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La domanda a questo punto è se il ministro dell’Ambiente Orlando abbia veramente intenzione di metter fine allo strano patto di non belligeranza tra Regione e Comune, che da due anni fanno melina sul caso rifiuti, rimandando a data da destinarsi la realizzazione degli impianti (quelli per il compostaggio, gli inceneritori, le discariche) previsti dal piano che l’Italia ha presentato a Bruxelles.
Nel dispositivo con il quale l’Ue deferisce nuovamente l’Italia davanti alla Corte di giustizia europea si afferma ancora una volta che l’esportazione su larga scala, fuori regione, dei rifiuti campani non è una soluzione accettabile. Tanto più che Bruxelles non è disposta a dimenticare gli ziggurat di 6 milioni di ecoballe in attesa nel mezzo della Piana Campana, tristi monumenti alla memoria del disastro commissariale, il cui smaltimento richiederà decenni. Nel frattempo, la multa che comunque dovremo pagare per la sostanziale inazione seguita alla sentenza che la Corte ha già emesso nel 2010, già ammonta a 30 milioni di euro.
Ciò che preoccupa è la constatazione di come, per motivazioni diverse, i tre livelli di governo che dovrebbero cooperare per una soluzione strutturale del problema dei rifiuti (Regione, Provincia, Comune), manifestino contemporaneamente un deficit di autorevolezza ed operatività, che appare difficilmente recuperabile, e di fatto condanna la comunità campana ad un’avvilente prospettiva di precarietà, mortificazione, declino.
Neppure le importanti innovazioni istituzionali alle porte – tra sei mesi nasce la città metropolitana di Napoli che non sarà, si badi bene, una riedizione sbiadita della vecchia provincia – sembrano suggerire ai nostri leader nuovi e più produttivi approcci ai problemi.
Di fatto, i necessari impianti di trattamento (per cortesia, lasciamo perdere le fughe oniriche verso la West Coast) che il piano regionale poneva in capo al capoluogo, devono ora essere pensati alla nuova scala metropolitana. Si apre così la possibilità di una concertazione seria e responsabile tra le diverse città, con l’obiettivo non di scaricare sugli altri i pesi indesiderati, ma piuttosto di armonizzare le politiche comunali nel quadro di una sola, coerente strategia di aria vasta. Localizzando gli impianti industriali di trattamento sulla base di una partnership fatta di garanzie, impegni, accordi trasparenti, incentivi, compensazioni, controlli.
Tutto questo, naturalmente, presuppone un capitale minimo di credibilità, una capacità di leadership della città di Napoli, di cooperazione con le altre città e con la Regione, che è cosa diversa dall’attuale accordo di reciproca copertura, all’insegna del rimando, dell’annuncio ad effetto, di una coerenza fatta solo di irresponsabilità.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 22 giugno 2013.
dal sito http://www.immondo.blogspot.com
La periferia di Napoli, luogo in gran parte inesplorato, è questa volta protagonista di un volume di Gianni Fiorito, di mestiere fotoreporter, intitolato “Terra Buona- Ponticelli, il paesaggio e la memoria” e accompagnato dai testi di Luca Rossomando, che narra senza stilemi e abbellimenti di una quotidianità popolare, alla ricerca di tracce che raccontino del passato agricolo di Ponticelli e l’ incedere del presente industriale. Così le fotografie si fanno a strati, ad anonimi casermoni si intervallano terriccio e distese di verde; serre e natura dividono l’ inquadratura con orizzonti fatti di case. Passato e presente non solo si allineano, ma si sovrappongono. Ecco allora che la terra si fa buona, perchè è terra dove si lavora, sbocciano peschi a ridosso di palazzi e i campi di papaveri fanno da contraltare a sgraziate residenze operaie. Terra buona che semina e produce associazionismo. Lo stesso ritratto nelle marce ambientali, nei murales che dicono della vita dei ragazzi di una periferia che stenta a trovare un propria identità, ma che conserva valori buoni, di una volta, e coscienza civile. Quella di cui parla anche Rossomando nei racconti-interviste: sette testimonianze che comunicano parallelamente con i segni visivi. I passanti, catturati con foto che sembrano rubate, emergono come presenze indistinte di un’ affamata pampa napoletana, che tutto inghiotte, tranne le ciminiere. D’ altro canto è questo il merito maggiore del volume, cercare se non la bellezza ovunque, almeno l’ interessante, perchè è proprio come osservò Pasolini, che «quello che va difeso è questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare»
Giuliana Calomino, Il passato e il presente di Ponticelli ‘terra buona’ della coscienza civile,
Repubblica Napoli, 15 giugno 2013
Gianni Fiorito e Luca Rossomando, “Terra Buona- Ponticelli, il paesaggio e la memoria”, 44 edizioni”
Disegno di OTTOEFFE per Napoli Monitor
E’ il titolo dell’articolo di Luca Rossomando pubblicato il 16 giugno sull’edizione napoletana di Repubblica. Racconta come, nel dedalo della periferia post-industriale, tra fabbriche dismesse e rioni di edilizia popolare, stiano fiorendo esperienze spontanee di recupero dei preziosi frammenti interclusi di terra, ciò che resta di un ecosistema e di una tradizione agronomica secolare legata ai fertilissimi orti umidi della piana del Sebeto. L’iniziativa parte da scuole pubbliche, comitati, semplici cittadini, naturalisti ed agronomi che prestano volontariamente la propria consulenza. Quella che emerge è una strategia silenziosa che, partendo dalla cura degli interstizi di terra incastrati nel tessuto metropolitano – non più considerati come “spazio vuoto” destinato all’illegalità e al degrado –, attraverso l’impianto di aiuole, filari, orti e arboreti didattici, propone un percorso concreto di recupero della qualità urbana.
Scrive Luca in chiusura di articolo: “I tanti animatori – di tutte le età – di queste minuscole esperienze di cura dei luoghi in cui si vive, non costituiscono un’esclusiva della periferia nord della città. La loro esistenza, in questi e in altri luoghi, è una sommessa esortazione per molti: a chi di mestiere racconta la città ribadisce che ogni quartiere è un microcosmo complesso, da indagare e descrivere nei dettagli, senza fermarsi alla facile, pigra, a volte interessata dicotomia tra buoni e cattivi, tra demoni ed eroi. A chi amministra la cosa pubblica dice per l’ennesima volta che si può e si deve fare meglio del quasi nulla ce oggi si fa: che la qualità della vita negli spazi pubblici è – per estensione – anche un progetto di trasformazione della città, al momento disatteso e strumentalizzato; che l’organizzazione tra pari, il mutuo appoggio, l’attivazione dell’autostima dei più emarginati costituiscono obiettivi politici e mostrano, con chiarezza a volte commovente, che la città è in primo luogo di chi la abita, di chi lotta per migliorarla, di chi spesso in solitudine deve subirla e difendersene. Dopo, molto dopo, vengono i turisti, i grandi eventi e le chiacchiere sul “ritorno di immagine”.
Confesso tutta la mia preoccupazione per una tendenza che va sempre più affermandosi: l’impulso irrefrenabile dei sindaci di centrosinistra neoeletti, a dichiarare per prima cosa la volontà di liberare qualcosa, si tratti dei Fori Imperiali o del Granatello di Portici.
Evidentemente de Magistris e il suo “lungomare liberato” hanno fatto scuola.
Quello che non mi convince è il fatto che queste iniziative (la cosa riguarda anche Piazza Plebiscito, in stato di sempre più triste abbandono) non si portino poi dietro un progetto di gestione, un progetto di città, con tutti i suoi funzionamenti.
Così a Napoli le politiche unidimensionali di pedonalizzazione del lungomare, hanno mandato in tilt la circolazione veicolare a scala urbana. Tanto da costringere l’assessore Donati, quando a causa delle proteste di popolo ha poi dovuto fare dietrofront, a scusarsi per non aver compreso le “relazioni tra i quartieri della città” (sic!).
Più che liberare, qui è necessario proporre progetti di gestione convincenti degli spazi pubblici, con umiltà, con la consapevolezza che le città sono meccanismi complicati, che le politiche di sostenibilità urbana devono integrare tanti aspetti, se vogliono veramente essere utili, e durare.
(vedi anche il post “La strategia e la tattica”, https://horatiopost.com/2013/04/12/la-strategia-e-la-tattica/).
Ora per i giornali sono diventati “alberi killer”. Gianni Rodari nel suo “La grammatica della fantasia” lo chiama “binomio fantastico”: il mettere insieme due parole che poco hanno in rapporto, per generare significati originali e inattesi. La semiotica ha i suoi meccanismi ferrei: l’associazione tra “albero” e “killer” fa interagire i campi di significato, e così il pino centenario di via Aniello Falcone si antropomorfizza, acquista una sua capacità inaspettata di aggressione ed offesa. La stessa cosa capita al fulmine o al Vesuvio, ma qui la cosa è diversa.
Chiunque allevi un pesce rosso, un canarino, un cane, un piccolo geranio o un albero di limone sa quanto impegno è necessario per curare quotidianamente la vita in un ambiente artificiale. Mantenere un albero centenario nel cemento della città richiede un’attenzione e una cura straordinaria. Se non si è capaci di questo, di badare a questi elementi notevoli di qualità del paesaggio urbano,meglio rinunciare, perché l’annosa pianta, abbandonata a sé stessa, si trasforma effettivamente in un rischio. Con esiti tragici, come successo per la giovane madre schiacciata nella sua auto nella strada più panoramica del Vomero.
Lo spiega bene Marco Demarco sul suo blog “Vedi Napoli”: “… a spezzarsi non è stato solo un albero, ma un pezzo di quel meccanismo complesso che garantisce il governo della città… Non ci sono più procedure certe, prassi consolidate. Non c’è più chi certifica e chi controlla. Nella consapevolezza che tutto sia ormai lasciato al caso … “.
E’ chiaro che non si tratta di fatalità ma di incuria, lasciamo da parte i giochetti semantici, il povero albero non c’entra proprio niente.
(vedi anche il post di Marco Demarco, “Noi e la città, cosa ci dice quel pino crollato in via Aniello Falcone” , Corriere del Mezzogiorno on line, 12 giugno 2013).
Di questi tempi le antenne più sensibili sono quelle dei cineasti. Moretti ha visto e raccontato in anticipo le evoluzioni del potere in Italia, quello politico e quello religioso. Ora è il momento di dare il giusto peso a “Le idi di marzo” di Clooney, che era parso un film bello ma ordinario. E che ha avuto il merito invece di suggerire una chiave di lettura di questo secondo mandato democratico, cogliendo d’anticipo i venti gelidi, i veleni e le paranoie che evidentemente vi spirano dietro.
(P.s. Per tacere della luce poco amichevole che PRISM getta sulla patina progressista dei signori della rete e dei social network… ).
E’evidente che le cose stanno prendendo una brutta piega. Ci era stato spiegato che, considerata la sua natura, il governo sarebbe stato “di servizio”, si sarebbe occupato non di “politica” ma di “politiche”. Sarebbe a dire cose concrete e urgenti come il lavoro, i servizi essenziali per le famiglie, il rilancio dell’economia. Tutto questo, preso atto del l’implosione del Pd e dell’inagibilità dei 5 Stelle, poteva anche starci. Ma qui si va inspiegabilmente oltre. Questa grande coalizione, che sembra tenuta insieme dai ricatti incrociati, più che da obiettivi minimi condivisi, vorrebbe ora riscrivere nientemeno che le regole e le condizioni entro cui la politica si attua, metter mano alla Costituzione del ’48. Benjamin Constant ammoniva a legiferare il meno possibile, a modificare con riluttanza le regole fondamentali. Capacità della buona politica è di far fuoco con la legna che c’è, cavando il meglio dalla situazione data. Con intelligenza, generosità, aggregando attorno ad un progetto di interesse generale pezzi di società, pezzi di istituzione, pezzi di economia e di potere. E’ questa la grande coalizione che serve, non il patto inconfessato e inconfessabile tra comitati autoreferenziali di notabili.
Virgil Finlay, The old gentlemen from Providence (da http://cthulhufiles.com/index.htm#art).
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