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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 gennaio 2018
Come sta l’agricoltura della Campania dopo la tempesta perfetta della Terra dei fuochi? L’economia della regione cresce più che nel resto d’Italia (+3,2% nel 2017), e la domanda allora è quanto le produzioni della terra contribuiscano a questo risultato, se il motore di Campania felix ha ripreso finalmente a girare. “Repubblica” lo ha chiesto a Vincenzo Sequino, che dirige da anni la sezione campana dell’Istituto nazionale di economia agraria, e di queste cose è autorevole e attento osservatore.
Il ritratto dell’agricoltura regionale fatto da Sequino è per molti aspetti inatteso, lontano dagli stereotipi della comunicazione strillata degli ultimi anni. Nel suo racconto, la crisi della Terra dei fuochi non ha colpito tutti i produttori indistintamente, ma i più piccoli e i più deboli, minacciando l’integrità sociale e territoriale della nostra agricoltura, prima che quella economica. Per quanto riguarda il futuro poi, la Campania, se vuole lasciarsi veramente alle spalle gli anni difficili, ha bisogno di politiche agricole molto diverse da quelle sperimentate sinora.
La prima domanda, naturalmente, è quanto ci è costata Terra dei fuochi, quanto ha pesato sull’economia della Campania.
«Il rapporto che l’Inea (che da poco ha un nuovo nome, ora si chiama Crea) ha redatto per il governo lo dice con chiarezza: a pagare sono stati i piccoli produttori, che sono una componente non secondaria del nostro sistema agricolo. Le aziende più grandi, quelle che hanno potuto permettersi le certificazioni, non hanno sofferto cali di fatturato. Anzi, l’export è addirittura un po’ aumentato. Il piccolo produttore invece ha dovuto svendere verdura e frutta di alta qualità con ribassi fino al 75%, e in forma anonima, con i nostri prodotti che sono stati etichettati con provenienze diverse dalla Campania. Molti agricoltori, anche giovani da poco entrati in attività, sono falliti, le terre sono in abbandono, in mano alla speculazione fondiaria. Il disastro territoriale e sociale si unisce a quello economico e per certi versi preoccupa di più».
E adesso?
«Le statistiche vanno lette con attenzione, perché l’agricoltura è un settore strutturalmente “anticiclico”, funziona un po’ come un ammortizzatore: va meglio quando il resto dell’economia va male, ed ha invece risultati meno esaltanti quando le cose vanno bene. È quello che è successo negli anni scorsi e sta succedendo ora. Quando c’era recessione l’agricoltura era l’unico settore non in rosso. Ora che l’economia è ripartita i dati, ad esempio quelli Svimez, dicono invece che l’agricoltura è l’unico settore in flessione, mentre tutti gli altri crescono. Ma qui ha ancora ragione Manlio Rossi-Doria, le cose dell’agricoltura vanno valutate su tempi diversi, mantenendo il passo “dei cavalli dal fiato lungo”».
Se i dati congiunturali non ci indicano la direzione, a cosa dobbiamo guardare allora?
«Bisogna capire innanzitutto qual è il ruolo dell’agricoltura in un’economia moderna, post-industriale. In apparenza, il contributo del settore primario al Pil, il prodotto interno lordo, è molto piccolo, intorno al 2,6%. L’agricoltura sembrerebbe una voce assolutamente marginale » .
Ed invece?
«Il Pil agroalimentare è come un missile a più stadi. Se a questo valore aggiungiamo quello dell’industria di trasformazione raddoppiamo, e arriviamo al 5%. Dobbiamo poi considerare la distribuzione commerciale, ed allora triplichiamo, e siamo al 16%. Manca ancora una quota, quella legata alla ristorazione, al turismo eno-gastronomico e culturale e al paesaggio. In questo modo possiamo arrivare intorno al 20%, vale a dire un quinto del Pil, che non è poco».
Perché il Pil agroalimentare è così importante?
«Perché è la parte del prodotto interno lordo che è più legata al territorio, quella che in tempi di globalizzazione è più difficile copiare e replicare altrove. Insomma, si tratta del pezzo di economia – pensiamo alla mozzarella di bufala, ai grandi vini campani, al San Marzano e agli agrumi della Penisola e della Costiera – che, se sei bravo, nessuno può portarti via. È una parte importante del tuo brand, della tua capacità di imporre la tua cultura, il tuo stile di vita, di quello che il politologo americano Nye ha chiamato “soft power”. Per una regione come la Campania, seconda solo alla Toscana per numero di visitatori dei musei, si tratta di una risorsa importante. Nella piana del Sele noi già assistiamo a questa integrazione tra agroalimentare, cultura e turismo, per merito di imprenditori e amministratori che hanno intuito queste possibilità e ci hanno creduto. È un modello da comprendere, e da riproporre. Certo poi, a mettere insieme il restante 80% del Pil della regione devono pensare l’industria, le manifatture e i servizi. Chi propone un futuro per il Mezzogiorno fatto solo di agricoltura e turismo, sta raccontando fesserie. Ma c’è dell’altro…».
A cosa si riferisce?
«Gli agricoltori sono relativamente pochi, solo il 6% circa degli occupati, ma fanno un lavoro importante: tengono in ordine il 90% del territorio regionale, che non è fatto di città ma di coltivi, pascoli e boschi. Sono loro che provvedono ogni giorno alla cura del paesaggio, e alla prima difesa dei suoli. Tutto questo ha un nome, si chiama “multifunzionalità”, ma nessuno paga gli agricoltori per il loro lavoro, gli aiuti comunitari servono anche a questo».
Quale politica occorre allora per realizzare queste cose?
«La domanda va declinata al plurale, perché non esiste un’agricoltura della Campania: abbiamo ormai una molteplicità di territori – pensiamo alla piana del Sele, al Cilento, la pianura Campana, la valle Telesina, le terre del Garigliano e del Roccamofina, gli altopiani del Fortore – ciascuno dei quali ha un suo sistema produttivo, le sue filiere, i suoi prodotti di qualità. Ciascuno ha le sue esigenze, e non basta una politica sola. Anche qui dobbiamo tornare a Rossi-Doria e al suo slogan “a realtà diverse politiche diverse”. Anche il nostro modo di usare i fondi comunitari deve cambiare profondamente».
In che senso?
«Ci è mancata una strategia. Abbiamo pensato che i regolamenti comunitari ci fornissero loro una strategia, e invece sono solo la cassetta degli attrezzi per fabbricarcene una, che sia solo nostra. Li abbiamo recepiti troppo passivamente, in maniera poco selettiva. È venuto il momento di capire prima chi siamo e di cosa abbiamo bisogno, e poi usare gli attrezzi che veramente servono, nel posto giusto. Ci serve un po’ più di consapevolezza, e di personalità».
È un programma estremamente impegnativo.
«L’importante è iniziare, decidere quale agricoltura immaginiamo tra vent’anni: se veramente desideriamo un tessuto di aziende più grandi e solide, accostandoci alla media europea; agricoltori più giovani e preparati; un sistema di ricerca e assistenza tecnica che promuova innovazione e renda i nostri prodotti più competitivi sul mercato globale. Un territorio e un paesaggio finalmente più curato e ordinato. Su tutte queste cose dobbiamo assegnarci un programma, e lavorarci con pazienza, senza cambiare direzione ogni volta. I cavalli dal fiato lungo di Rossi-Doria servono ancora», conclude Vincenzo Sequino.
Il sindaco di Orta di Atella condannato a 8 anni di carcere. L’urbanistica e il territorio di un paese erano in mano ai clan. Una situazione descritta analiticamente da Agostino Di Lorenzo sul numero 73/74 della rivista di scienze sociali “Meridiana” “ECOCAMORRE “. L’articolo di Agostino era titolato: L’anticittà della camorra: la condizione disurbana della provincia di Napoli. Conviene andare a rileggerselo. Ancora prima, Antonio D’Agostino aveva denunciato proprio il malaffare di Orta d’Atella, organizzando un incontro di denuncia con le Assise di Palazzo Marigliano. Adesso, le notizie sul processo al sindaco di Orta di Atella riportate da Repubblica Napoli l’11 gennaio scorso confermano che non si trattava di elucubrazioni: secondo i giudici è andata proprio così.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 11 gennaio 2018
Città sull’orlo di una crisi di nervi: a Napoli l’amministratore unico di ASIA Iacotucci prende a parolacce sui social i cittadini che fanno male la differenziata, definendoli senza mezzi termini “bastardi”, in un’accezione evidentemente assai diversa da quella degli eroi sporchi dei romanzi di De Giovanni. A Bari invece il sindaco espone i riottosi alla gogna mediatica, sempre su facebook. Ha senso tutto questo? Repubblica lo ha chiesto a Daniele Fortini, che dopo aver governato i rifiuti di Napoli e di Roma, se ne è tornato in Toscana, dove presiede l’azienda provinciale dei rifiuti di Pisa.
Nel colloquio con Repubblica Fortini ribadisce la sua convinzione: senza impianti propri per il recupero e il trattamento dei rifiuti, la raccolta differenziata non decollerà mai nelle grandi città come Roma o Napoli. Il sistema è virtuoso se la filiera è corta, e il processo di svolge “a chilometro zero”. Altrimenti, “tutto si riduce a una ginnastica, un darsi da fare a vuoto, buttando per di più un sacco di soldi, a vantaggio degli impianti delle regioni del Nord. E’ per questo che il piano regionale da 150 milioni, per la realizzazione in Campania degli impianti di compostaggio che mancano, deve essere attuato in tempi rapidi, senza perdere nemmeno un minuto.”
Dall’esperienza napoletana di Fortini all’ASIA è nato un libro (“Rifiuti”), scritto con Gabriella Corona nel 2013, che resta senza alcun dubbio il testo da leggere per capire le cause profonde della crisi della monnezza in Campania. Il suo ultimo lavoro “La raccolta differenziata” semplicemente andrebbe studiato nelle scuole.
“C’è un aspetto che pochi colgono” dice Fortini: “Non è possibile prendere a modello, estendere acriticamente alla grande città, come Roma o Napoli, modelli che funzionano bene in piccole cittadine di poche decine di migliaia di abitanti, dove esistono i presupposti indispensabili, che sono innanzitutto il comportamento civico, la coesione sociale. Lì se un commerciante o una massaia deposita il sacchetto fuori tempo, c’è subito qualcuno che lo redarguisce. E’ inutile girarci intorno, i buoni comportamenti nascono anche dal controllo sociale. A Roma o Napoli è quasi l’opposto, nel senso che i comportamenti fuori norma rischiano di essere emulati, con l’idea che è meno faticoso, e si risparmia tempo. Bastano due famiglie in un condominio che non rispettano le regole, e tutto il processo è vanificato”.
Ed allora come se ne esce? “Bisogna accettare il fatto che fare la differenziata nella grande città necessita di più fatica, più soldi, e un maggior dispendio di energia. L’efficacia non può essere la stessa. Una squadra di tre operai a Pisa raccoglie nella giornata di lavoro tre tonnellate di rifiuti. A Roma e Napoli questo valore è la metà, perché ci sono le strade congestionate, le automobili in doppia fila, le buche. Quindi, servono più manodopera, più automezzi, più attrezzature. Poi ci sono gli ingombranti. In provincia di Pisa, per 370mila abitanti, abbiamo 14 punti di raccolta, uno ogni quarantamila abitanti. Roma, con tre milioni di abitanti, ha meno punti di raccolta della provincia di Pisa, e a Napoli la situazione non è molto migliore.”
A questo punto chiedo a Fortini se le contumelie o la gogna su Facebook possano essere d’aiuto. “Non credo servano a molto. Non si può scaricare sui cittadini, anche su quelli inadempienti, difficoltà che sono di sistema, e che devono trovare risposte ad un altro livello, quello degli investimenti e dell’organizzazione. Le istituzioni non possono alimentare un clima sociale già avvelenato, all’insegna dell’insulto gratuito sui social. Certo a volte la frustrazione ti prende, ma serve comunque molta saggezza, e prudenza. Bisogna perseverare in una visione strategica, e convincere le persone che la strada è quella giusta. Per incoraggiare l’osservanza delle regole però è necessario essere credibili, sforzarsi di mantenere, nonostante tutte le difficoltà, un elevato livello di servizio”.
In conclusione: se fare la differenziata spinta nei grandi centri costa di più, come la mettiamo con la crisi finanziaria che attanaglia gli enti? Fortini non ha dubbi: “La raccolta differenziata diventa virtuosa se disponi in proprio degli impianti di trattamento e valorizzazione. Ma devono essere impianti di prossimità, a chilometro zero. In queste condizioni, il sistema è in grado di ripagarsi per il 70%. Se invece la tonnellata di organico che raccogli la devi trasportare a grande distanza, verso gli impianti degli altri, in Veneto, Friuli o Lombardia, ti costa un occhio della testa, e entri nel paradosso che più differenzi più paghi. Convincere il cittadino della convenienza economica ed ambientale di tutto questo è veramente difficile”.
Eppure qui da noi c’è chi teorizza che l’esportazione di monnezza alla fine sia addirittura conveniente. “E’ un tragico errore, per almeno quattro ordini di ragioni. Innanzitutto c’è un vulnus democratico. Se non sei autosufficiente, significa che dipendi da un altro, che decide al posto tuo costi, tempi, quantità, in funzione delle sue convenienze. Non sei autonomo, e in più sei ricattabile. Stai declinando il mandato di rappresentanza che hai ricevuto dalla tua comunità. Poi c’è una questione di responsabilità. Le direttive europee dicono che ogni territorio deve prendersi carico e trattare i rifiuti che produce, non scaricare, a causa della propria incapacità, il problema su qualcun altro. Il terzo aspetto riguarda lo sviluppo. Il rifiuto aprioristico di un’impiantistica moderna, all’interno di un ciclo ordinato dei rifiuti, significa rinunciare a un’occasione importante di sviluppo industriale, innovazione tecnologica, creazione di occupazione qualificata, messa a punto di know-how, formazione, tutte cose che costituiscono un capitale tecnico-economico importante per la collettività. Infine c’è una questione di soldi. Affidarsi agli altri significa sottomettersi a un’esportazione perpetua di ricchezza. Il Nord Italia ha ristrutturato e modernizzato i suoi impianti di trattamento con i soldi pagati dalle regioni del Sud.”
A questo punto, resta da affrontare l’opposizione ostinata delle comunità locali alla localizzazione degli impianti. “E’ l’aspetto più doloroso. Negli ultimi venti anni è cresciuta la sfiducia e la diffidenza: se prima non andava bene la discarica o il termovalorizzatore, ora il rifiuto scatta anche per l’impianto di compostaggio, o il centro per il recupero della carta o delle plastiche. A volte abbiamo difficoltà a posizionare anche un semplice cassonetto. Il rifiuto si è trasformato in una minaccia indistinta. Certo, ci sono stati casi di cattiva gestione, il nostro resta sempre il Paese di Seveso e dell’Ilva; anche il ripetersi di incendi di piattaforme di riciclaggio (sette negli ultimi mesi), come quello ultimo dei giorni scorsi a Savona, pone preoccupanti interrogativi. E’ necessario recuperare fiducia. La Campania si è dotata di un piano ambizioso per la realizzazione degli impianti di compostaggio, con un finanziamento importante di 150 di milioni. E’ necessario fare in fretta tutte queste cose. Sarà il segno che finalmente si è svoltato, l’assicurazione, per tutti, che le crisi del passato non torneranno più.”
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 2 gennaio 2018
Il viaggio alla città senza più suolo l’ho fatto in metro, superato il canyon verde del Vallone San Rocco il treno procede in superficie, sulla distesa di case; l’ultima fermata di Piscinola-Scampia non è una stazione, ma una muraglia alta, che separa la periferia di Napoli da qualcosa di diverso ancora, la periferia della periferia.
Trovo ad aspettarmi Alessandro Visalli, ho sempre pensato fosse tra le menti più attrezzate della nostra generazione, un gentlemen che non alza mai la voce. Sono venuto per capire cosa lo ha convinto ad accettare una missione impossibile, quella di fare l’assessore all’urbanistica del comune di Arzano. Secondo l’ultimo rapporto ISPRA sul consumo di suolo, Arzano è la città d’Italia col più elevato grado di urbanizzazione (83%), seconda solo a Casavatore (90%), e seguita da Melito (81%), tutte e tre sono qua, in un fazzoletto di terra, patologie tanto estreme, da frustrare sul nascere ogni velleità di rimedio, controllo, governo.
“Qui è proprio sull’urbanistica che si sono schiantate le forze politiche e le istituzioni” mi spiega Alessandro, mentre ci dirigiamo in auto verso il Municipio. “Negli ultimi dieci anni il comune è stato sciolto due volte per infiltrazioni camorristiche, la prima volta c’era il centrosinistra, la seconda il centrodestra. Si andava avanti con un vecchio programma di fabbricazione degli anni ’70, in teoria avrebbe dovuto funzionare come norma transitoria di salvaguardia, in attesa di un piano regolatore che in quarant’anni non è arrivato mai. Nel vuoto delle regole, col malaffare istituzionalizzato la città si è moltiplicata per dieci, dopo il terremoto del 1980 non si è capito più niente, il casale agricolo si è saldato col capoluogo e i comuni confinanti, al posto della canapa e dei frutteti ora c’è una distesa abusiva, informe di case e condomini.”
E’ su queste macerie che è nata la nuova amministrazione, le elezioni di giugno le ha vinte Fiorella Esposito, una vita nella scuola pubblica e nel sindacato, a sorpresa ma non tanto si è aggiudicata il ballottaggio, con il sostegno di Dema, Rifondazione e di due liste civiche, espressione di un tessuto di associazioni e di volontariato che ad Arzano, nel deserto della politica, rimane prodigiosamente vivo e vitale. Fiorella aveva bisogno di un urbanista bravo, fuori dai giochi, e ha chiamato Alessandro.
“Non si è perso tempo” mi dice Visalli “Subito abbiamo messo mano al nuovo regolamento edilizio. E’ lo strumento che regola le piccole trasformazioni, adeguamenti, cambi di destinazione del patrimonio esistente, l’uso degli spazi pubblici. Sembra niente, ma ad Arzano è una rivoluzione, perché in una situazione così congestionata, è la somma degli innumerevoli, minuti cambiamenti quotidiani che finisce col definire il volto della città.” Così, dopo quarant’anni la città torna a darsi regole certe, con le decisioni che si prendono al di sopra del tavolo, in piena luce, con procedure trasparenti.
La novità riguarda proprio la terra, perché il regolamento edilizio, oltre a bloccarne l’ulteriore consumo, condiziona il rilascio delle autorizzazioni alla produzione di nuovo suolo: chi intende fare mutamenti deve impegnarsi a de-impermeabilizzare le superfici asfaltate, a dare respiro alla terra, consentendo all’acqua e all’aria nuovamente di infiltrarsi, alle piante di crescere, all’ecosistema di ripartire, nella forma di un albero, un filare, una semplice aiuola. L’obiettivo, è di fare in modo che le corti del centro storico possano rinverdire, tornare ad essere gli orti e gli arboreti interclusi di quarant’anni fa. E’ un’idea semplice ma rivoluzionaria, quella di far girare al contrario il contatore del consumo di suolo; in ogni caso la sola possibilità di riequilibrio che rimane, quando la terra l’hai già consumata quasi tutta.
Piazza Cimmino, dov’è il municipio, sarebbe anche bella con la corona di lecci, la torre civica e il campanile; nel frattempo il sindaco è arrivato, ci riceve in sala giunta. Fiorella Esposito ha grandi occhi, il volto aperto che dice cocciutaggine ed energia. Lo slogan della sua campagna era “Arzano è un’isola”, voleva dire che la città soffre perché chiusa in un recinto, un pezzo di area metropolitana non connesso con niente, mortificato da assi mediani e superstrade che dividono più che unire.
“Arzano” mi spiega Fiorella “è una città contro. Contro i bambini, gli anziani, i deboli, le giovani famiglie. Senza servizi e spazi pubblici. Il trasporto pubblico si arresta a Napoli, alla stazione di Piscinola: nel progetto di metropolitana regionale a suo tempo immaginato dall’assessore Cascetta era prevista una stazione vicino l’area ASI, poi non se ne è fatto più niente. Abbiamo chiesto al capoluogo e alla città metropolitana di escogitare insieme forme di integrazione del servizio, ma il dialogo è difficile. Solo connettendosi Arzano può tornare a vivere. In questo isolamento, a parte l’area ASI, che pure dà segni di ripresa, tutte le attività economiche sono in sofferenza, i negozi chiudono, il tessuto sociale ferito dalla lunga crisi non ha la forza di riprendersi”.
Già, l’area ASI si estende su quasi il 40% del territorio comunale, Arzano rimane una delle città industriali più importanti della Campania e del Mezzogiorno; sino ad oggi l’area produttiva ha goduto di un regime di sostanziale extraterritorialità. “Quando vengono le delegazioni dalla Cina o dal Giappone, l’ASI provvede in proprio a riasfaltare le strade lungo il percorso, e ogni volta ripeto loro che se gli asiatici sbagliano strada, finiscono comunque per smarrirsi nello sgarrupo, sarebbe quindi meglio lavorare insieme”. Un primo risultato Fiorella l’ha ottenuto, l’ASI ha accettato di condividere il nuovo regolamento edilizio, è possibile a questo punto immaginare un percorso unitario di governo del territorio comunale, amministrazione ed imprese, all’insegna dell’interesse pubblico.
Nel pomeriggio breve di dicembre la piazza già imbrunisce dietro i vetri, gli uccelli chiasseggiano sui lecci, è il momento per una passeggiata in centro storico, il luogo dell’identità e della memoria, che ad Arzano, come in tutti gli altri casali, sono vive, nonostante tutto. Nello stemma della città figurano, stilizzate, le foglie di lino e di canapa, le colture che fino al 1960 fecero la prosperità dell’agrotown. Per Fiorella la memoria rimane la risorsa essenziale per provare a ricostruire qualcosa.
Ci accompagna Antonio Risi, dalla Regione, dove è stato a lungo responsabile dell’Autorità ambientale, ha deciso di trasferirsi qui, in frontiera, per dirigere l’ufficio urbanistica e condividere l’avventura. Nel crepuscolo percorriamo in silenzio le vie tortuose, le corti che si aprono una nell’altra, l’atmosfera è suggestiva, l’impianto originario ha miracolosamente resistito. In centro storico sono rimasti a vivere gli anziani, i meno abbienti, gli immigrati, ma Fiorella sogna si possa ripetere, in piccolo, qualcosa dell’esperienza napoletana, con forme di riscoperta e rivitalizzazione del borgo antico.
A sera, lungo la strada del ritorno, ripenso alle cose viste e ascoltate. Chi avrebbe immaginato di trovare, proprio in uno dei segmenti più scombinati e sofferenti del sistema metropolitano, tentativi così seri di rinascita e riscatto. “Arzano è un’isola” dice Fiorella, ma anche la Sanità in fondo lo è, il fatto nuovo sono i Robinson, le persone di qualità che su queste isole hanno deciso di costruire ponti e barche, che stanno lottando per la vita, mettendosi in gioco: è la sola energia autentica in circolazione, non importa come andrà a finire, ci sono idee che tornano buone per l’intera area metropolitana, è il caso di prestare ascolto, farle crescere, di dare una mano.
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