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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 21 marzo 2023

E’ bella e opportuna la scelta dei carabinieri forestali di celebrare insieme domani, ad Avellino, le due giornate internazionali che l’ONU ha voluto dedicare alle foreste (21 marzo), e all’acqua (22 marzo): le due risorse sono strettamente legate all’interno dell’ecosistema-mondo, il ruolo dei boschi nel ciclo complesso che produce l’acqua dolce per la vita quotidiana dell’uomo e degli altri viventi è assolutamente determinante, si tratta di cose che dobbiamo proteggere e curare insieme.

Così come è bella e opportuna la decisione di celebrare l’evento regionale ad Avellino, a partire dalle 9.30 presso l’Auditorium BPER Banca, al Centro direzionale “Collina Livorini” in Via de Due Principati 143, nel quadro delle iniziative organizzate a scala nazionale. L’Irpinia è uno dei cuori verdi della Campania, è in questa terra una parte cospicua del patrimonio boschivo regionale, ed è chiaro che non stiamo parlando non solo di ambiente e paesaggio, ma di una risorsa multifunzionale che contribuisce all’economia, al lavoro, alla sicurezza del territorio, insomma alle condizioni di vita nelle nostre aree interne.

Il punto di partenza è l’importanza che la risorsa forestale e quella idrica hanno per la nostra regione. Il 37% del territorio regionale è coperto da boschi, e la tendenza è in aumento, la copertura forestale è raddoppiata in un settantennio, toccando armai una superficie complessiva vicina ai 500.000 ettari, come effetto del drammatico abbandono del nostro Appennino, che rimane per inciso, a partire dall’Irpinia, la più grande fabbrica di acqua dolce del Mezzogiorno d’Italia.

Diversamente da altre parti del mondo, dove il bosco complessivamente è in arretramento, da noi il problema è quindi quello contrario: prendersi cura dei nuovi boschi, che sono cresciuti senza chiedere il permesso, ed ora hanno bisogno della nostra attenzione, perché l’abbandono non è una strategia perseguibile, come la Costituzione dice, e come gli incendi del Vesuvio e le frane di Sarno e Casamicciola (tutti eventi nei quali il bosco ha giocato un ruolo determinante) hanno drammaticamente ricordato. Curare i nostri boschi, usare con sobrietà l’acqua preziosa della quale disponiamo, è questa la strada per contribuire alla lotta difficile al cambiamento climatico, al degrado delle risorse essenziali alla vita.

Scorrendo il programma della giornata è evidente l’intenzione di organizzare su questi temi fondamentali non un evento, ma una giornata di ragionamento e lavoro, alla quale prendono parte le istituzioni ai diversi livelli, l’università con le sue missioni di ricerca, formazione e promozione territoriale; il mondo della scuola, con il coinvolgimento attivo di docenti e studenti di una decina di istituti secondari afferenti ai più diversi indirizzi umanistici, scientifici, tecnici, artistici.

Insomma, intorno alla gestione sostenibile dei boschi e alla protezione e all’uso responsabile della risorsa idrica può nascere in Campania una nuova economia, nuove opportunità e percorsi di lavoro qualificato per i nostri ragazzi: la giornata di oggi ad Avellino serve proprio a questo, a proteggere la nostra terra, a rilanciarne la bellezza e l’economia, partendo da un un’alleanza tra istituzioni, scuola,  mondo della ricerca, è da questo gioco di squadra che possiamo ripartire.

Due presentazioni, a due giorni di distanza, due pomeriggi a Napoli, ma sono pagine di una storia sola.

Si inizia il 29 marzo, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con la presentazione del libro importante nel quale Andrea Costa e Sauro Turroni hanno racconto gli scritti, i discorsi parlamentari, le proposte di legge di Antonio Cederna (“Antonio Cederna, un giro d’orizzonte”, Biblion edizioni).

Poi il 31, all’Archivio di Stato, la presentazione dell’ultimo libro di Vezio De Lucia, “L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana” DeriveApprodi editore.

Le due locandine, su Horatiopost nei prossimi giorni, qualche riflessione a proposito.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 24 febbraio 2023

E’ evidente che la scelta tra la “restanza”, come l’ha chiamata l’antropologo Vito Teti, e il cercare altrove le proprie opportunità di vita e lavoro, non è sindacabile, attiene alla sfera sacrosanta delle libertà personali. E’ altrettanto vero però che a scala macro il discorso cambia, un territorio che perde i suoi abitanti un problema ce l’ha, una riflessione è obbligato a farla.

Da questo punto di vista l’ultimo rapporto ISTAT sulle migrazioni, ne ha parlato Bianca De Fazio di recente sulle pagine di questo giornale, offre uno scenario assai preoccupante per il Sud Italia, che perde nell’ultimo decennio 525mila residenti, come saldo tra un milione e 138mila partenze e 613mila arrivi. Maglia nera la Campania che da sola contribuisce per il 30% alle cancellazioni, mentre la provincia italiana che perde più abitanti in assoluto è quella di Napoli, con 17mila partenze.

Stiamo parlando evidentemente di migrazioni interne, di persone che lasciano il Mezzogiorno per le regioni del Nord, la Lombardia prima fra tutte. In questo modo il Sud Italia aiuta il Nord a compensare le sue perdite demografiche, dovute questa volta agli espatri. E’ un fenomeno che riguarda in special modo i ragazzi laureati, 157mila dei quali hanno scelto di trasferirsi in regioni del Nord. La conclusione, secondo il rapporto ISTAT, è che “… le giovani risorse qualificate provenienti dal Mezzogiorno costituiscono dunque una fonte di capitale umano per le aree maggiormente produttive del Nord e del Centro del Paese e per i paesi esteri.”

In un simile scenario, non è nemmeno più possibile considerare l’emigrazione un rimedio doloroso ma in qualche modo salutare per i territori, come poteva scrivere Manlio Rossi-Doria alla metà del secolo scorso, perché consentiva di riequilibrare un rapporto sbilanciato tra sovrappopolazione e scarsità di risorse.

Era quella un’altra Italia, premoderna, la metà degli occupati lavorava in agricoltura, ora sono il tre e mezzo per cento. Nella fase storica che viviamo la perdita di abitanti corrisponde a un impoverimento netto, a un’erosione ulteriore della rilevanza che il Mezzogiorno ha negli equilibri nazionali.

Al tavolo dove si distribuiscono le risorse, dove già siamo soccombenti, alla fine è un circolo vizioso che rischia di autoalimentarsi, tra irrilevanza e ritardo di sviluppo, con la rete dei servizi essenziali che con le regole che si stanno decidendo, a partire dalla scuola, si sfilaccia e indebolisce sempre più.

Le aspettative per il cittadino non sono rosee. Ragionevolezza vuole che occorra tempo per invertire la rotta, servono “i cavalli dal fiato lungo” dei quali parlava sempre Rossi-Doria, con orientamenti e scelte perseguite tenacemente, superando le discontinuità e i cambi dei governi locali.

Tutto questo, per di più, in un contesto nazionale non favorevole. Nella nostra Costituzione sono scritti insieme i principi dell’unità della Repubblica, dell’impegno a ridurre le distanze tra persone e territori, dell’autonomia, ma il bilanciamento attuale è tutto a favore di quest’ultima, con i primi due ridotti a parole di circostanza. L’egoismo e il particolarismo prevalgono.

Sarebbe il momento giusto questo per considerare chi siamo veramente, non un deserto indistinto ma un mosaico di problemi e risorse, di aree di sofferenza, ma anche di cose che funzionano, e l’affermazione del Calcio Napoli può essere di stimolo e di esempio, di come sia possibile affermarsi ad armi pari, sul campo, puntando su un proprio modello organizzativo, un’applicazione, una strategia, uno stile di gioco.

E’ quello che dovremmo cercare di fare a una scala diversa, eludendo con scaltrezza lo spot fasullo nel quale molti vorrebbero relegarci: l’agricoltura e il turismo sono senza dubbio importanti, sono elementi di attrattività, ma da soli non bastano, quando va bene formano un quarto del pil, il resto lo fanno l’industria, la manifattura, i servizi, possibilmente non come li abbiamo pensati nel ‘900, sfasciando il paesaggio, ma con una visione e uno stile nostro, da proporre con coraggio, col fiato lungo, sui campi dove si gioca il destino del Paese.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 30 gennaio 2023

Si presenta stamattina a partire dalle ore 10, nella Sala Cinese del Dipartimento di Agraria di Portici, l’ultimo lavoro di Alessandro Santini “La bonifica e lo sviluppo dell’agricoltura nell’Italia meridionale“, edito da Doppiavoce.

Un’opera destinata a durare, ampia, documentata, corredata da un’iconografia fantastica. Dall’antichità ai giorni nostri, il racconto del lavoro secolare di trasformazione del territorio del Sud Italia e della sua agricoltura attraverso la bonifica e l’irrigazione.

Un progetto di lunga durata nel quale istituzioni, politica, scienza, tecnica e cultura per una volta hanno lavorato insieme, lungo un filo rosso che parte da Antonio Genovesi e arriva a Manlio Rossi-Doria e agli sviluppi odierni, passando per gente come Antonio Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Eugenio Azimonti, Arrigo Serpieri, Emilio Sereni, solo per fare qualche nome.

Il libro è la ricostruzione di una visione del territorio come bene primario, che è parte costitutiva della tradizione del migliore meridionalismo, che ha sempre portato nel suo DNA un’attenzione particolare alla gestione sostenibile delle risorse, come premessa per un benessere sociale durevole, in largo anticipo sullo sviluppo delle discipline ecologiche nel ventesimo secolo.

E’ evidente che non stiamo parlando solo di agricoltura: nel concetto di bonifica del territorio (non per nulla definita “integrale”) non c’è solo il prosciugamento e l’irrigazione, ma l’organizzazione attraverso la realizzazione delle opere pubbliche essenziali – le sistemazioni montane, i borghi, le strade, le strutture e gli spazi comuni – delle condizioni primarie di abitabilità in paesaggi dove la vita e il lavoro dell’uomo nei millenni era stata resa costantemente difficile dal disordine idraulico, dalla malaria e dal latifondo.

Questo in pianura come in montagna, perché quello che a Serpieri e agli altri grandi protagonisti di questa storia risulta chiarissimo, è che in Italia la sicurezza del territorio parte dall’Appennino.

Il risultato è quello di un grande progetto urbanistico di scala territoriale, prima che agricolo, con un altro aspetto determinante, che è l’integrazione dello sforzo pubblico con quello privato.

Così, nella legge sulla bonifica integrale di Arrigo Serpieri del 1924, all’interno di una programmazione e una regia pubblica, lo Stato e i privati lavorano insieme, con l’ente pubblico che si fa carico delle opere di interesse generale, e il privato della realizzazione delle migliorie di scala aziendale.  

E’ grazie a questo approccio, proseguito in epoca repubblicana con la Riforma e la Cassa per il Mezzogiorno, che il sud del Paese ha cambiato faccia ed è entrato nella modernità, con le pianure costiere che a partire dalla metà del ‘900 si sono trasformate da paesaggi inospitali poveri d’uomini e attività, nel motore agricolo delle regioni meridionali. Il paradosso è che la bonifica di queste aree preziose ha costituito anche il presupposto per la loro urbanizzazione, che è aumentata di 6 volte in Campania dal dopoguerra ad oggi, passando da 20.000 a 120.000 ettari.

Le conseguenze nefaste sono molteplici: il consumo di suolo fertile, la disorganizzazione dei territori e delle reti, la perdita di senso dei paesaggi storici, e non ultima la migrazione verso la pianura di una fetta consistente di popolazione, con l’Appennino che si spopola e perde dal 1960 il 40% dei suoi abitanti.

Quella che dall’opera di Alessandro Santini risulta molto chiara è l’attualità e la modernità degli approcci  raccontati, che risultano ancora pienamente validi proprio nei tempi che stiamo vivendo di cambiamento climatico, di adattamento a condizioni ambientali meno favorevoli, di transizione verso modi di produzione agricola più  rispettosi della qualità delle risorse – suolo, acqua, aria, biodiversità, paesaggio – ma anche capaci di contribuire significativamente alla sicurezza alimentare del Paese.

E’ un lavoro che continua: accanto alle briglie e ai canali oggi lavoriamo coi satelliti e i sensori,  i modelli previsionali, i sistemi informativi e la rete, ma lo spirito e la visione restano gli stessi, è lo stesso albero che continua ad offrire buoni frutti al Mezzogiorno e al Paese.   

Era rimasto un po’ fermo Horatiopost, ora si riprende. Una raccolta di articoli scritti negli ultimi tempi per Repubblica Napoli.

Posillipo ovvero come ti ricostruisco la città

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 18 gennaio 2023

Questo giornale ha seguito passo passo la vicenda della ricostruzione dei viali distrutti di Posillipo, dando  conto di tutti i diversi aspetti, dei punti di vista, dei problemi aperti da risolvere, resta ora da ricomporre il quadro, stabilire finalmente il da farsi.

Alcune cose appaiono piuttosto chiare, a partire dal fatto che il punto critico non è la scelta della specie da impiegare. L’ha spiegato bene il soprintendente Buonomo: prima di pensare agli alberi occorre progettare il suolo destinato ad accoglierli.

Per fare questo è necessario ripensare la sezione stradale, il sopra e il sotto, e ricostruire preliminarmente lo spazio sufficiente di vita, l’habitat idoneo per i nuovi organismi viventi che intendiamo mettere a dimora per i prossimi 150 anni, assieme alla rete intricata dei sottoservizi.

Evitando in questo modo di ripetere gli errori e le forzature dei progettisti del Duce, che per ottenere viali imperiali di pronto effetto piantarono i pini alla metà della distanza necessaria per una loro crescita equilibrata, che è come pretendere di allevare un delfino nella vasca da bagno.

Una volta ricostruito un suolo fertile, è possibile riflettere su quali specie arboree impiegare per i nuovi paesaggi di Posillipo, che è un esercizio di saggezza e responsabilità, si tratta di capire il tempo che viviamo, perché l’ecosistema urbano della Napoli del terzo millennio non è quello (purtroppo) di inizio ‘900, c’è un clima fatto di eccessi e difetti d’acqua e temperatura, di eventi estremi, la vita dei grandi alberi in città è diventata una cosa assai complicata, in più ci sono i nuovi nemici, a cominciare dalla cocciniglia venuta da lontano che i pini del Duce li ha uccisi quasi tutti.

In un contesto ambientale così problematico la proposta dell’assessore Santagada di pensare a un gruppo di specie, in funzione della situazione specifica, piuttosto che a una specie sola, appare assolutamente ragionevole. D’altro canto il piano paesistico vigente è stato scritto quando il cambiamento climatico non era nella nostra mente, e una riflessione serena da parte delle istituzioni competenti, con le necessarie modifiche, sarebbe un atto di ragionevolezza, più che un cedimento.

Rimane il fatto che la ricostruzione di Posillipo potrebbe rappresentare un momento di svolta nella vita della città: la presa di coscienza che il lavoro che abbiamo davanti è quello di mettere in sicurezza e rigenerare il capitale urbano e vegtazionale nella sua interezza, da San Giovanni a Bagnoli.

Per fare questo occorre ricomporre daccapo una macchina comunale svuotata di energie e competenze: per manutenere il verde di Napoli occorrono almeno 20 agronomi in pianta stabile, non i valorosi quattro che lavorano a contratto. Occorrono gli ingegneri e gli architetti, e il flop del concorso con il quale dovevamo assumerne cento e ne abbiamo trovati una decina – l’ha raccontato bene Giuseppe Pulli su queste pagine – riempie la nostra mente di pensieri.

Lotta all’abusivismo e cura del bosco, le due facce della (in)sicurezza territoriale

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 28 novembre 2022

Quando irrompe dal limitare del bosco, sopra via Celario, il fiume di fango e massi ha percorso dal crinale dell’Epomeo un dislivello di 400 metri, dispone già di tutta la sua forza distruttiva, pure l’ago del sismografo impazzisce.

Prima di giungere al mare, gli resta da dilaniare un chilometro di terrazzamenti agricoli, case, persone e automobili e ha ragione Mimmo Calcaterra nella sua intervista al Corriere, siamo di fronte a un evento complesso: non una sola frana, ma una molteplicità di distacchi e liquefazioni, una dinamica che si auto-alimenta, dopo la pioggia anomala di una notte, e la mente va al maggio ‘98, ai giorni tragici delle cento frane simultanee di Sarno e Bracigliano.

Tutte cose che sapevamo già. I suoli vulcanici, sui quali cresce la foresta sopra Casamicciola, sono tra i più fertili al mondo, ma anche i più fragili, per certe loro proprietà chimico-fisiche, che in determinate condizioni di shock e umidità li trasformano in un istante da terra solida in fango.

Abitare queste terre significa perciò da sempre convivere con molteplici rischi: quello vulcanico (l’Epomeo è parte del complesso vulcanico dell’isola di Ischia, tuttora attivo); quello sismico, come la sequela tragica di terremoti, sino a quello recente del 2017, ci ricorda; e infine quello idrogeologico, e qui siamo alle frane di sabato mattina, anche se la prova generale c’era stata nel 2006, sempre a Casamicciola, quando una colata venuta giù dal Monte Vezzi cancellò la vita di quattro persone, insieme alla loro abitazione.

Nonostante i rischi, nella mente degli abitanti ha prevalso lungo quasi tre millenni un legame forte di vita con queste terre, con pratiche collettive virtuose, come  quella che ha portato alla costruzione nei secoli dei terrazzamenti storici, coi vigneti e gli orti arborati dell’isola d’Ischia, un ecosistema e un paesaggio rurale di bellezza e valore conservativo inestimabili.

Alle pratiche sociali virtuose sono seguite quelle distruttive, parliamo della sciagurata proliferazione nell’ultimo sessantennio, proprio nelle aree più a rischio, ai piedi della montagna fragile, di un tessuto disordinato e continuo di edilizia fai-da-te, che ha moltiplicato per sette la superficie urbanizzata: un mosaico scombinato di infima qualità, insicuro, che consuma il suolo e mortifica il paesaggio.

Ad ogni modo, nelle drammatiche foto di sabato, subito dietro le casupole disordinate di via Celario, si vede il mare verde della foresta, la fascia di boschi lussureggianti che ricopre con continuità i versanti alti dell’Epomeo, ed è anche intorno al bosco che i fatti di sabato ci portano a ragionare, perché è lì che il fenomeno è iniziato.

Come questo giornale ha più volte raccontato, dentro l’area metropolitana di Napoli, coi suoi tre milioni di abitanti, la più congestionata d’Europa, è pure presente, contro ogni aspettativa, una superficie forestale di 20.000 ettari, una città verde grande due volte il capoluogo, fittamente compenetrata con quella grigia di cemento,.

Si tratta di una ricchezza enorme, ma anche di un patrimonio di ecosistemi assai fragile, esposto com’è alle sollecitazioni del cambiamento climatico, con la temperatura media che sale, la siccità che morde, e il vento e le precipitazioni che tendono a concentrarsi in eventi a elevata intensità e energia, sempre più frequenti, i cui impatti sulle terre non sono più controllabili.

Se questo è il territorio nel quale ci tocca vivere, la prevenzione di eventi tragici come quello di sabato richiede di lavorare su molteplici fronti, cominciando da un cambio di marcia nella lotta all’abusivismo, un fenomeno che in queste terre tocca record continentali, ipotecando per il beneficio effimero di pochi, grazie alla storica assenza di controlli, il futuro di intere comunità.

A seguire, ciò di cui pure abbiamo disperatamente bisogno, è una nuova politica di cura e utilizzo programmato dei 20.000 ettari di foreste metropolitane, dai Monti Lattari al Vesuvio alle colline flegree a Ischia, attraverso un lavoro capillare, quotidiano, tenace di governo e messa in sicurezza dei suoli e dei soprassuoli, e di contenimento dei rischi di frana e incendio, il più delle volte conseguenze dei processi opposti, ugualmente nefasti, del sovra-sfruttamento e dell’abbandono.

Come sempre, è un problema di governo, cura e programmazione della casa comune, si tratti della città verde, fatta di foglie e tronchi, come di quella grigia, di pietra. L’alternativa, è la condanna dei nostri paesaggi più preziosi, delle economie locali, delle prospettive di vita delle nuove generazioni di abitanti, a un futuro incerto, un limbo perpetuo di approssimazione, dolore, precarietà, insicurezza.

Gli alberi di Ponticelli, un impegno per il futuro

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 22 novembre 2022

Una mattina a Ponticelli, dopo i giorni difficili della violenza, le istituzioni si sono ritrovate, il Comando forestale dell’Arma dei Carabinieri ha voluto celebrare qui, ieri, in questo quartiere di Napoli grande quanto una città, la Giornata nazionale dell’albero, mettendo a dimora nuovi alberi nel parco pubblico “Fratelli De Filippo”, ed è stato un bel momento di festa, sotto un cielo azzurro e terso, con una presenza folta di bambini, educatori, cittadini, neo-agricoltori degli orti sociali, e i tanti volti della rete di volontariato che è la risorsa inesauribile del quartiere.

Dicevamo le istituzioni, a tutti i livelli di rappresentanza, perché il progetto dei Carabinieri Forestali ha un respiro nazionale, coinvolge insieme a Napoli tutti i capoluoghi di regione d’Italia, è stato pensato in collaborazione con il Ministero per l’Ambiente e l’Unesco, anche questa giornata di Ponticelli è stata organizzata assieme a Regione Campania e Comune di Napoli.

Il progetto si chiama “Un albero per il futuro”, l’idea è quella di partire dagli alberi per ragionare insieme di cura e manutenzione della città, del diritto di ciascuno, si tratti di centro o di periferie, ad abitare un ambiente salubre, gradevole, stimolante; del rispetto della vita e della legalità.

Per tutti questi aspetti, il parco “Fratelli De Filippo” è veramente un luogo-simbolo. L’area verde è enorme, dodici ettari, più grande della Floridiana, è una delle opere della Ricostruzione, realizzato negli anni ’80 restò inaccessibile un decennio, poi finalmente inaugurato all’inizio degli anni ’90, con la prima amministrazione Bassolino. Il resto è una storia triste di declino: dopo decenni di gestione inesistente, la parte fruibile del Parco si arresta ormai al primo ettaro, con il grande piazzale: per i restanti undici, la vegetazione arborea di pini palme oleandri e magnolie è abbandonata a sé stessa, e va evolvendosi in boscaglia, un muro inaccessibile di rovi, con i viali e gli arredi che si sbriciolano e finiscono in malora.

La riconquista palmo a palmo di questo paradiso perduto è opera della comunità locale, della rete di associazioni, scuole, parrocchie fiorita nel tempo attorno al centro diurno “Lilliput” del servizio dipendenze dell’Asl Napoli 1, che ha strappato ai rovi terrazza dopo terrazza, grazie al lavoro di cittadini appassionati e cocciuti, dando vita al giardino di orti sociali  tra i più belli d’Italia, stamattina nell’aria fresca e pulita è tutto un ricamo preciso di filari di finocchi verze, cavoli e broccoli di ogni foggia, piante aromatiche, e il verde tenero delle fave.

L’elenco di sigle, organizzazioni enti che tiene in vita questa esperienza unica di riappropriazione dei luoghi è lungo, oltre il centro Lilliput per la cura delle dipendenze c’è il Nucleo Operativo di Neuropsichiatria Infantile dell’Asl Napoli1, le cooperative sociali “L’Albero della Vita” e “ERA”, ed ancora “ReMida”, “Renato Caccioppoli”, “Terra di Confine”, “Ve.Spe”, “ANMIL”, “La Roccia”, il “Comitato cittadino” di Ponticelli; le scuole pubbliche, con gli istituti superiori “Ugo Tognazzi”, “Archimede”, “Calamandrei”, poi certamente la Chiesa di San Pietro e Paolo, con la facciata ocra che dà proprio sul parco e stamattina brilla luminosa nel sole.

Alla fine anche l’amministrazione comunale ha dovuto riconoscere il valore di questa esperienza “dal basso” per molti versi unica nel panorama cittadino, stipulando con il Centro dipendenze dell’ASL Napoli 1 un accordo di collaborazione per la gestione degli orti sociali e degli spazi verdi riconquistati. All’interno dell’accordo, ciascun gruppo, ente, associazione, prende in affido una terrazza, impegnandosi a curarla e coltivarla rispettando un programma di gestione collettivo, costruito attraverso una serie paziente di incontri ed assemblee periodiche per risolvere i piccoli e grandi problemi, e decidere insieme gli sviluppi futuri.

Per le persone che prendono parte all’esperienza, gli orti sociali funzionano di volta in volta come spazi terapeutici, aule all’aperto per imparare la natura, luogo di incontro, di esplorazione, di gioco, di produzione artistica, di cura della persona, con l’agricoltura che rimane nonostante tutto, ancora in questo terzo millennio, il fulcro identitario di questo antico casale, il linguaggio comune, l’elemento di riconoscimento e aggregazione.

I piccoli delle scuole medie ed elementari sono arrivati stamattina con gli educatori delle cooperative sociali, molti di loro vengono da famiglie Rom, ridono e giocano con gli altri, ora tutti assieme aiutano gli operai forestali a mettere a dimora nella grande aiuola sul piazzale i giovani alberi, sono ontani, frassini, farnie, pioppi, olmi, le specie della foresta planiziale che c’era qui nella pianura del Sebeto, prima che i Sanniti fondassero il primo di villaggio, prima che il bosco fosse sostituito poco a poco dal sistema capillare di campi, porche, cavedagne e canali di scolo, il mosaico di orti che ha nutrito la città per duemilacinquecento anni. Tutto è descritto raccontato in una bella bacheca anch’essa dono dell’Arma

In una terrazza degli orti sociali le specie arboree messe a dimora sono invece quelle della tradizione agricola, il ciliegio, il melo, il gelso, il melograno. I bambini guardano gli operai al lavoro, i loro gesti lenti e pensati, capiscono che piantar alberi è un’arte, quella di saper scegliere l’albero giusto, al posto giusto, per la giusta funzione.

Assieme agli alberi, sono parte del dono un grande tavolo, con le panche, tutto in legno massiccio, ricavato da alberi morti per cause naturali all’interno delle riserve naturali dello Stato gestite dell’Arma dei Carabinieri, i bambini non perdono tempo, hanno fame, se ne appropriano subito, accalcandosi tutt’attorno per uno spuntino.

La mattinata volge al termine, l’azzurro si appanna appena un po’, nel grande parco, in mezzo alla piccola folla di cittadini, amministratori, lo stormo variopinto di bambini, le uniformi precise dei carabinieri, cogli come un senso di serenità, di unità, il piacere d’esserci stati, la soddisfazione per il lavoro fatto, per l’attenzione e l’apprezzamento finalmente ricevuto.  Ponticelli stamattina è Napoli, è Italia, ha una storia da raccontare, come gli altri trenta quartieri della città, i piccoli alberi cresceranno, se ne avremo cura, assieme a questi bambini, ogni giorno, in un lavoro che non finisce mai.  

Sovranità alimentare, istruzioni per l’uso

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 ottobre 2022

C’è grande attenzione al linguaggio in questa fase d’avvio del governo Meloni: il maschile o il femminile delle cariche, ma anche la nuova denominazione di alcuni ministeri importanti. Visitando il Centro Agroalimentare di Roma nei giorni scorsi il neoministro Lollobrigida ha precisato che l’acronimo del suo dicastero sarà “Masaf”, che sta per Ministero delle Politiche agricole, della Sovranità alimentare e forestale.

Dunque, la sovranità alimentare al centro, anche se non è semplice capire di cosa stiamo parlando. Il ministro ricorda opportunamente che non è questa maggioranza di governo ad aver coniato l’espressione, la cui nascita anzi avviene in un’area politico-culturale del tutto diversa, la Conferenza internazionale del movimento “Via Campesina” che si è svolta in Messico nel 1996, e poi il Forum per la sovranità alimentare del 2007 in Mali, nella cui dichiarazione finale è scritto che “la sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente corretti e sostenibili, e il loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli”. Insomma, il concetto di sovranità alimentare nasce in risposta a quello di “sicurezza alimentare”, ponendo l’attenzione sulla difesa dei piccoli agricoltori, allevatori e pescatori locali dagli arbitrii del mercato globale.

L’espressione ha avuto successo, anche grazie al lavoro illuminato e tenace di persone come Carlo Petrini e dell’organizzazione Slow Food da lui fondata, ed è stata adottata a scala mondiale da governi e organizzazioni internazionali. Ciò detto, è evidente che il suo impiego ne ha inevitabilmente modificato il senso se, nelle parole del ministro Lollobrigida, la priorità per l’Italia è quella di “difendere la propria cultura, i propri prodotti, e in questo contesto la sovranità alimentare è contraria all’autarchia. C’è bisogno che la nostra nazione esporti all’estero e per farlo bisogna difendere la qualità perché è la qualità che distingue i prodotti italiani dagli altri che cercano di copiarci in malo modo”.

E’ evidente che qui il discorso si fa lungo, difendere il nostro export è una cosa senz’alcun dubbio fondamentale, ma lo è altrettanto decidere qual è il posto dell’agricoltura nell’economia e nella società italiana all’inizio del terzo millennio e quali siano realmente i margini di sovranità da conquistare.

Il settore agricolo non ha mai occupato nel nostro paese un ruolo tanto marginale. Il cibo e le materie prime che produce valgono solo il 2% del Pil, ma poi attraverso la trasformazione e commercializzazione il loro valore aumenta, l’agroalimentare italiano con tutte le attività correlate vale il 20% del prodotto interno lordo, anche se nella catena del valore agli agricoltori rimangono le briciole.

Resta il fatto che i 900.000 agricoltori italiani, con il loro lavoro quotidiano oltre a produrre cibo e risorse, curano e tengono a posto il paesaggio, sarebbe a dire il nostro brand più famoso, quello che nessuno al mondo è in grado di riprodurre, e stiamo parlando proprio di quell’85% di territorio rurale del paese fatto di coltivi, pascoli, boschi, biodiversità, bellezza.

Tutto questo si chiama “multifunzionalità”, ma la realtà, per ora, è che nelle politiche del territorio, a tutti i livelli di governo, il suolo agricolo continua a essere considerato non una risorsa essenziale, un capitale non riproducibile della nazione, quanto piuttosto spazio libero di conquista per un’urbanizzazione senza logica, pensiero, qualità. In troppi casi l’agricoltore non è garanzia di presidio civile del territorio, nell’interesse generale, ma un ospite indesiderato.

L’unica strategia efficace che rimane al mondo agricolo per difendersi e affermarsi, soprattutto nel Mezzogiorno, rimane quello di serrare le fila, organizzarsi, aggregarsi, aumentare attraverso la cooperazione il proprio peso nella contrattazione e nel dibattito pubblico. Per fare questo sono necessarie politiche nuove, è questo il pezzo di sovranità del quale si avverte maggiormente il bisogno.

Salto nel buio

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 8 novembre 2022

All’editoriale di Ottavio Ragone pubblicato su queste pagine domenica scorsa (“Autonomia, destra e sinistra unite nel “no”) ha in qualche modo risposto ieri, nell’intervista a Dario Del Porto sempre su questo giornale, l’on. Edmondo Cirielli, parlamentare di Fratelli d’Italia e viceministro agli affari esteri del governo Meloni.

Tirando le fila del lungo e approfondito dibattito sull’argomento che Repubblica ha ospitato in questi mesi, Ragone auspicava l’unico atto politico ragionevole: una presa di posizione bipartisan delle forze politiche di ogni ispirazione per scongiurare i rischi di un progetto sgangherato di autonomia in grado solo di spaccare il paese e divaricare ancora le diseguaglianze.

La risposta di Cirielli è netta: “Considero l’Autonomia un fatto positivo per le Regioni più virtuose come Emilia Romagna e Lombardia. Per quelle che invece restano al di sotto dei livelli minimi di assistenza, si possono centralizzare le funzioni, affidando allo Stato il compito di intervenire attraverso un fondo centrale”.

Veramente non avevamo ascoltato sino ad ora nulla del genere. Scopriamo in queste frasi un percorso verso l’autonomia addirittura a doppio senso: in avanti, verso la sempre maggiore emancipazione dallo stato centrale per le regioni “virtuose”; all’indietro, verso uno status di protettorato a sovranità limitata per quelle inefficienti, a cominciare dal Mezzogiorno. E’ evidente a tutti quanto questa prospettiva sia lontana dalla Costituzione, ed equivalga a una bomba a orologeria, dritta al cuore dello stato unitario.

Quanta ideologia poi si celi dietro simili posizioni, solo all’apparenza pragmatiche e fattuali, è evidente a tutti. Se vogliamo parlare di fatti, sono proprio i sistemi sanitari delle aree del paese presentate come “virtuose” – quelli che più avevano puntato sulla privatizzazione e lo smantellamento della sanità territoriale – ad aver mostrato maggiori difficoltà nel contrastare la pandemia.

Qui al Mezzogiorno abbiamo affrontato la bufera con le risorse delle quali disponevamo, che sono di gran lunga inferiori in termini di spesa pro-capite a quelle delle regioni “virtuose”, a causa di un sistema di riparto che premia la spesa storica, che qui da noi è più bassa, ed è basato per il resto su indicatori che penalizzano le regioni demograficamente più giovani. Si tratta evidentemente solo di un esempio, perché lo stesso andazzo si registra per tutti gli altri settori cruciali, si tratti di scuola, assistenza, servizi.

I fatti sono questi, e impongono un ragionamento in direzione ostinata a contraria: per salvare l’unità e il futuro del paese, per avvicinare le distanze territoriali, la strada non è quella di istituire per le aree in difficoltà un nuovo, offensivo status di cittadinanza limitata, ma all’opposto, attuando l’articolo 3 della Costituzione, continuando a rimuovere le cause che queste distanze creano e riproducono.

L’autonomia differenziata fa male al paese. Parole chiare dai vescovi italiani

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 5 settembre 2022

Le corrispondenze di Conchita Sannino dal convegno di Benevento dei vescovi italiani sulle aree interne, pubblicate su questo giornale, hanno dato conto di quello che senza dubbio è il fatto politico più rilevante di questa campagna elettorale: la presa di posizione chiara, netta della chiesa cattolica italiana sull’autonomia differenziata e sui migranti. Nella dichiarazione finale dell’incontro ci sono parole che pesano come pietre: “… qualora entrasse in vigore l’autonomia differenziata, ciò non farebbe altro che accrescere le diseguaglianze nel Paese.”

La cosa importante è che non sono i vescovi del Mezzogiorno a parlare così, ma quelli “…  provenienti da tutto il Paese, riuniti a Benevento per riflettere sui criteri di discernimento con l’obiettivo di elaborare una pastorale per le Aree interne”.

E’ all’Italia intera che i vescovi guardano, un paese che si sta spaccando in due non solo trasversalmente ma anche longitudinalmente, tra una galassia di aree metropolitane dove si addensano i due terzi della popolazione, e il restante 80% del territorio, quello dei piccoli centri che gestiscono una ruralità straordinaria e immensa, che continuano a perdere uomini, servizi, risorse, rappresentanza, capacità amministrativa e di presidio.

La cosa inaccettabile, a giudizio dei vescovi, è il divario civile che si è creato e si va sempre più accentuando: la ripartizione ineguale delle risorse tra le due Italie nega sempre più a una quota importante di popolazione l’accesso ai diritti costituzionali fondamentali, a partire da salute, istruzione, assistenza ai più deboli.

La perennizzazione di questo divario, che è poi il fulcro del progetto di autonomia differenziata attualmente in circolazione, sulla base di una spesa storica che già premia i territori che stanno meglio, significa di fatto dire addio, per sempre, all’unità del Paese.

E’ in questa lettura complessiva che si colloca l’affondo sul Mezzogiorno, e l’intervento al convegno di monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vice-presidente della CEI, con tutti i numeri precisi e inoppugnabili del divario, andrebbe studiato nelle scuole.

C’è poi l’aspetto ecologico, dietro quello civile ed economico. Nel suo saluto al convegno di Benevento papa Francesco ha sottolineato l’importanza del lavoro che le aree interne svolgono per il sostentamento della vita: è solo grazie al flusso di servizi ecosistemici di base – acqua e area pulita, alimenti, assorbimento della CO2, difesa del suolo, biodiversità, paesaggio – che le aree metropolitane riescono a vivere. Ciò nonostante, l’opera impegnativa di cura del capitale naturale che le popolazioni delle aree interne svolgono a beneficio del paese intero non trova riconoscimento civile ed economico nelle politiche pubbliche.

I vescovi comunque non si fermano qui. Passando alle soluzioni possibili, nel documento finale del convegno si legge ancora che “i flussi migratori possono costituire un’opportunità per ravvivare molte realtà soggette a un decremento progressivo della popolazione, ma è necessario affinare sempre più la disponibilità all’ascolto, ad assumere, nel rispetto della legge, logiche inclusive, non di esclusione.”

Più chiaro di così. Nel flusso stanco di messaggi incolori che ci giungono in questi giorni, viene da Benevento il progetto di un paese diverso, consapevole di sé, delle differenze e delle difficoltà, e dei modi ragionevoli per provare a superarle. Partendo dalle persone, senza paura, con un sentimento di apertura al futuro e alle cose nuove che verranno. Tutto chiaro, c’è solo da decidere da quale parte andare.

Il mare metropolitano che manca

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 21 agosto 2022

La Campania ha 480 km di coste, per metà sabbiose, l’altra metà rocciose: dalla foce del Garigliano a Sapri, passando per le isole del Golfo, si tratta di un patrimonio notevolissimo e diversificato, con alcuni dei paesaggi marini più belli del mondo. Un patrimonio pubblico, è bene ricordarlo: secondo il Codice civile il lido, la spiaggia e le loro pertinenze sono un bene di proprietà pubblica, fanno parte del demanio, in quanto tale destinato, leggo al volo sulla Treccani, “…all’uso gratuito e diretto della generalità dei cittadini, o comunque a una funzione pubblica”.

Nulla di più lontano dalla realtà, come l’editoriale di Ottavio Ragone ha dovuto ancora ieri crudamente sottolineare: il diritto al mare taglia la popolazione in due,  una barriera di filo spinato, non solo metaforica, la divide, vedi l’articolo sempre di ieri di Tiziana Cozzi sui lidi di Posillipo. Certo il fenomeno ha livelli di gravità diversi. Se in Penisola, in Costiera, o nel Golfo di Napoli, l’accesso al mare per un comune cittadino è cosa quasi impossibile, la situazione migliora appena un po’ se ti allontani dall’epicentro metropolitano, a nord lungo le spiagge domizie, oppure a sud verso quelle della piana del Sele, e poi giù sino al Cilento.

Il problema riguarda dunque soprattutto i tre milioni di abitanti della città metropolitana, la parte del territorio regionale maggiormente urbanizzata, che vale il quindici per cento dello spazio, ma dove vive come può il 75 per cento della popolazione campana. Per inciso, una delle aree in Europa nella quale il disagio sociale è più forte, e l’accesso al mare è solo un punto in più nell’elenco lungo dei diritti negati.

Qui, il combinato disposto dell’edificazione della costa (in molti casi abusiva o illegittima), con la privatizzazione di fatto di tratti significativi; di problemi ambientali mal intesi e comunque mai risolti nei litorali post-industriali a est e ovest del capoluogo; della presenza di importanti aree portuali; infine, nei tratti di costa potenzialmente fruibili, delle concessioni balneari; tutto questo riduce pressoché a zero le possibilità di accesso libero per il comune cittadino, a meno che non abbia possibilità e voglia di spendere, per una giornata al mare con la famiglia, almeno un centinaio di euro.

Con questa situazione la direttiva Bolkenstein c’entra poco. La concorrenza è una buona cosa quando si tratta di beni di mercato, le coste non rientrano tra questi, qui il problema è quello di garantire il diritto di accesso a una risorsa comune, che è una cosa che non si risolve aprendo al mercato, ma con il controllo effettivo del patrimonio, sui suoi usi e trasformazioni fisiche, non tollerando l’esistenza di “enclosures” di fatto, assicurando e salvaguardando l’esistenza di tratti ad accesso libero e, soprattutto, per quelli in concessione, stabilendo obblighi di esercizio chiari, che salvaguardino i diritti di base di accesso dei cittadini al lido, alla spiaggia, al mare, come da codice civile.

Come sempre, per l’autorità pubblica il compito è quello di stabilire regole, poi di essere presente e vigilare. Qualche piccolo segnale c’è. Qualche sera fa sulla spiaggia davanti la Rotonda Diaz c’erano ragazze e ragazzi a giocare a pallavolo sulla spiaggia pulita al riparo della scogliera, sembrava d’essere a Barcellona. Le spiagge sobriamente recuperate a San Giovanni a Teduccio sono un altro caso. Certo, rispetto al fabbisogno sterminato di un popolo metropolitano all’asciutto, in attesa dietro il filo spinato, si tratta ancora di frammenti, ma la strada è quella.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 12 marzo 2022

Stando alla sentenza della dodicesima sezione del Tribunale di Napoli, la Repubblica italiana (Comune di Napoli) deve risarcire allo Stato (Fintecna) 80 milioni di euro per la cessione dei suoli di Bagnoli. Non è una partita di giro, ma una questione cruciale di democrazia. Per trovare le parole meglio affidarsi al Devoto-Oli, alla voce “kafkiano” è scritto: “relativo allo scrittore e alla sua opera caratterizzata da un’atmosfera di incubo e da un angoscioso pessimismo esistenziale; incomprensibile, assurdo, cervellotico”. Proprio così, la faccenda di Bagnoli è un incubo dal quale non riusciamo a liberarci, che ci intride di pessimismo, e stentiamo ancora a comprendere.

Trent’anni fa, cessate le attività produttive, la città aveva deciso con procedure democratiche che quelle aree, dopo un secolo di siderurgia, andavano restituite a una più diversificata vita urbana. Dopo l’approvazione del piano regolatore, nel 2006, ci fu una transazione tra il Comune e la proprietà dei suoli, che era di Fintecna, la società nata negli anni ’90 per gestire la dismissione dell’IRI, e che è ora controllata da Cassa Depositi e Prestiti, quindi dal Ministero dell’Economia.

Ora, come ci ha raccontato Alessio Gemma nei suoi articoli dei giorni scorsi, a distanza di 16 anni, una sentenza di tribunale dice che il Comune non ha onorato quell’accordo, condannandolo a risarcire Fintecna con un’ottantina di milioni. Una partita finanziaria che, in questo momento critico per il governo cittadino, è in grado di deciderne la vita o la morte.

D’accordo, si tratta di sottigliezze giuridiche assai complesse. Nessuno si sogna di mettere in discussione lo stato di diritto, né tanto meno il sistema pluralistico e policentrico che è alla base della nostra democrazia. Però santo Iddio, stando alla Costituzione, una differenza deve pur esserci tra un ente di governo territoriale – il Comune – che è uno dei soci costitutivi della Repubblica, per il quale andiamo a votare, che gestisce le scuole e la città nella quale viviamo, e un residuato di società pubblica della quale non è più neanche ben chiara la missione, che sarà pure parte dello Stato, senza rispondere a un chiaro interesse generale, ma solo a sé stessa, e al suo indistruttibile istinto di sopravvivenza.

“Incomprensibile, assurdo, cervellotico” dice il Devoto-Oli; paradossale aggiungiamo noi, perché un ruolo chiave in questa vicenda lo ha Invitalia, un’emanazione anch’essa di Cassa Depositi e Prestiti. La strampalata legge Sblocca-Italia del 2014 ha individuato proprio Invitalia come soggetto attuatore della bonifica di Bagnoli, trasferendo a lei la proprietà dei suoli. Così la foto di famiglia si ricompone, Invitalia discende in linea diretta da robe come Fintecna, costituendone l’ultima più aggiornata reincarnazione.

Il sindaco eletto Gaetano Manfredi, ora anche commissario di governo per Bagnoli, ha opportunamente preannunciato ricorso contro la sentenza del tribunale, ma la vicenda come detto è politica: una decisione di buon senso da parte del governo si impone, è un atto dovuto nei confronti della terza città d’Italia, in un momento drammatico della sua esistenza.

Come il sindaco ha ribadito, è ingiusto far pagare i cittadini, per una bonifica infinita, maldestra, che è già costata centinaia di milioni, senza nessun giovamento per la città. I lettori conoscono la posizione che questo giornale ha sostenuto in tutti questi anni. La parola “bonifica” a Bagnoli andrebbe proibita per legge. Come in tutti i paesi civili, è la messa in sicurezza l’obiettivo da perseguire, con sobrietà di mezzi, tempi, obiettivi. Il Testo unico ambientale, se correttamente inteso e applicato, dice proprio questo.

I problemi a terra ancora da risolvere sono limitati, grazie a Dio, e qui un segnale andrebbe dato: non è mai troppo tardi, dopo trent’anni di chiusura, per aprire finalmente i cancelli, una passeggiata attraverso l’area, un giorno di maggio, dalla Porta del Parco sino al mare, i cittadini e il sindaco in testa, in un gesto simbolico ma necessario di riappropriazione di un pezzo di città che è nostro.

Per il mare, invece, è necessario bloccare l’idea folle di mettere mano ai fondali, col dragaggio e lo scombino finale dell’ecosistema, riportando in sospensione i sedimenti inquinati. Solo per studiare questa cosa, Invitalia ha nei giorni scorsi affidato uno studio monstre da 16 milioni. Sono cifre con le quali si producono asili e ospedali, non tabelle di analisi e referti inutili, tanto più che le condizioni ambientali dei fondali, come dimostrato da autorevoli studi indipendenti, sono le stesse da S. Giovanni sino al Golfo di Pozzuoli.

Quanto poi alla riconfigurazione della linea di costa e alla rimozione della colmata, una riflessione laica, trasparente deve essere fatta, considerando realisticamente le condizioni di fattibilità, tecnica ed economica. Programmare in democrazia vuol dire anche riflettere e riconsiderare le priorità, quando le cose cambiano, facendo quello che è più giusto fare, nel mondo nuovo nel quale ci troviamo a vivere.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 27 febbraio 2022

Osserviamo i nostri ragazzi in questi giorni, i nostri figli di 18, 20, 30 anni, dopo due anni di pandemia che ha imposto loro un prezzo assai alto, lo scoppio della guerra li colpisce ora fortemente, parlano poco, cercano di capire, ascoltano il nostro silenzio preoccupato. Nei discorsi degli adulti invece, fioriscono ragionamenti acuti sulle presunte ragioni della Russia, sugli errori dell’Europa e di Biden, alla ricerca di un equidistanza che sa innanzitutto di critica all’America. Ci sono cose che è difficile spiegare ai nostri giovani, prima ancora di capire.

Vagli a dire che è l’ultima disperata mossa di un autocrate che non ha più strada davanti, che ha definitivamente smarrito il contatto col reale e la complessità del mondo. Un paranoico per il quale è la democrazia, con la sua disordinata libertà, il pericolo maggiore. Ce lo ha pure spiegato il satrapo, nelle interviste degli ultimi anni, che le democrazie hanno fallito, sono inefficienti, che la vera libertà, la difesa degli interessi della gente è garantita dai regimi come il suo, dove gli oppositori vanno in prigione e i giornalisti finiscono stecchiti in ascensore. Vaglielo a raccontare ai ragazzi, sono considerazioni amare di follia che spaventano più del dubbio, del non saperne abbastanza. Putin ha chiarito, prima dell’attacco a freddo a un paese inerme, che gli interessi della Russia non possono essere messi in discussione. Resta da capire quali sono gli interessi dell’Italia, che è poi uno solo: la difesa della Repubblica, con le sue regole e garanzie, l’unica cosa che abbiamo, la possibilità di vivere in un mondo nel quale il potere è diffuso e temporaneo, non si è cristallizzato per sempre in un paio d’occhi ferini, senza più sguardo. Una democrazia che sarà pure ammaccata, ma continua ad alimentare un pluralismo pieno di idee, di modi di esprimersi e realizzarsi, di sperimentare e afferrare l’esistenza.

Questo è quello che cercheremo di dire ai nostri ragazzi. Che la Russia non è la pazzia tragica di Putin, con Tolstoj e Dostoevskij quel grande paese è parte di noi, riuscirà a impedire che questa follia continui. Diremo che questo momento drammatico può rivelarsi per l’Italia e l’Unione europea un’occasione dolorosa di crescita e rafforzamento, intorno alle poche cose importanti che abbiamo, l’unica bussola per il terzo millennio, quella libertà povera e nuda, conquistata a caro prezzo, un’ottantina di anni fa.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 dicembre 2021

Nel suo editoriale dello scorso 5 dicembre (“Il riformismo non profuma di Chanel”) Ottavio Ragone osservava come il completamento di un moderno ciclo industriale dei rifiuti in Campania dopo trent’anni di discussioni sterili, non possa prescindere da un dialogo serio e trasparente, tra cittadini e amministratori, sul percorso da fare per rimettere in ordine il territorio scombinato delle periferie e dell’hinterland.

In realtà dopo l’articolo un dibattito pubblico importante, a distanza, è iniziato, ma non nella direzione auspicata da Ragone. Così, una nota della SIR del 14 dicembre, l’agenzia di stampa dei vescovi italiani, riporta le riflessioni del presidente della Conferenza episcopale campana mons. Antonio Di Donna, in occasione di un incontro pubblico presso la Biblioteca diocesana di Acerra, la “città martire che si sacrifica per tutta la Campania”. Il riferimento, prosegue l’agenzia, è “al mega inceneritore, unico della regione, imposto contro il volere della città, intorno al quale continuano a sorgere o chiedono di essere autorizzati tanti altri impianti per i rifiuti.” Ed è proprio rispetto agli impianti di trattamento che mons. Di Donna auspica “che venga scongiurato questo accanimento”, perché “è sconcertante la ciclicità con la quale il nostro territorio diventa suolo appetibile per la realizzazione di impianti di smaltimento e stoccaggio di rifiuti”.

E’ di pochi giorni dopo invece, siamo alla vigilia di Natale, la lettera al presidente Draghi di trenta sindaci delle città dell’area nord tra Napoli e Caserta, tra le quali Giugliano e Aversa. Come raccontato su queste pagine da Raffaele Sardo, i sindaci chiedono al presidente del consiglio una moratoria nella costruzione degli impianti di rifiuti: “Nessun impianto di rifiuti, di nessun genere, deve essere previsto sui nostri territori, fino a che le matrici ambientali non siano finalmente risanate”, scrivono i primi cittadini.

Certo, un po’ più di equilibrio e obiettività da parte di amministratori e presuli non guasterebbe perché, non scherziamo, il capoluogo non sta affatto meglio: se consideriamo il peso ambientale di porto, aeroporto, petroli, depuratori, centrali energetiche, più le 150mila autovetture che ogni santo giorno entrano a Napoli per lavoro e servizi, semplicemente non c’è partita. Il racconto di un capoluogo che riversa sull’hinterland il peso dei suoi problemi non sta in piedi, e la strada rimane quella indicata da Ragone, di un dibattito pubblico che riesca a guardare ai problemi dei diversi territori, stando alla larga da localismi consolatori e sterili.

In tutta la vicenda poi, gli aspetti paradossali non mancano, perché la contrarietà agli impianti è assolutamente generalizzata, finendo per comprendere ad esempio anche gli impianti per il compostaggio della frazione organica. Si tratta di rifiuti domestici, ordinari, né speciali, nè tossici, nè pericolosi, per i quali la direttiva europea stabilisce per i territori regole rigorose di autosufficienza e prossimità. Questo significa che il rifiuto aprioristico di questo tipo di impianti pone automaticamente la Campania al di fuori della legge europea, ma anche di una buona amministrazione, se dei 293 impianti di compostaggio italiani solo 4 sono in Campania. E se le 415mila tonnellate di umido che mandiamo oltre regione a caro prezzo costituiscono addirittura un quarto del rifiuto organico prodotto in Italia che viene trattato al di fuori della regione di provenienza.

Se anche il processo di compostaggio, che pure è sempre stato considerato anche dall’ambientalismo più intransigente come un tassello fondamentale di un moderno sistema di riciclo, finisce sotto processo, non c’è alcuna speranza di uscire dalla crisi, che a questo punto diventa antropologica-strutturale. E diventa pure inutile ricordare che il compostaggio è il procedimento che più emula il funzionamento dell’ecosistema, perché in fondo è un modo di fabbricare l’humus, la chiave della fertilità del suolo, mettendo a frutto i procedimenti della natura. Si tratta di un processo che avviene oramai completamente in regime di depressione, cosicché neanche gli odori escono all’esterno. Tanto più che questi impianti sono sottoposti a controlli assai rigidi, e quindi, se di qualcosa si deve aver timore, riguarda il resto, le cose che accadono al di fuori di questo ciclo industriale e legale.

Insomma, stiamo parlando dei fondamenti, della basi dell’economia circolare e della transizione ecologica delle quali tanto ci riempiamo la bocca. Ma la speranza è l’ultima a morire, che un dialogo serio possa partire, nelle istituzioni, nella Chiesa, lasciando da parte parole fuori luogo, qui si ragiona coi dati, il negazionismo per cortesia lasciamolo ai no-vax.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 aprile 2021

Ha usato proprio la parola “fiasco”, in italiano, il New York Times per titolare l’articolo sulla deludente performance dell’Europa in materia di vaccini. S’è detto tante volte: il coronavirus non crea nuovi problemi, ma amplifica quelli che c’erano già. Questo riguarda anche il funzionamento dell’Unione europea, e la cosa ci riguarda da vicino. Il fragile equilibrio finanziario del Mezzogiorno dipende grandemente dai fondi comunitari che – come è scritto con chiarezza nei rapporti dell’Agenzia per la coesione – sono serviti nell’ultimo ventennio a coprire il buco dei mancati trasferimenti dallo Stato centrale.

Nella partita dei vaccini la differenza con i paesi che hanno fatto meglio, Regno Unito, Israele e Stati Uniti, è semplice da raccontare: in tutti e tre questi casi lo Stato è sceso in campo come socio finanziatore e acquirente privilegiato, investendo tanti soldi nell’impresa, fin dall’inizio, dalla sperimentazione, con le sue università e centri di ricerca, alla produzione industriale.

Alla fine, il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato che il suo paese ha ottenuto i suoi vaccini “…grazie a capitalismo e avidità”, e una cosa abbastanza simile l’ha ripetuta in un intervista a “Repubblica” Larry Fink, numero uno di Black Rock, il più grande fondo di investimento privato al mondo, secondo il quale “grazie al capitalismo abbiamo battuto la pandemia”.

E’ evidente che si tratta di uscite propagandistiche, perché è vero esattamente il contrario: Inghilterra, America e Israele hanno agito proprio come avrebbero fatto Marshall e Keynes, usando potentemente la leva dell’investimento pubblico, assieme alla propria sovranità, come strumento di grado superiore per conseguire finalità di interesse generale, e fare cose che il mercato da solo non è  proprio in grado di fare. Insomma, in quei tre paesi lo stato ha fatto bene il suo mestiere.

L’Unione europea, che pure si vanta col resto del mondo per il suo sistema di programmazione economica e sociale che protegge i cittadini, ha sciaguratamente scelto in questa vicenda di agire sul piano asettico delle regole e della negoziazione, dismettendo la propria sovranità e comportandosi come un acquirente privato qualunque, come se la soluzione al problema fosse quella di stipulare sul mercato ben confezionati contratti di fornitura.

Il risultato è stato deludente, un fiasco per dirla con il New York Times, evidenziando un difetto di autorevolezza e pure di politica: i  programmi di vaccinazione procedono a rilento, il conto delle vite resta alto, il contenzioso legale con le ditte non porterà a nulla, e la conclusione è che in tutta questa vicenda l’Unione non è riuscita ancora a comportarsi come uno Stato vero.

La speranza è che questa amara lezione possa servire all’Europa. Per attuare bene l’ambizioso piano di recupero che è stato messo in campo servono politiche pubbliche coraggiose, anche dure, ma mirate all’obiettivo, piuttosto che formalismi procedurali asettici.

Pure i pregiudizi non aiutano, e bene ha fatto Draghi nei giorni scorsi a troncare a un certo punto le polemiche sterili con ambienti di Bruxelles e pezzi rilevanti dell’opinione pubblica nord europea, sulla credibilità del Recovery plan italiano, chiedendo direttamente alla signora von Der Layen più rispetto per un paese che ha pagato in Europa il prezzo più alto alla pandemia. E’ una partita che il capo di governo aveva già dovuto affrontare da presidente della Banca centrale europea, quando riuscì a imporre una gestione più equa e lungimirante del quantitative easing. Per noi cittadini del Mezzogiorno d’Italia, che è Mezzogiorno d’Europa, sono parole giuste, e va bene così.

Antonio di Gennaro e Roberta Ciaravino, Repubblica Napoli del 19 febbraio 2021

Per capire davvero come sta messo il Mezzogiorno occorre leggere le Relazioni sui Conti Pubblici Territoriali pubblicate ogni anno dall’Agenzia per la Coesione Territoriale. E’ una fotografia chiara, istituzionale, territorio per territorio, della spesa pubblica allargata, che comprende quindi quella dello Stato e degli Enti territoriali di governo, assieme agli investimenti delle aziende pubbliche come Ferrovie, Anas ecc.

Il racconto che emerge leggendo la relazione 2020 è assai chiaro: nell’ultimo ventennio il Centro-Nord, con il 64,9 per cento della popolazione, si è beccato il 73,4 per cento della spesa pubblica ordinaria, 9 punti in più del dovuto. Il Mezzogiorno invece, con il suo 35,1 per cento di popolazione, ha ricevuto mediamente il 26,6 per cento della spesa pubblica ordinaria, nonostante l’obiettivo, fissato per legge nel 2017, di riservare al Sud almeno il 34% delle risorse.

A occhio e croce, si legge sempre nel rapporto, nel ventennio considerato è mancato al Sud qualcosa come 2,6 miliardi l’anno. A riequilibrare in parte le cose intervengono le risorse integrative, in primis i fondi europei, che nel Mezzogiorno rappresentano grosso modo metà della spesa pubblica. Queste risorse integrative hanno perso dunque il loro ruolo di risorse aggiuntive, erogate al Mezzogiorno per recuperare il ritardo di sviluppo, trasformandosi in risorse sostitutive di una quota di spesa pubblica ordinaria che doveva esserci e invece non c’è.

Ora il tacito compromesso sta saltando, perché alle regioni del Centro-nord non sta più bene neanche questo, e vogliono ridiscutere i criteri di ripartizione delle risorse integrative, i soldi della Comunità europea, reclamandone una fetta più grossa, con la motivazione, come sintetizza Mauro Calise sul Mattino che “… gli unici attori in grado di spendere sono quelli che già lo sanno fare”. Stesso discorso per le risorse del Recovery fund.

Se in questo negoziato cruciale le regioni del Sud hanno opportunamente iniziato a fare squadra anche loro, un ruolo importante lo ha il governo Draghi, all’interno del quale però, dopo l’uscita di figure di garanzia come Provenzano e Manfredi, gli equilibri appaiono palesemente sbilanciati verso l’asse del Nord.

E’ evidente che in questa situazione il ruolo di garante lo ha il capo del governo, con alle spalle il presidente Mattarella. Con il suo “whatever it takes” Draghi ha sostenuto, nell’interesse di tutti, contro le grettezze e gli egoismi dei cosiddetti “frugali”, le ragioni di paesi come l’Italia, che sono il Mezzogiorno d’Europa, in questo modo portando in salvo l’euro e la costruzione europea.

Per salvare l’unità nazionale occorre ora un “whatever it takes” interno, in grado di domare gli esprits animaux nostrani, la smania disperata di quelli che pensano di salvarsi da soli. Nel discorso sobrio del presidente del Consiglio martedì in Senato, nello spirito repubblicano che lo anima, nelle righe non banali dedicate al Mezzogiorno, ci sono parole che indicano la direzione giusta, la convinzione di testa e di cuore che solo se riparte il Sud l’Italia può farcela davvero.

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Antonio di Gennaro e Pio Russo Krauss, Repubblica Napoli 14 febbraio 2021

Abbiamo letto gli articoli sull’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sulla Terra dei fuochi, tutti molto simili, nella titolazione, nel testo, e nel messaggio per il lettore: la dimostrazione, una volta per tutte, del nesso causale nella Terra dei Fuochi tra inquinamento da rifiuti e tumori, asma, leucemie, malformazioni congenite.

Dopo il profluvio di articoli e servizi televisivi, abbiamo ritenuto cosa utile leggere con attenzione il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità. La cosa sorprendente è che il rapporto dice cose molte diverse da quelle che i media hanno diffusamente riportato. Basterebbe leggere le conclusioni: “Nell’intera area e in singoli comuni si sono registrati eccessi di specifiche patologie, ai quali l’esposizione a contaminanti rilasciati/emessi dai siti di rifiuti può aver contribuito con un ruolo causale o con-causale”.

“Può” in italiano indica una possibilità, non un dato di fatto. Restiamo quindi nel campo delle ipotesi, che devono essere dimostrate, che è poi quello che è scritto nel rapporto: “Lo studio consente, quindi, di generare ipotesi eziologiche (relative alle possibili cause, ndr) ma non di verificarle direttamente”. La frase è chiara e non dovrebbe dare adito a equivoci.

Nel rapporto è scritta anche un’altra cosa molto importante: “Tutti gli indicatori di rischio sono stati elaborati non aggiustandoli per l’Indice di Deprivazione”. Ciò significa che non si sono controllati i principali fattori confondenti: la povertà, il basso reddito, la bassa istruzione. Ci si ammala di più perché si abita vicino a una discarica o ci si ammala di più perché si è poveri? Vicino alle discariche e nelle aree degradate infatti abitano i più poveri e non i ricchi ed è da tempo scientificamente acclarato che i poveri si ammalano di più e muoiono prima dei ricchi e benestanti.

I ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità questo lo sanno bene, e infatti mettono in guardia: “Tale limite (non avere corretto i dati sulla base del reddito, istruzione ecc. ndr) andrà considerato nella lettura dei dati, visto che molte di queste patologie multifattoriali hanno tra i principali fattori di rischio la deprivazione socio-economica e che spesso le popolazioni residenti in siti contaminati sono più deprivate rispetto al resto della popolazione”.

La cosiddetta “Terra dei fuochi” è un pezzo d’Italia che soffre certo di problemi ambientali (in primis l’inquinamento atmosferico) e sociali (è tra le aree con la maggiore percentuale di poveri, di disoccupati, di lavoratori in nero) e ciò non può non influire sulla salute della popolazione. L’enfasi sul problema dei rifiuti nasconde la complessità dei problemi che devono essere affrontati: c’è bisogno di politiche ambientali, di chiudere decentemente e legalmente il ciclo dei rifiuti, ma soprattutto di politiche contro la povertà, la deprivazione, la scarsità di servizi essenziali.

Anche sul tema delle bonifiche – la soluzione catartica che tutti gli articoli hanno tirato in ballo –  bisognerebbe poi intendersi. La famigerata discarica Resit è stata completamente impermeabilizzata, il percolato non si forma più, e l’area è stata trasformata in un parco pubblico di sei ettari. A San Giuseppiello, il podere che la camorra ha utilizzato per sversare fanghi industriali, ora c’è un bosco di 20mila pioppi che sta ripulendo i suoli. Interventi razionali, a basso costo, simili a quelli attuati in tutti i paesi civili. Eppure nessuna autorità è mai venuta, a fine lavori, a inaugurare i siti. Al termine del suo mandato, il commissario alle bonifiche Mario De Biase non sapeva a chi riconsegnare le chiavi. Nessuno se ne sta occupando, le opere vanno in malora.

La criminalità nel frattempo, come raccontato su queste pagine, ha fatto una ventina di raid dimostrativi, distruggendo le belle palazzine con gli uffici e gli impianti tecnologici.  Questa terra ha bisogno di Stato, amministrazione, presidio, applicazione quotidiana, senso civico, rigore nel dire e nel fare. Sono temi oggettivamente non semplici da raccontare, ma i proclami, il dibattere senza avere prima letto i rapporti, non aiutano certamente a cambiare le cose.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 23 dicembre 2020

I numeri più cattivi sono quelli dentro il rapporto Svimez 2020, ripresi nel documento “Check-up Mezzogiorno” che Confindustria ha presentato nei giorni scorsi: la mazzata del Covid sulle economie del Nord e del Mezzogiorno è percentualmente simile, un po’ peggio al Nord, dove il Pil perde il 9,8%, contro il 9% del Sud. A fare la differenza è la capacità di ripresa, con il tasso di crescita nel prossimo biennio che sarà quattro volte maggiore al Nord rispetto al Mezzogiorno. Un pezzo d’Italia ripartirà, un altro resterà al palo e così, per usare le parole Svimez, la ripresa sarà segnata “dal riaprirsi di un forte differenziale tra le due macro aree”.

E’ evidente che il Recovery Plan, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, dovrebbe servire a questo, a mitigare il più possibile questo disastro annunciato, ma le anticipazioni che trapelano non sono rassicuranti, mentre il senso di spaesamento aumenta.

«Nel Recovery c’è a disposizione molto cemento per le costruzioni e le pale eoliche, meno per quello che può evitare la disgregazione sociale. Piuttosto che concentrarsi sulla ripresa, quei fondi dovrebbero essere utilizzati per tenere insieme la società». Sono le parole dell’economista Tito Boeri nell’intervista a La Stampa dello scorso 21 dicembre. Secondo Boeri “La priorità sono i concorsi scolastici, l’assistenza medica sul territorio, i ristori per i commercianti. Se lo Stato si mostrasse capace di spendere bene quei soldi sì, sarebbe una buona spesa».

Le conclusioni cui giunge l’ex presidente dell’INPS sono in linea con quelle finali del Rapporto Svimez, con la priorità innanzitutto di riavviare “un percorso sostenibile di riequilibrio nell’accesso ai diritti di cittadinanza su tutto il territorio nazionale: salute, istruzione, mobilità”, seguita dalla definizione di un disegno unitario di politica industriale nel quale il Sud giochi il suo ruolo.

In tutto questo discorso, quello che la pandemia ci ha insegnato è che non è più possibile contrapporre, sulla base di una ideologia assai rozza, le spese per i servizi essenziali agli investimenti, con i primi a fare da zavorra e i secondi da volano, perché è vero il contrario, e i cittadini europei lo hanno sperimentato in questi mesi: cose come la scuola e la sanità sono al centro dell’economia degli stati e delle famiglie, quando vanno in crisi cade giù tutto, e i sistemi più resilienti sono quelli dove l’offerta di questi servizi è più alta e qualificata.

E’ per questo che non riusciamo a sentirci del tutto rassicurati dalle parole del presidente Conte ai due recenti convegni dedicati al settantennale della Cassa per il Mezzogiorno e alla presentazione del Rapporto Svimez 2020 citato in precedenza dove, come un coniglio dal cilindro, ha tirato fuori un progetto Agritech per Napoli e l’Alta velocità fino a Bari e Reggio Calabria, cose utili a titolare articoli di stampa, assai meno a colmare le differenze economiche e sociali tra i territori e tra le persone, che il Covid ha ulteriormente divaricato.

Tanto più se questa logica da “grandi progetti” è affidata a super-poteri manageriali, unità di missione e altre cose di questo genere, che Napoli ha già sperimentato in questi ultimi cinque anni con il recupero di Bagnoli, dove un commissario c’è già, e pure un soggetto attuatore (Domenico Arcuri con la sua Invitalia), ma tutto resta in altissimo mare, come la relazione della Corte dei Conti di inizio dicembre ha impietosamente certificato, fotografando le criticità, i ritardi, l’assenza ancora di un percorso attuativo e finanziario credibile.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 9 ottobre 2020

La partita contro il Covid diventa sempre più complicata al Sud, con aspetti dolorosi, a tratti paradossali. E’ difficile comprendere come siamo riusciti a produrre il massimo sforzo di attenzione durante il lockdown, quando il virus da noi circolava poco, per poi abbassare inspiegabilmente le difese ora, che il contagio è arrivato veramente. Certo, in mezzo c’è stata una stagione estiva vissuta da troppi segmenti di popolazione, quella giovanile innanzitutto, con un senso di  irragionevole euforia, l’idea di esserne usciti fuori, il sentirsi invulnerabili, immuni dal rischio.

Il fatto è che questa seconda ondata non trova le diverse parti d’Italia nelle stesse condizioni. Nelle regioni del Nord dove l’epidemia ha mietuto più vittime, ora sappiamo che il virus circolava dall’autunno precedente, entrando in qualche modo in contatto con una percentuale significativa della popolazione. Se anche restiamo lontani dall’immunità di gregge, il virus ha ora spazi comunque più limitati di ulteriore espansione. Da noi no, la malattia ha davanti praterie potenzialmente sterminate.

L’impatto di tutto questo sulla società meridionale lo ha descritto bene ieri Conchita Sannino nel suo editoriale sulle pagine nazionali di questo giornale (“Il virus nella terra più fragile”). Perché l’altra novità rispetto alla scorsa primavera è che se la prima ondata in qualche modo ha interessato di più i quartieri borghesi, la seconda sta dilagando in quelli popolari e nelle periferie, dove è più difficile mettere efficacemente in atto le misure di contenimento del contagio, perché la rete dei servizi e dell’assistenza è più rarefatta, la capacità economica delle famiglie più debole e precaria, con una quota rilevante dei nuclei familiari, circa la metà, al di sotto della soglia di povertà.

Si tratta di una questione nazionale, che come tale deve essere affrontata dal governo centrale, in strettissima collaborazione con regioni e i comuni. Non è pensabile che i destini che abbiamo voluto credere uniti nel momento del primo lockdown, con misure e sacrifici responsabilmente sopportati dall’intera comunità nazionale, tornino ora a essere considerati alla stregua di questioni locali. Sarebbe un’ingiustizia colossale, la vera fine dell’unità del Paese.

Certo, tornando all’articolo della Sannino, la crisi del Covid colpisce ferite aperte da troppo tempo, da troppo tempo rimosse dal dibattito pubblico. La pandemia non crea problemi nuovi, si limita a amplificare e rendere visibili quelli vecchi. La sofferenza strutturale della terza area metropolitana del Paese continua a costituire una delle principali criticità nazionali ed europee. Le risorse del Recovery fund dovrebbero essere impiegate per questo, non l’elenco della spesa ma gli investimenti necessari e indifferibili, su pochissime priorità che sono la salute pubblica, l’istruzione, la riqualificazione degli spazi quotidiani di vita, il resto viene dopo.

Antonio di Gennaro, repubblica Napoli del 24 agosto 2020

Il taglio dei parlamentari non è una buona cosa per la democrazia, e ci vorrebbe che qualcuno lo spiegasse agli incauti promotori come è fatto veramente il Paese, al di là della lente distorcente dei social. Basterebbe una foto, l’immagine notturna dell’Italia sul sito della NASA: lo stivale tutto buio, con le sole macchie di luce delle aree metropolitane. In quel buio, che sono le colline e le montagne che formano l’80% del territorio nazionale, vive grosso modo metà degli italiani; nel 20% di territorio illuminato l’altra metà.

La riduzione del numero dei rappresentanti non colpirà in egual modo le due Italie, quella della concentrazione urbana e quella a bassa densità dei piccoli centri, ma in special modo quest’ultima, indebolendone ulteriormente la voce, e la possibilità di una partecipazione attiva alla vita del Paese.

In Campania poi, dove tutti i guai italiani si presentano in forma amplificata, l’asimmetria demografica è ancora più clamorosa, perché sul 20% del territorio – i vulcani e le pianure costiere – vivono i tre quarti della popolazione regionale, con il restante 25% che rimane a presidiare la sterminata green belt appenninica, dal Matese al Cilento, passando per il Fortore e l’Alta Irpinia, l’80% del territorio regionale in fase di drammatico spopolamento.

A causa della bassa densità e del calo demografico queste terre avranno sempre più difficoltà a eleggere propri rappresentanti nelle assemblee legislative nazionali, finiranno in una specie di serie B della democrazia. Il divario tra le due Italia conoscerà una inimmaginabile consacrazione istituzionale.

Se il popolo e il territorio sono i due pilastri dello Stato, un sistema di rappresentanza che dimentica il secondo, premiando esclusivamente la forza della demografia, non è in grado di assicurare al Paese un futuro sostenibile, perché sono le comunità a bassa densità che curano e tengono vivo l’ecosistema Italia, con il suo paesaggio e la sua identità, garantendo alle aree metropolitane il rifornimento di asset essenziali, a cominciare dall’acqua, l’aria, la difesa del suolo e la sicurezza alimentare.

E’ veramente singolare allora che proprio a questa parte dell’Italia, che già sconta una minore dotazione di servizi di base (scuola, sanità, internet ecc.), sia negato il diritto a partecipare alla formazione delle politiche, delle scelte, delle strategie.

Insomma, in caso di vittoria del “si” le perdite per la democrazia sono certe, a fronte di un risparmio dello 0.00 qualcosa sulla spesa pubblica, e alla soddisfazione vacua di aver finalmente assestato uno schiaffo alla casta, col seguito di propaganda malata sul web. Tra poco meno di un mese sapremo, il guaio è l’aver affidato la scelta a una slot machine truccata, che ha un solo risultato, quello che proprio non serve al Paese.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 20 giugno 2020

Quella che provi in questi giorni a leggere i programmi per il dopo-pandemia è la vertigine della lista, la fascinazione descritta da Umberto Eco che l’uomo da sempre prova per gli elenchi – si tratti di luoghi, città, libri, eserciti o persone – e la spiegazione è che le elencazioni sono pur sempre racconti del mondo, della sua molteplicità e completezza.

Prendi il programma preparato dalla squadra di esperti di Colao, già messo da parte: 102 idee per il rilancio 2020-2022, c’è tutto o quasi, tanto che alla fine risaltano le poche cose che mancano, a partire dal Mezzogiorno. Come se si potesse prescindere, per far ripartire l’Italia, dal fatto che ci sono pezzi di Paese nei quali l’offerta di servizi essenziali e opportunità di futuro per le persone, già depressa prima dell’emergenza, rischia seriamente di inaridirsi ancor di più dopo.

Anche l’agricoltura manca, e questo è un guaio, non tanto per la sicurezza alimentare, che pure è un obiettivo strategico della nazione, quanto perché le attività agricole e forestali sono la base in Italia della manutenzione quotidiana di quell’85% di paesaggio che non è fatto di città ma di campi coltivati, praterie e boschi. Una fabbrica multifunzionale di bellezza, che secondo il presidente Conte dovrebbe essere la risorsa base per la ripartenza del Paese.

Ma la forza dei programmi-lista sta nel fatto che sono racconti esaustivi del mondo: la promessa/illusione che l’intera realtà che ci circonda, con tutta la sua complicazione, complessità e imprevedibilità, risponda alla fine, grazie all’incantamento della lista, alla nostra capacità di controllo.

Il programma presentato dal governo agli Stati generali in corso in questi giorni a Villa Pamphili è esteso e ramificato non meno di quello di Colao, è anch’esso un programma-mondo, un’elencazione enciclopedica di obiettivi, e infatti qui l’agricoltura c’è, e pure una parte dedicata al riequilibrio territoriale, con la proposta dell’introduzione al Sud di una fiscalità di vantaggio per attrarre investimenti.

Resta il fatto che, in mezzo a questa impressionante selva di propositi, slogan, parole d’ordine, un sentiero realistico deve essere tracciato, scegliendo rapidamente con responsabilità, all’interno della sterminata mappa del programma-mondo, le pochissime parti ritenute decisive, quelle che devono essere affrontate per prime, per orientare davvero il corso delle cose: le tre-quattro priorità cui dedicare il tempo e le risorse a nostra disposizione, che restano comunque limitate. Solo così convinceremo tutti in Europa che facciamo sul serio, fermo restando che tra queste cose, la riunificazione di questo Paese troppo lungo, per usare le parole di Giorgio Ruffolo, è ancora al numero uno.