare il suolo e il paesaggio rurale.
L’impianto del bosco è stato preceduto da un monitoraggio capillare, centimetro per centimetro, con tecniche innovative, delle effettive condizioni di contaminazione dei suoli. Sono state così prodotte mappe dettagliatissime, che raccontano lo stato di salute dei suoli sia in superficie che in profondità, per intervenire adeguatamente punto per punto, in funzione delle effettive condizioni di contaminazione.
Queste indagini hanno consentito di accertare una cosa importantissima: le particolari proprietà filtranti dei suoli vulcanici di S. Giuseppiello impediscono la migrazione verso il basso dei contaminanti, evitando che arrivino alle falde. Ad ogni modo, il grande bosco verde che oggi si è finito di impiantare verrà costantemente monitorato dai ricercatori della Federico II, per seguire l’evoluzione di tutti i parametri chimici e biologici.
Si tratta di un approccio estremamente interessante, perché potrà essere esteso agli altri siti della piana campana che hanno gli stessi problemi, con costi compatibili, mettendo in sicurezza e riqualificando il paesaggio. E’ questo un punto molto importante: a S. Giuseppiello non si sta solo recuperando la fertilità dei suoli. Si sta anche ricostruendo il paesaggio. Al posto di un sito degradato, c’è ora un bosco verde che testimonia l’azione concreta dei poteri pubblici per rimediare ai crimini e agli errori del passato.
L’area è un laboratorio verde all’aperto, ma diventerà presto anche un’aula, un luogo di informazione e divulgazione, per mostrare e raccontare ai ragazzi e ai cittadini cosa si può fare concretamente per curare e monitorare gli ecosistemi agricoli feriti, per ricreare condizioni di sicurezza e salubrità, per conservare le nostre terre che sono le più fertili al mondo.
Insomma, lì dove c’era il degrado e l’illegalità, c’è ora un nuovo bosco che cresce, una grande macchina verde, un laboratorio all’aperto, un presidio visibile di legalità e di impegno, un luogo di comunicazione e informazione scientifica. Una strada da seguire, un esempio di come sia possibile finalmente passare dalla denuncia ai fatti, agli interventi concreti per recuperare il nostro territorio, il nostro paesaggio.
Antonio di Gennaro, 6 aprile 2016
E’ la torre la parte più antica del Casale fortificato di Teverolaccio, la costruirono a fine ‘400 gli Aragonesi, a presidio di questo pezzo della piana aversana, allora mezzo spopolato, ma crocevia strategico tra Napoli e le città di Capua e Acerra. Attorno alla torre nacque poi il Casale, una cosa a metà tra l’avamposto militare e la grande masseria, sede baronale e fulcro per tre secoli dell’economia e della vita del feudo. C’era il mulino, la cantina, il macello, la taverna, la chiesa; nel cortile interno, ogni mercoledì, si teneva il mercato. Poi, dalla metà dell’800, inizia la decadenza, il casale si trasforma poco a poco in rudere, alla periferia di Succivo, nel frattempo cresciuta dai duemila abitanti di inizio ‘900, agli oltre ottomila di oggi.
La rinascita del Casale di Teverolaccio inizia una decina d’anni fa, con un intervento di recupero finanziato con i fondi europei, ma è soprattutto merito di un gruppo di ragazzi visionari e cocciuti, che ne hanno fatto uno dei più belli esempi di agricoltura sociale in Campania. All’ombra del bastione aragonese, nel giardino intercluso voluto dal principe Pignatelli, ora sono gli orti, ordinati come i giardini di un’abbazia, curati con dedizione assoluta da un gruppo di pensionati di Succivo. Accanto agli orti, il “Giardino dei sensi”, realizzato in collaborazione con l’UNESCO, un museo vivente dove puoi immergerti nei tanti colori e profumi della flora mediterranea. Ci vengono la domenica i bambini, a imparare le piante, a sporcarsi con la terra e i colori, a respirare la campagna. Nei locali dell’antica stalla poi, c’è la Tipicheria, una taverna accogliente dove puoi fermarti a gustare i vini e i prodotti della piana, elaborati secondo le ricette tradizionali, nel rispetto assoluto dei cicli colturali e delle stagioni.
Tutte le attività sono promosse da una cooperativa sociale, si chiama Terra Felix, nata con lo scopo di curare la terra, insieme alle persone che la abitano. Accanto ai volontari, e ai dieci ragazzi che svolgono qui il servizio civile, ci lavorano giovani dal passato difficile, e disabili che vengono inseriti nella rete multiforme di attività. Ma la colonna portante sono i diciannove nonni che curano gli orti, tremendamente arzilli, proprio come quelli del Bar Lume nei racconti di Malvaldi. Si chiamano Angelo, Pepereniello, Pasquale, Alfonso, le loro foto sono in bacheca, insieme all’elenco dei prodotti in coltivazione: lavorano come matti, seguono i ragazzi e i bambini, insegnano, imparano, si divertono.
Le risorse finanziarie per partire le ha messe la Fondazione per il Sud, ma qui capisci che non è dai soldi, per quanto necessari, che è nata l’avventura, quanto piuttosto dalle persone, da un’idea di riscatto del territorio, nel morale prima che nella scombinata intelaiatura fisica. Così, l’ordine, il disegno degli orti e dei giardini che cogli all’interno della corte medievale, diventa quasi la mappa, il progetto di paesaggio che si vorrebbe ristabilire, irradiare al di fuori del Casale, in ciò che resta della grande pianura.
Salgo le scale della torre antica, con Paola, Francesco e Antonio Pascale che queste cose hanno immaginato e tramutato in realtà, assieme a Geophilos, il circolo di Legambiente nato quasi vent’anni fa. Tira vento, è freddo, lo sguardo spazia nell’aria tersa ed allora scopri con apprensione che il lembo di campagna strepitoso che attornia il Casale costituisce alla fine solo un tenue, fragile corridoio tra le conurbazioni ruggenti di Napoli e Aversa.
L’obiettivo del Casale di Teverolaccio è quello di proteggere quanto rimane di questi suoli preziosi, di riordinare la città sconnessa, restituire un senso ai luoghi, puntando proprio sull’agricoltura, sulla riscoperta del territorio e delle persone che lo abitano, a partire da quelle più deboli, in debito di futuro. In questo modo, l’antico casale torna sorprendentemente a svolgere funzioni simili a quelle che aveva nel Medioevo, quando era il centro delle trame economiche, sociali e culturali che tenevano insieme le comunità e i territori.
I ragazzi e i vecchietti del Casale ci credono, e rilanciano. Le richieste sono tante, ed allora vorrebbero realizzare altri 55 orti sociali. Il progetto si chiama “Succivo, orto d’Italia”, e mi chiedo, tornando a sera in città, se sia solo agricoltura, o piuttosto un’idea ostinata di cittadinanza, di nuova solidarietà, della quale avvertiamo assolutamente il bisogno.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 6 aprile 2016 con il titolo “Pensionati, disabili e ragazzi difficili: a Succivo si lavora nell’orto sociale”
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