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Roberto è giovane, e si reinventato la vita. Lui, ragazzo di città, con la compagna Daniela ha riattivato l’azienda agricola di famiglia, sul litorale flegreo, e sbarca egregiamente il lunario vendendo direttamente i prodotti che coltiva ai Mercatini della terra, nelle piazze della città. Consegna i suoi ortaggi anche a domicilio, puoi ordinarli su internet, mia moglie è sua fedele cliente. Roberto è un esempio di quanto silenziosamente è successo in Campania in questi ultimi anni. Proprio mentre la crisi mordeva, l’agricoltura ha riconquistato spazi e importanza, ed è l’unico settore che ha creato nuova occupazione, giovanile ed anche femminile.
Questa rinascita del settore agricolo incontra un grande ostacolo, non legato all’economia ma alla comunicazione, ed è l’immagine della Campania come terra maledetta, infetta, che emerge dal racconto pubblico sui rifiuti. E’ un argomento carico di sofferenza e dolore, rispetto al quale corre l’obbligo di avvicinarsi con responsabilità, prudenza, rispetto.
A prescindere da tutto, è evidente come intorno alla crisi campana i media abbiano elaborato alcuni schemi convenzionali di narrazione. E’ avvenuto pure nel recente, drammatico reportage di SkyTG24, costruito intorno all’intervista a Carmine Schiavone, l’amministratore del clan del Casalesi, che si è pentito all’inizio degli anni ’90, e sulle cui rivelazioni si è basato il processo Spartacus. Il terribile racconto di Schiavone è stato reso se possibile più agghiacciante dalla sequenza di immagini di sfondo: un fiotto di percolato, colture in abbandono, una pecora moribonda, una nuvola di fumo nero, un’interminabile teoria di monnezza abbandonata al bordo delle strade di nessuno.
Il problema nasce quando lo schema convenzionale sostituisce il ragionamento. L’ha spiegato bene Antonio Pascale nel suo intervento su “Il Mattino” del 9 settembre, quando ha rimarcato la necessità di basare le decisioni pubbliche su fatti misurabili piuttosto che su opinioni. Ed allora, la Piana campana si estende per quasi centocinquantamila ettari, mentre i suoli interessati da forme gravi di inquinamento – le ferite inferte dall’importazione criminale di rifiuti – assommano probabilmente a un migliaio di ettari, meno dell’1% del totale. Il messaggio che passa è pero quello di una pianura, di una regione (grande un milione e trecentocinquantamila ettari) complessivamente compromessa.
Ci sono indubbiamente le statistiche sanitarie drammatiche, le probabilità di ammalarsi di patologie gravi sono più elevate nella piana tra Napoli e Caserta, con un’incidenza che risulterebbe maggiore nelle aree rurali rispetto a quelle urbanizzate. Molto poco sappiamo ancora circa i fattori causali, ed è di questi giorni la notizia dell’indagine conoscitiva che sarà svolta dalla Commissione Sanità del Senato. Eppure il colpevole dei malanni sembra già essere stato individuato proprio nel settore agricolo, anche se i risultati delle indagini effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità sembrerebbero scagionare la catena alimentare, indirizzando l’attenzione verso altri fattori di esposizione.
In ordine alla possibile prognosi, finalmente anche le Autorità iniziano ad abbozzare strategie operative. L’Assessorato regionale all’Agricoltura e la Facoltà di Agraria, con il Commissariato alle bonifiche, hanno messo a punto le tecniche di riconversione a colture non alimentari delle aree inquinate, con l’impianto intorno ai siti problematici di fasce di bosco con funzione di filtro ecologico, e la depurazione o sostituzione delle acque di irrigazione non idonee. L’obiettivo è quello di curare e suturare le ferite, per tenere in sicurezza il resto dell’organismo, che è larga parte del tutto.
Al punto in cui siamo, recuperare credibilità e fiducia è un’impresa ai limiti del possibile, e richiede l’attivazione di un qualcosa paragonabile solo al percorso “Verità e Riconciliazione” (nel nostro caso con la legalità e il territorio) intrapreso in Sud Africa per uscire dell’apartheid.
E’ urgente che le Autorità competenti identifichino con precisione i siti inquinati e intraprendano senza indugi gli interventi di bonifica, monitoraggio e messa in sicurezza. I fattori di rischio ed esposizione devono essere identificati, con le relative misure di prevenzione a tutela della salute. E’ necessario un impegno di sorveglianza delle forze dell’ordine e delle comunità locali affinché i comportamenti criminali non si riproducano. Gli approcci di riconversione no-food messi a punto dalla regione e dall’Università vanno rapidamente applicati a tutte le aree problematiche.
Nelle aree non inquinate è di fondamentale importanza che gli operatori agricoli possano continuare ad operare con serenità, per il benessere del paesaggio e dell’economia della Campania, recuperando su basi motivate la fiducia dei consumatori. Altrimenti, al posto della piana sarà un grande deserto economico e sociale, che qualcuno si preoccuperà prima o poi di riempire.
Infine, è necessario un maggiore sforzo da parte dei media affinché il fenomeno campano venga raccontato nella sua complessità, senza infingimenti, ma anche senza schematismi e semplificazioni.
Il ministro dell’Istruzione Carrozza si accinge provvidamente ad inaugurare il nuovo anno scolastico a Casal di Principe. Dobbiamo poter dire a quei ragazzi – e anche a Roberto magari, con la sua giovane azienda -, se la loro terra è perduta, o se piuttosto abitano un pezzo d’Italia che soffre di problemi che la Repubblica è finalmente in grado di affrontare.
Antonio di Gennaro
Pubblicato su Repubblica Napoli dell’11 settembre 2013
Si compie all’insegna della serendipità l’avventura politica di de Magistris, il cercare una cosa per trovarne un’altra, come Colombo con le Americhe. Si era partiti con l’idea di tenere le regate sulla colmata di Bagnoli, per ritrovarsi poi, a furia di aggiustamenti e ripieghi, con la sagra paesana sul lungomare, liberato soprattutto dalle regole. Nel frattempo la squadra di governo è completamente cambiata, con la differenza che, se dai nomi iniziali potevi pure immaginarti un proposito di riforma della macchina comunale, con i Moxedano e i Fucito si torna al piccolo cabotaggio, alla gestione dell’esistente, di un presente reso difficile dall’assenza di risorse e dalle macerie del lungo decennio jervoliniano.
Anche l’orizzonte strategico è mutato: se i primi due anni di amministrazione sono stati deliberatamente sacrificati ad un progetto politico di scala nazionale, poi malamente naufragato, si riscoprono ora improvvisamente fascino e vantaggi dell’esperienza locale, avviando abboccamenti e sondaggi in vista di una eventuale riconferma. Tutto lecito naturalmente, meglio sarebbe però farlo presentando alla città un bilancio di metà mandato, con un confronto ragionato tra gli obiettivi a suo tempo dichiarati ed i risultati conseguiti. Occasioni come il conclave di giunta nell’hotel di Fuorigrotta dovrebbero servire a questo, ma è meglio non contarci troppo. Più probabile che si parta con nuovi annunci, finendo col trasformare l’intera consiliatura in un lungo spot elettorale, mentre la città muore.
Una simile congiuntura dovrebbe risultare propizia per delle opposizioni che volessero riorganizzarsi, accreditarsi come alternativa, esercitando nel vuoto amministrativo e programmatico che si è creato un proprio ruolo di proposta e controllo, e invece è tutto un correre in soccorso al sindaco vacillante, nel terrore quasi di un suo eventuale fallimento. Da questo punto di vista, l’esperimento napoletano, con un consiglio comunale post-partitico, oramai totalmente destrutturato, ed una maggioranza costruita di fatto su una molteplicità di accordi individuali, dei quali non sono mai noti finalità e portata, finisce con l’evidenziare gli inconvenienti dell’attuale modalità di elezione diretta dei sindaci allorquando, nel deserto della politica, un’impostazione personale, demagogica e familistica finisca col prevalere.
Il rammarico sta nel fatto che non sarebbe poi così difficile comporre un’agenda e una strategia per Napoli, partendo da poche priorità basilari, evidenti alle persone di ordinaria ragionevolezza, che pure in questa città sono costrette tutti i giorni a vivere. Ma non sono questi aspetti rilevanti per un discorso politico che privilegia la rimozione della condizione presente, il rimando a prospettive diverse e luminose, sempre tralasciando di indicare un percorso più o meno faticoso, realistico e misurabile di avvicinamento.
Antonio di Gennaro, 31 agosto 2013.
VORREMMO veramente poter credere, per usare le parole del sindaco de Magistris, alla «resurrezione del cadavere», alla «rivoluzione politica, economica e finanziaria», che sarebbe poi la manovra di bilancio disegnata dall’assessore Palma, «un tecnico diventato politico», approvata dalla giunta nei giorni scorsi, che consentirà al Comune di uscire dal dissesto finanziario nel 2016, con sei anni di anticipo sul previsto.
Che si sia fatta un po’ pulizia nei conti comunali è naturalmente cosa buona e giusta. Le perplessità riguardano la durevolezza dei risultati conseguiti, perché tutto è stato reso possibile dalle risorse straordinarie dei fondi salva-comuni e salva-imprese, 600 milioni in due anni, che rischiano di agire come una robusta iniezione di cortisone, rimuovendo l’infiammazione senza agire sulle cause.
Come ha tenuto a ricordare il sindaco nel presentare la manovra di bilancio, i livelli occupazionali delle aziende partecipate – un esercito di ottomila dipendenti che assorbe ogni anno un terzo circa del bilancio comunale – non sono stati minimamente intaccati.
Si è proceduto invece a operazioni di ingegneria societaria e finanziaria, magari pure utili, ma non in grado da sole di assicurare che questa onerosa macchina clientelare possa finalmente funzionare in condizioni di maggiore efficienza ed efficacia, fornendo ai cittadini napoletani i servizi essenziali ai quali pure hanno diritto.
Questa sì, sarebbe una rivoluzione: agire in modo strutturale sui meccanismi di riproduzione del debito, ridefinire la missione di servizio delle aziende pubbliche, assegnare loro obiettivi inderogabili di prestazione, così da convincere noi tutti, con i risultati più che con gli annunci, della loro effettiva utilità.
Se questo manca siamo alla conservazione di apparati che costituiscono il vero costo della politica, più che gli stipendi e le prebende a consiglieri e onorevoli.
Senza parlare degli aspetti più arditi della manovra, con le aziende partecipate che si sostengono l’un l’altra, in un gioco di finanziamenti incrociati, e qui il pensiero non può non andare al Barone di Münchhausen, che era in grado di tirarsi fuori dalla palude sollevandosi da solo per il codino.
Speriamo non si tratti alla fine di questo, di un gioco di specchi per eludere nell’immediato impegni e responsabilità.
Pubblicato con il titolo “Un’iniezione di cortisone nel bilancio” su La Repubblica Napoli del 12 agosto 2013.
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