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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 26 settembre 2019

Se n’è andato lunedì Edoardo Salzano, grande protagonista dell’urbanistica e della cultura italiana del ‘900,  in una dolce mattinata di settembre a Venezia, dove viveva da quasi mezzo secolo. Eddy aveva 89 anni, era nato a Napoli nel 1930 da grande famiglia, il nonno era Armando Diaz, il generale della Grande Guerra che organizzò la controffensiva sul Piave e sul Grappa dopo la disfatta di Caporetto. Quei modi dolci e aristocratici della sua città aveva conservato, anche dopo tanti anni in giro per l’Italia, il fisico slanciato, la chioma candida, la parlata calda, scandita, le parole sempre precise, aderenti ai pensieri e alle cose.

Al di là della lunga attività accademica, Eddy è stato maestro per molti. L’arte e la scienza del governo del territorio, come l’ha raccontata nei suoi “Fondamenti di urbanistica”, non l’aveva fatto nessuno. Una sintesi ampia, razionale ed equilibrata, saldamente ancorata ai saperi fondamentali – storia, geografia, economia, scienze sociali, ecologia – in un saggio che nel suo svolgersi maestoso ha la bellezza di un romanzo.

A molti Eddy ha fornito i punti di orientamento, indicando principi, condizioni e metodi del mestiere. Il punto di partenza è forte: l’urbanistica è politica, è il lavoro di chi considera il territorio come un bene pubblico, il cui destino deve sottrarsi alle leggi cieche del mercato, da governare nell’interesse della comunità, a partire dagli ultimi. L’urbanistica è la democrazia e la Costituzione che si realizzano concretamente, pur in mezzo a mille contrasti e difficoltà, con la società che cresce e le libertà che avanzano, passo dopo passo.

Quanto alla precondizione, la sua lezione è che il governo del territorio deve compiersi negli uffici di piano delle amministrazioni, con atti alla luce del sole, è un mestiere pubblico, che non può vivere nell’ombra degli studi professionali. Il metodo poi, è necessariamente quello della multidisciplinarietà, il ricorso a tutte le scienze che spiegano il territorio e il paesaggio nei suoi funzionamenti, una cosa impegnativa, e lavorare con lui era un’avventura, il prender parte a impegnativi percorsi di squadra.

Questi processi complicati lui li governava con garbo, fermezza, ironia e autorevolezza, non si è nipoti di Armando Diaz per caso. Così l’ho conosciuto, a metà degli anni ’90, quando fu commissario ad acta del comune di Positano per il piano regolatore. I suoi lavori più importanti restano il piano del centro storico di Venezia, dove fu assessore all’urbanistica per un decennio, dal 1985 al ‘95; il piano paesaggistico della Sardegna, con Renato Soru, grazie al quale quelle coste belle e inermi hanno finalmente conosciuto una civile disciplina di tutela; il piano territoriale di coordinamento della provincia di Foggia, che ha aperto la strada al piano paesaggistico regionale della Puglia. Ancora, una grande vicinanza e attenzione alla nuova urbanistica napoletana, di molti dei “ragazzi del piano” è stato maestro e punto di riferimento.

Poi lui, che il ‘900 lo ha vissuto quasi per intero, ha assistito al disgregarsi con il terzo millennio di forme parole e contesti del secolo breve: il dissolversi dei movimenti politici, la crisi dell’amministrazione, la sofferenza delle finanze pubbliche, il vento freddo del pensiero unico liberista. E’ allora, sfoderando ancora una curiosità e una gioventù intellettuale mai doma, fino all’ultimo respiro, che Salzano si è impegnato a portare tra la gente la sua idea di urbanistica pubblica, le comunità attive sul territorio, col suo sito “Eddyburg”,  la creatura prediletta e totalizzante, che nel corso di quasi un ventennio è diventata sterminata biblioteca, la più bella e viva che il web sia in grado di offrire.

Colleghi amici e persone care hanno ricordato Eddy ieri, alle 15.00, presso la sede di Ca’ Tron dell’Università IUAV di Venezia, Santa Croce 1957. Che la terra (proprio quella tua, che hai amato e studiato) ti sia lieve.

 

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 9 settembre 2019

Finisce a Bagnoli il viaggio nei quartieri esterni di Napoli, non poteva che essere così, ed è la tappa più difficile, in quelle precedenti si raccontavano pezzi di città – da San Giovanni a Teduccio a Pianura – ai margini del dibattito pubblico, qui al contrario tutto è stato detto e scritto, l’area è un simbolo, che il carico di significati, connotazioni, aspettative bruciate rischia di far deflagrare, dissolvere. L’unica è tornare alla lezione di Rossi-Doria: camminare il territorio, che è il libro più grande; parlare con le persone; sentire attraverso la suola delle scarpe come cambia la terra, e lo spirito dei luoghi.

Con Massimo Di Dato che mi accompagna ci infiliamo nel sottopasso della Cumana, tutto affrescato di murales, ed è una specie di macchina del tempo, in un attimo riemergiamo su viale Campi Flegrei, il boulevard più suggestivo di Napoli, con i lecci e le palme, l’atmosfera fin de siècle e le palazzine liberty. Massimo è uno degli animatori dell’Assise per Bagnoli, una delle poche esperienze che un ragionamento collettivo sul quartiere ha cercato di tenerlo vivo in tutti questi anni. Stamattina abbiamo appuntamento con Aldo Velo, leader storico dei caschi gialli Italsider. “Ci vediamo alla Fonte del Gelo alle dieci” mi ha detto Aldo al telefono, poco importa se il bar ha cambiato nome da anni, ci intendiamo lo stesso.

Gli ex ragazzi del quartiere e della fabbrica li troviamo sul viale, coi capelli d’argento, occupano a gruppi le panchine. Quando Velo arriva, scattante nella polo rossa, è tutto un animarsi, un riconoscersi. Uno ci passa accanto: “Aldo” grida sorridendo ma senza fermarsi “vado di fretta, oggi nun teng o’ tiemp e’ litigà ’cu tè”. Ci fermiamo accanto all’edicola, attorno si forma un capannello, chiedo loro com’è adesso la vita nel quartiere, a dispetto della solarità dei luoghi le risposte sono amare.

Ci sono Antonio, Vincenzo, Gabriele, Mario, Alberico, Luigi, ed è un racconto prevalente di contrasti irrisolti, e di declino: l’aumento della micro-criminalità, coi furti di batterie e i vandalismi alle auto, tutte cose un tempo sconosciute da queste parti; gli sfollati nelle case occupate; il clamore notturno della movida, che ti nega il riposo; l’ospedale di riferimento, il San Paolo, che s’è svuotato, ridotto a poco più di un pronto soccorso. Sullo sfondo, i movimenti tellurici della demografia, coi bagnolesi che lasciano il quartiere, e i nuovi abitanti “che qui vengono solo per dormire”. E poi il lavoro che non c’è più, i figli che vivono lontano, dei quattro ragazzi di Aldo Velo, due lavorano in Emilia, uno in Norvegia.

I numeri parlano chiaro. Dal 1961 gli abitanti di Bagnoli sono diminuiti del 30%, 9.000 persone in meno, oggi sono poco più di 23.000. “Nel periodo immediatamente successivo la chiusura della fabbrica, all’inizio degli anni ‘90” mi spiega Di Dato “il patrimonio immobiliare del quartiere ebbe una rivalutazione istantanea, molti scelsero di beneficiarne vendendo e trasferendosi altrove. Anche i canoni di fitto crebbero, obbligando molti abitanti storici a lasciare il quartiere.”

Ai miei interlocutori chiedo se, al punto in cui siamo, il destino del quartiere debba oramai prescindere dal recupero dell’area industriale: in fondo quello che è successo in questi trent’anni è che Bagnoli si è trasformata da luogo della produzione a quartiere residenziale, come altri. E’ a questo punto che gli sguardi diventano freddi, la voglia di parlare passa di colpo. Il fallimento della riconversione è ancora vissuto come il più doloroso dei tradimenti. Gli operai che ho davanti avevano contrattato l’uscita dalla fabbrica – uno stabilimento appena ammodernato e in piena capacità produttiva – in cambio della promessa di un quartiere rigenerato e una nuova economia. Il risultato, a distanza di trent’anni, è il vuoto, al posto del lavoro antico non è arrivato proprio niente, solo l’inesorabile corrodersi dei legami e delle forme quotidiane di convivenza. Molti di loro non votano più. Il discorso cade sulle navi dei migranti, la chiusura dei porti, e i ragionamenti che ascolto, inaspettatamente, non sono tutti favorevoli a Capitan Carola e al lavoro umanitario delle ONG.

Ragioniamo di tutte queste cose con Aldo Velo. “Bagnoli è diversa da Taranto. Fino a che c’è stata la fabbrica, gli operai, il quartiere, il movimento delle donne e quello degli studenti sono stati una cosa sola, e la scelta non è mai stata tra lavoro e ambiente. Attorno al lavoro si era creato un soggetto collettivo che aveva un peso sulle decisioni della città, sulle questioni di interesse generale. Ora che tutto questo si è rotto, ognuno è rimasto solo con le sue incertezze e le sue paure, e trovano spazio posizioni difensive, impensabili un tempo.”

La discussione sull’ex acciaieria poi,  ha assunto toni metafisici. Qui non è come a San Giovanni a Teduccio, dove i cadaveri delle fabbriche sono ancora visibili e presenti, disseminati in mezzo alle case. A Bagnoli invece la spianata dell’acciaieria è interdetta e murata da trent’anni, non è più oggetto di esperienza diretta, sensibile: per i più anziani che ci lavoravano è un ricordo, per chi è nato dopo, una sorta di vuoto geografico, che le parole e i rendering dei piani urbanistici non riescono proprio a colmare.

Tutta Bagnoli a pensarci è ancora organizzata per recinti chiusi: il quartiere è una cittadella prigioniera tra i due rami di ferrovia, Metropolitana e Cumana, i varchi con l’esterno si contano sulle dita di una mano, una situazione rischiosa, visto che siamo in piena zona rossa dei Campi Flegrei. Come sono luoghi confinati l’area industriale dismessa, le rovine del Parco dello Sport, il Collegio Ciano, per non parlare di Nisida e del litorale.

Il Collegio Ciano fu costruito dal regime alla fine degli anni ’30, demolendo il casale medioevale sulla collina di San Laise, una comunità rurale di una cinquantina di famiglie. Doveva diventare la cittadella dell’infanzia abbandonata, i Figli del Popolo, ma la sorte fu la stessa della Mostra d’Oltremare, dopo l’inaugurazione scoppiò la guerra, e il complesso non entrò mai in funzione. Fu occupato dai tedeschi, poi dagli Alleati, quindi divenne campo profughi, alla fine saccheggiato. Dal 1954, per più di mezzo secolo, ha ospitato il Comando supremo della Nato.

Dell’antica agricoltura che c’era prima rimangono oggi una dozzina di ettari, tra il Collegio e la Domiziana, ed è l’ecomuseo agricolo più importante della città. Lo cura Gianni Grasso, coi ragazzi di Legambiente. Gianni è medico, una vita dedicata ai migranti e alla lotta alle dipendenze, i nonni erano coloni qui a San Laise, la salvezza di questo frammento miracoloso di agricoltura urbana e di memoria è l’altra missione della sua vita.

L’ingresso al parco agricolo è in fondo a Viale della Liberazione, tra l’area ex Nato e il binario della metropolitana, con Gianni sono ad attendermi Maria, studentessa in legge, ha occhi chiari silenziosi e attenti; Gennaro che fa l’informatico, e Federico che studia il cinese. Il muro di cinta dell’ex base militare è ancora armato di filo spinato e garitte, residui incongrui di Guerra Fredda in mezzo agli orti e gli alberi da frutto. Ai bordi del sentiero Grasso mi indica un grande masso bianco, è il basamento della statua del conte Ciano, abbattuta nei giorni della Liberazione.

L’area è di una bellezza e suggestione assolute, Legambiente l’ha in fitto dalla Fondazione Banco Napoli, l’altra parte è di un’immobiliare milanese, l’ha acquistata dall’antica proprietà, la contessa di Corigliano, per ora sta mandando via a uno a uno i coloni superstiti, in attesa di chi sa quali sviluppi.

Gianni coi suoi ragazzi ha ripulito l’area, ripreso i sentieri e le percorrenze, e la gestisce con rigore filologico, rispettando gli elementi minuti di questo paesaggio mozzafiato, l’arboreto, le vigne, gli orti, le siepi, i piccoli fabbricati rurali, soprattutto assecondando un equilibrio tra gli spazi coltivati, e quelli riconquistati dalla vegetazione spontanea.

Il risultato è un luogo che ha aspetti favolosi, subtropicali, dove accanto alle piante da frutto nostrane, puoi trovare un boschetto silenzioso di bambù, e una dracena gigantesca, dalle foglie acute: una natura primitiva, all’inizio del tempo, sembra di stare in un quadro di Henri Rousseau.

Il parco agricolo è aperto al pubblico, l’unica avvertenza è quella di rispettare il silenzio, la pulizia e la grazia dei luoghi. In attesa dell’altro grande parco, quello dell’acciaieria, se e quando verrà, quest’area è già adesso, grazie al lavoro di questi ragazzi, un polmone verde, testimonianza preziosa della storia rurale del quartiere, prima dello sviluppo turistico inseguito dal marchese Giusso e Lamont Young alla fine dell’800, e dello sconquasso che è seguito poi, nel secolo breve dell’acciaieria.

Resta il fatto che Bagnoli è oggi la somma di luoghi notevoli, che non dialogano tra loro, e la cosa da fare, assai semplice, sarebbe iniziare a spezzare i recinti, a partire dal muro della fabbrica, restituendo subito alla città il “terzo paesaggio”, la trama verde di erbe alberi e arbusti cresciuta in silenzio sulle loppe d’altoforno, senza chiedere permesso a nessuno, mentre noi perdevamo tempo con la burocrazia malata, e una bonifica senza fine.

Passiamo ancora i binari, siamo di nuovo sul boulevard ridente, c’è aria d’estate, macchie d’ombra e di sole. Mentre ci salutiamo Velo mi affida l’ultimo ricordo di quando ragazzi, seduti su queste panchine, aspettavano il passaggio degli operai lungo il viale, alle tre del pomeriggio venivano giù dalla stazione della metropolitana, per l’inizio del turno. Poi gli operai sono diventati loro, e ora il cerchio s’è chiuso, sono tornati sulle panchine, ma di qui non passa più nessuno.

 

Francesco Erbani, Repubblica Napoli 8 settembre 2019

Tornare, restare, arrivare. Quanti verbi si coniugano all’infinito ragionando delle regioni meridionali. Ognuno di essi prova a squarciare un velo reso impermeabile da qualche pigrizia mentale, dall’abitudine di guardare a queste regioni come a un universo compatto, punteggiato solo da buchi neri.

Franco Arminio su queste pagine ha intrecciato i primi due verbi. Le cronache rimandano costantemente le immagini di arrivi e si spera che i prossimi non siano più accompagnati da manfrine disumane. Si promuovono iniziative e manifesti per politiche pubbliche che fronteggino lo spopolamento – questione di fondo che i tre verbi raduna e mette in fila.

A questi tre verbi se ne può aggiungere un altro, sempre all’infinito. Interpretare. E ad esso agganciare un complemento oggetto. Territorio.

Prima di procedere, però, occorre lavorare di fino sul senso della parola territorio e sgomberare dal suo repertorio di significati quelli che hanno a che fare con un aggettivo possessivo. Mio. Al massimo, nostro. Una volta ripulito il vocabolario da tutto l’armamentario di recinti, di fisime e di vere fantasie indentitarie, di tradizioni tanto ossificate quanto inventate, il territorio si libera di una mistica proprietaria e torna a brillare delle tante potenzialità visibili e latenti che ne costituiscono l’essenza. E si predispone ad essere interpretato, scandagliato nelle sue caratteristiche.

Il territorio – come ripete a proposito del suolo Antonio Di Gennaro – non è una piattaforma neutra, il supporto indifferente capace di sopportare, e supportare, qualsiasi oggetto. Né possiede una dimensione solo fisica. Come insegnano le più aggiornate discipline che trattano del paesaggio, anche il territorio può dirsi composto di tanti elementi, fisici e non solo fisici, oggettivi e soggettivi.

Un territorio ha una storia, non è stato sempre così come oggi lo vediamo, né possiamo immaginare di trattenerlo in una ipotetica fissità. Su di esso hanno agito donne e uomini, si sono esercitate trasformazioni. Ha poi espresso valori, saperi, bisogni, persino aspirazioni.

In questa condizione multifunzionale, un territorio, un territorio delle aree interne, per esempio, si presta a essere interpretato, appunto per comprendere come può vivere al meglio, come i suoi bisogni possono essere soddisfatti e le sue aspirazioni assecondate. Tornare, certo. Restare, d’accordo.

Arrivare, ottimo. E però anche interpretare che cosa lo rende un luogo e non semplicemente uno spazio. E quali sono le sue virtù, quali relazioni si possono stringere al suo interno e verso l’esterno, quali bellezze esibisce, quali beni culturali, materiali o immateriali custodisce, quali doti nasconde, quali possono essere aggiornate, quali inventate.

Le aree interne possiedono tanti vuoti. Ecco un caso concreto in cui fare esercizio di interpretazione di un territorio: come trasformare questi vuoti da segno irrimediabile dell’abbandono in occasione per ripartire (mettendo al bando, è ovvio, occasioni speculative o di profitto a breve). In alcune zone delle regioni meridionali questo già avviene, dalla Calabria al Cilento al Sannio, tanto per riferirsi a quanto di più interno c’è nell’interno. Nulla è esemplare, nulla si propone come modello, nulla è esente da conflitti, ma il movimento anche se non è tutto, come si diceva un tempo, è molto. È appena un mormorio, ma ascoltarlo conviene.

Ma quali sono gli attori di questa campagna d’interpretazione (chiamiamola così per convenzione)? Chi abita quel territorio, certamente.

Può disporre di tanti strumenti, possedere le chiavi per aprire lo scrigno dei saperi, delle consuetudini agricole, artigiane, manifatturiere. È in grado di conoscere la storia, il lungo e il breve periodo, di trasmettere i canti popolari, i riti, le feste. Ma anche chi abita quel territorio può essere vittima dei luoghi comuni, delle abitudini sbrigative e stereotipate. Può guardare senza vedere. Rischia, per esempio, di non afferrare appieno le potenzialità latenti, quelle che lo sconforto e la disillusione possono occultare.

È restato, ma in qualche modo deve ri-abitare il luogo in cui è sempre vissuto.

Ecco perché per interpretare meglio è necessario che qualcuno arrivi, da vicino o da lontano, o che torni, portando nella valigia tanti attrezzi culturali appresi altrove. Anche perché le cose che si sono sempre fatte non è detto che bastino. Interpretare consente di capire che cosa manca. E che cosa di nuovo è più appropriato.

Degli interventi su Repubblica Napoli di agosto restava solo questo, sul parco della Floridiana.

Floridiana, i perché della rovina

Antonio di Gennaro, 25 agosto 2019

Il parco della Floridiana è in rovina, Repubblica si è più volte occupata del caso nelle ultime settimane, un interesse doveroso, perché stiamo parlando del giardino all’inglese per alcuni versi più importante della città, uno dei più belli d’Italia. Oltre che dell’unico parco verde del Vomero, uno spazio di importanza vitale per le famiglie, gli anziani, i piccoli del quartiere. Ora gli spazi ombrosi di lecci dove ci inseguivamo da bambini è sigillato dalle reti metalliche dei cantieri, i luoghi magici dell’infanzia irriconoscibili, regrediti alla provvisorietà delle aree degradate, polverose, dismesse.

Alla domanda sul come sia potuto succedere, la risposta è piuttosto semplice: la Floridiana è il contrario di Capodimonte. Tutti e due i parchi sono sotto gestione ministeriale, ma a Capodimonte la differenza l’ha fatta la strategia che il direttore Bellenger ha messo in campo sin dall’inizio del suo insediamento, dopo la riforma Franceschini.

In una lunga intervista del 2017 a Repubblica (“Capodimonte, il bosco ritrovato: ecco il nostro Central Park”) Sylvain Bellenger ha raccontato come la sua priorità fosse quella di mettere il grande parco di 120 ettari al servizio del quartiere e della città, farne una grande infrastruttura ecologica e sociale, e lui pensava soprattutto alla gioventù trascurata dalle politiche pubbliche e dalle istituzioni. Per fare questo ha redatto progetti, cercato risorse, riorganizzato la macchina amministrativa. Il lavoro naturalmente è all’inizio, ma i risultati sono promettenti.

Nel caso della Floridiana tutto questo non è successo. Il Ministero dei beni e delle attività culturali ha mostrato il volto peggiore, distante dai bisogni del territorio, prigioniero di un’organizzazione burocratica, datata, priva per di più delle competenze e dei saperi specifici necessari a gestire quella cosa particolare che è un giardino storico, un bosco urbano, un ecosistema vivente della cui cura ed evoluzione gli architetti, gli storici e gli archeologi del ministero sanno ovviamente assai poco.

Così il problema è stato sottovalutato, e bene ha fatto l’amministrazione comunale a proporsi per la gestione del parco. Ci sarebbero anche risorse finanziarie per intraprendere il restauro, due milioni di euro, ma è evidente che non è possibile dormire sonni tranquilli, perché anche la macchina comunale per parte sua non gode di buona salute, falcidiata dai pensionamenti di “quota 100” e dal blocco del turnover; una struttura oramai quasi priva di agronomi, mentre la squadra di giardinieri è ai minimi termini, senza nemmeno l’attrezzatura minima per operare.

Basta passeggiare in Villa comunale, o percorrere i lacerti del grande bosco dei Camaldoli avventurosamente aperti al pubblico, per constatare quale sia al momento la capacità dell’amministrazione cittadina di curare e gestire il patrimonio di aree verdi.

La lezione è che non conta tanto il livello istituzionale (stato centrale, comune, meglio comunque la collaborazione dei due), quanto la capacità di dotarsi di una strategia, pensare alle aree verdi non come a una fastidiosa appendice del costruito, ma piuttosto il motore clorofilliano, sociale ed ecologico, necessario per assicurare ai cittadini una decente qualità di vita.

E’ evidente che se le istituzioni hanno le idee chiare, anche i privati possono dare una mano. Resta il fatto, come in tutte le politiche pubbliche, che le parole non bastano, servono mezzi, risorse, organizzazione, capacità amministrativa.

Con la Floridiana abbiamo toccato il fondo, speriamo davvero che l’antico giardino affacciato sull’azzurro torni presto a ospitare le avventure dei nostri piccoli, in tutta la sua bellezza e mistero, che l’incanto possa ancora ripetersi.

Tra le riflessioni pubblicate in agosto su Repubblica Napoli avevo dimenticato questa, sui neoborbonici e il Partito del Sud,

Le cause perdute del Mezzogiorno

Antonio di Gennaro, 21 agosto 2019

Come ha scritto ieri Aurelio Musi su queste pagine, era inevitabile che in questo momento difficile per il Mezzogiorno anche i neoborbonici venissero fuori con una loro proposta, un  “Movimento per il Sud”, che lo scrittore Pino Aprile intende presentare pubblicamente nei prossimi giorni, del quale ha parlato nell’intervista a Roberto Fuccillo. Come osserva giustamente Musi, lo spazio per una simile offerta politica appare potenzialmente ampio, resta da capire quanto tutto questo possa davvero aiutare il Sud a superare la congiuntura complicata che stiamo vivendo, fatta di crisi economica, spopolamento, debolezza istituzionale.

Il neoborbonismo non è solo nel mondo. Un bel numero della rivista Meridiana, uscito nel 2017, è interamente dedicato alle “Cause perdute”: la nutrita famiglia di movimenti che fonda la sua identità su una dolorosa sconfitta: i borbonici, appunto, ad opera dei piemontesi; i Confederati americani sconfitti dagli Stati del Nord;  e poi i fascisti italiani dopo il disastro dell’ultima guerra; ed ancora catalanisti, carlisti spagnoli, socialisti radicali russi sconfitti nella rivoluzione del 1917…

I due curatori, Eduardo González Calleja e Carmine Pinto, nell’introduzione al volume mettono in rilievo come questi movimenti abbiano molte cose in comune. In primo luogo il fatto che queste identità si basino tutte su una causa perduta, una sconfitta ingiusta, che diventa evento mitico, nella quale il nemico ha prevalso sui superiori valori dei vinti grazie alla slealtà e al tradimento, depredando poi  i soccombenti non solo di beni e risorse, ma anche della loro storia e tradizione, cancellandone la memoria autentica.

Per quanto riguarda i vinti, ad essi non è in nessun modo possibile attribuire colpe o responsabilità. La loro sconfitta è esclusivamente frutto dell’inganno e del complotto. L’appartenenza a una identità in tal modo costruita richiede una cosa sola: la lealtà alla causa, autentica e giusta per antonomasia, in opposizione all’interesse, all’opportunismo, al tradimento.

A rifletterci un attimo, anche per i movimenti della cosiddetta Terra dei Fuochi è andata così, con la causa perduta che in questo caso è rappresentata dall’avvelenamento subdolo dei suoli per colpa dei rifiuti tossici provenienti dalle industrie del Nord. Non conta niente il disordine territoriale frutto di sessant’anni di anarchia urbanistica, o l’incapacità di gestire un ciclo dei rifiuti autonomo, non ci sono nostre responsabilità, è tutta e sempre colpa di un nemico esterno.

La contiguità di questo modo di ragionare con i vari populismi in giro è evidente: il problema non è mai quello di una responsabilità propria da esercitare, di soluzioni, compromessi, alleanze e percorsi da costruire con ostinazione e coerenza ma, appunto, di un nemico bieco da additare e combattere. E’ un gioco misero evidentemente, e così davvero non si va da nessuna parte.

Antonio di Gennaro, 4 settembre 2019

La scena è quella di un teatro di guerra. I pesanti tombini scoperchiati, cavi elettrici strappati, porte sfondate e vetri rotti, gli impianti tecnologici a pezzi. E poi il fuoco, che ha distrutto i locali della bella palazzina degli uffici, l’odore di bruciato che stringe ancora la gola. La cittadella Gesen, il piccolo gioiello tecnologico al centro delle discariche di Giugliano, nata per il trattamento di percolati e biogas, è stata distrutta da una serie di raid, almeno quattro, iniziati il giorno di ferragosto, e proseguiti fino a lunedì scorso.

L’impianto, inattivo da tempo, era diventato il quartier generale del commissario alle discariche di Giugliano, Mario De Biase, e del suo staff. In quegli uffici era stato messo a punto l’intervento di messa in sicurezza della discarica Resit, distante solo un centinaio di metri, trasformata, come ha raccontato Repubblica lo scorso 27 luglio, in un parco verde di sei ettari, abbellito dai murales di Jorit.

Obiettivo apparente dei raid, condotti in grande stile da una squadra di almeno una ventina di persone, assistite da camion e furgoni, era il furto dei cavi e dei materiali metallici. Per far questo, sono stati distrutti gli impianti di trattamento del biogas e del percolato, un sistema tecnologico modello costruito coi fondi europei, potenzialmente in grado di produrre energia pulita per una comunità di alcune migliaia di persone.

Il sistema di sorveglianza ha mostrato falle incredibili, se le squadre di razziatori hanno potuto lavorare per molte ore, e a più riprese, seguendo un programma preciso: a ferragosto il taglio dei cavi e l’isolamento elettrico degli edifici; il 25 agosto, la razzia in grande scala, conclusa con l’incendio della palazzina direzionale. Poi ancora almeno altre due incursioni, l’ultima lunedì sera, nel corso della quale sono state arrestate in flagrante due ragazze rom e un minore, mentre un’altra dozzina di persone è riuscita a fuggire.

Certamente ha pesato, sull’estrema vulnerabilità del sito, il puzzle caotico di competenze: il complesso distrutto era della Gesen, una società partecipata dalla vecchia provincia, che non esiste più ed è stata assorbita nel Consorzio di bacino, anch’esso in scioglimento, in attesa che si costituisca il nuovo Ato. C’è poi anche la Sapna, società della città metropolitana, che gestisce alcune delle discariche, oltre alla guardiania dell’area che però, negli ultimi tempi, sembra non riuscisse a coprire l’intero arco delle 24 ore.

L’impianto come si è detto non era attualmente in funzione, per riattivarlo sarebbe bastato un revamping del costo di poche centinaia di migliaia di euro. In questi ultimi anni, grazie a De Biase, la Gesen aveva comunque continuato a produrre un diverso tipo di energia, che ha a che fare con la cultura, la conoscenza, la coscienza civica. L’auditorium al terzo piano della palazzina degli uffici era diventato, proprio nel mezzo dell’area più critica della Campania, un centro di divulgazione per migliaia di studenti delle scuole pubbliche dell’intera regione, che qui venivano a studiare come si ricostruisce un ecosistema, come si ripara la terra ferita. Quando entriamo sembra dopo un bombardamento. Le mura annerite dal fuoco, gli arredi a terra, maciullati, il soffitto che viene giù a pezzi. Persino le soglie di marmo delle scale sono state spezzate, una ad una, con rabbia

La furia massima ha investito proprio la stanza dove il commissario Mario De Biase coordinava i lavori di recupero delle discariche, letteralmente sventrata, il tavolo di cristallo in frantumi, il mobilio e i computer a pezzi, gli archivi rovesciati, i soffitti sconvolti. Alle pareti restano affisse le planimetrie dei progetti, erano un simbolo di speranza concreta ma adesso, in mezzo alle macerie, ti mettono addosso solo un senso di precarietà.

Tra gli autori dei raid ci sarebbero dunque rom, qualcuno avrebbe anche visto persone di colore. Rimane il dubbio che per rubare il metallo non ci fosse bisogno di tanta violenza, di frangere ogni vetrata, massacrare in questo modo i locali. Girando per le stanze distrutte è netta invece la sensazione che, con questa sproporzionata azione di guerra, qualcuno, molto al di sopra degli esecutori materiali, abbia voluto lanciare un messaggio. Di questa terra mortificata non si deve salvare niente. Tutto deve rimanere com’è: le ferite eterne delle discariche, le strisce strafottenti di monnezza a bordo strada, le ragazze nigeriane sedute ad aspettare lungo il viale.

In attesa che polizia, carabinieri, magistratura chiariscano come tutto questo sia potuto accadere, la cosa importante ora è mettere in sicurezza i luoghi simbolo vicini, che sono tremendamente a rischio: il parco verde della Resit, i cui impianti tecnologici potrebbero subire lo stesso saccheggio, e il bosco di san Giuseppiello, il sito di fitorisanamento più vasto d’Italia, sequestrato ai Vassallo – ai quali lo Stato ha presentato il conto – dove ventimila pioppi, monitorati dai ricercatori della Federico II, puliscono in silenzio la terra contaminata dai fanghi industriali.

Nel servizio del 27 luglio scorso si diceva della difficoltà di rintracciare un ente, un’amministrazione in grado di prendere in consegna permanente queste aree riscattate. Il commissario De Biase è in scadenza, ma senza responsabilità e governo questi luoghi moriranno di nuovo. L’azione di guerra per ora li ha risparmiati, restano il simbolo della rinascita possibile, ma occorre prevedere a loro difesa, subito, un presidio di sicurezza permanente. Sono già in programma a breve nuove visite di scolaresche e equipe scientifiche, questo racconto di speranza, conoscenza, riappropriazione del territorio non può fermarsi dinnanzi alla barbarie, non deve assolutamente essere interrotto.

Tre brevi riflessioni, pubblicate da Repubblica Napoli tra agosto e inizio settembre. I temi sono diversi. Il rapporto Svimez, sulla sempre più preoccupante situazione del Mezzogiorno. Il pezzo sulla nuova strategia della Lega è uscito prima della rottura del governo giallo-verde, forse un po’ ha portato bene. E poi l’inaccettabile morte di un operaio agricolo, al lavoro sotto una serra a Varcaturo.

 

Il Sud come periferia

Antonio di Gennaro, 4 agosto 2019

Che effetto fa leggere l’ultimo rapporto Svimez dopo averle girate da poco, per conto di questo giornale, alcune di queste terre: le periferie d’Appenino,  dal Matese al Fortore al Cilento; e quelle di città, da San Giovanni a Teduccio a Pianura.

La cosa che più mi ha  colpito nel viaggio è una certa identità di pensiero.  Alla domanda su quali fossero le cose fa fare, i sindaci delle aree rurali interne  hanno risposto allo stesso modo dei parroci e degli operatori delle periferie urbane, indicando senza incertezze una terna costante: educazione, connessione, lavoro. Senza scuola non ci sono bambini e ragazzi; senza lavoro mancano i loro genitori. Per i collegamenti poi, l’aspirazione era per un muoversi meno faticoso di persone, merci e informazioni, che non dipendesse da una stradaccia pericolosa mezzo franata tra le colline; da una linea internet a singhiozzo; o da un autobus precario di periferia, senza più regola ed orario.

La cosa che Svimez dice ora, è che in questa nuova, inedita congiuntura, fatta di recessione e spopolamento assieme,   le città e le campagne del sud condividono ormai lo stesso declino, che é diventato di sistema. Il calo delle nascite e l’emigrazione, che hanno già dimezzato nel giro di un cinquantennio la popolazione della cintura verde appenninica, minacciano ora alle aree urbanizzate, che pure sembrano ancora congestionate di funzioni e persone. Insomma, è l’intero Mezzogiorno che si trasforma in periferia, la sterminata area interna di un Paese che non c’è più.

Calo demografico e recessione producono insieme un mix pericoloso, un avvitamento in picchiata: se le persone vanno via, cala il gettito fiscale e previdenziale, e non si ricostituisce più il capitale pubblico necessario  a tenere in sicurezza l’economia,  i territori, le comunità. Una precarietà gestionale che sperimentiamo già ora, nell’incapacità di mantenere  in condizioni minime di efficienza e decoro un capitale urbano e infrastrutturale che dal 1960 si è comunque sestuplicato, strappando il Sud Italia, nel bene e nel male, da un medioevo che sembrava non dovesse finire mai.

E’ una trappola che Gianfranco Viesti ha definito “dello sviluppo intermedio”: la condizione incerta dei territori che sono comunque troppo costosi, rispetto all’Est europeo ad esempio, per attrarre le nuove manifatture;  troppo poveri per interessare i circuiti globali dell’innovazione e dell’eccellenza.

Il percorso per uscire da questa situazione appare complicato. In tempi di autonomia differenziata, con le regioni del Nord che contrattano con lo Stato centrale le nuove regole di convivenza, quasi già fossero paesi terzi, viene meno la possibilità stessa di immaginare le necessarie politiche di riequilibrio, che non possono che essere nazionali e statali.

A livello locale, la macchina della pubblica amministrazione nel suo complesso, è in fase avanzata di dismissione, come effetto del prolungato blocco del turn over e dei prepensionamenti di Quota Cento. C’è poi la questione della continuità amministrativa: per ottenere risultati occorrerebbe costanza, pazienza, evitando di buttare all’aria ogni volta quello che è stato fatto in precedenza.

Rimangono di conforto alcune esperienze dal basso, come quelle che Francesco Erbani ha raccontato nel suo ultimo libro “L’Italia che non ci sta” (Einaudi), nel quale ha cucito insieme storie esemplari, dalle Catacombe di San Gennaro alle Grotte di Pertosa, accomunate da un aspetto: la riappropriazione, la cura e la gestione, da parte di comunità locali,  del patrimonio territoriale e culturale, generando in questo modo occupazione e nuove opportunità, insomma i beni pubblici che mancano.

Si tratta naturalmente di esperienze seminali, con il valore di esempi, fonti d’ispirazione. Hanno in comune il fatto di basarsi sulle persone, e di mettere al centro proprio le tre parole chiave incontrate nel viaggio – educazione, connessione, lavoro – con le quali hanno evidentemente molto a che fare.

 

L’inganno di Lega1 e Lega 2

Antonio di Gennaro, 13 agosto 2019

Torna alla mente il racconto di Massimo Troisi, col Senatur Umberto Bossi imbarazzato quando dalla sua libreria spunta fuori a sorpresa il 45 giri con dedica di “Tu si’ na malatia” del grandissimo  Peppino di Capri. E’ evidente che quella di Troisi non era comicità, ma scintilla di intelligenza cosmica, straniamento sublime, comprensione profonda delle cose.

Chissà se gli attuali strateghi e consulenti d’immagine della Lega ci hanno pensato, ma loro sono  andati comunque volutamente oltre, verso un trash scientificamente perseguito, col pancione in fuori sulla spiaggia, le cubiste che ballano l’inno, e il crocifisso attorno al pugno, esibito come amuleto magico-superstizioso, non più simbolo di fraterna universalità ma di identità rissosa, di insofferenza ostile verso i più deboli.

Ma non è questa nuova strategia comunicativa che interessa, quanto l’ingegneria elettorale che c’è dietro, che per certi aspetti ricorda quella che a sorpresa Berlusconi dispiegò nelle elezioni politiche del 1994 contro la gioiosa macchina da guerra di Occhetto, con un alleanza differenziata al nord con la Lega e al sud con Alleanza Nazionale.

Questa volta l’alleanza differenziata è tra due pezzi della Lega stessa: il pezzo più vecchio, chiamiamolo Lega1, quello che già governa le città e le regioni del Nord, e che per inciso nell’attuale parlamento è il partito che vanta la maggiore anzianità. Ed il pezzo nuovo, la Lega2, nata per drenare inaspettati consensi al Centro-Sud, che si giova della colorita, scientifica attrezzatura comunicativa descritta in precedenza.

E’ evidente che i due pezzi hanno obiettivi e funzioni del tutto diverse. La Lega1 una strategia precisa ce l’ha, è quella dell’autonomia differenziata, e del taglio fiscale alla Trump, che la Ragioneria Centrale dello Stato ha già valutato come assolutamente incompatibile con gli equilibri finanziari del Paese.

Sugli aspetti di incostituzionalità e iniquità dell’autonomia differenziata, così come delineata nelle ipotesi di intesa che circolano, hanno autorevolmente scritto Massimo Villone sulle pagine di Repubblica, e Gianfranco Viesti nel suo libro “La secessione dei ricchi”. Carlo Iannello sul Manifesto ha sottolineato un altro aspetto, che è l’impossibilità, una volta che il provvedimento passasse, di attuare politiche nazionali di qualunque tipo, con una competenza dello Stato centrale di tipo residuale, e l’Italia che scivolerebbe verso la condizione grigia e cinica pre-unitaria di paese “senza centro”, desolatamente descritta da Giacomo Leopardi nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”.

Ad ogni modo, il disegno è chiaro: rastrellare con la Lega2 – che un disegno proprio non ce l’ha, se non un astuto, bizzarro coacervo di slogan tra loro confliggenti, del tutto estranei ai reali bisogni del Mezzogiorno –  i voti che servono per attuare finalmente la strategia della Lega1, che mira a sganciare a qualunque costo il destino delle regioni più prospere da quello incerto del resto del Paese.

Qualche problema di convivenza tra le due Leghe sembrerebbe emergere, se sui social iniziano a fioccare commenti perplessi di elettori della Lega1 nei confronti della nuova, avventurosa strategia espansiva. Che però, nella sua inverosimiglianza, sta lì, chiara, alla luce del sole, impudente, evidente a tutti, e per questo alla fine magari ce la fa.

 

L’agricoltura clandestina

Antonio di Gennaro, 02.09.2019

Stava lavorando in serra Pasquale quand’è morto. La raccolta dei meloni a Varcaturo era finita da tempo, ma c’era comunque da preparare il terreno, le porche per la coltura successiva. Pasquale era un O.T.D., un operaio agricolo a tempo determinato. Un bracciante. Moglie e tre figli, a 55 anni era uscito di casa alle quattro del mattino, da Caivano, per una paga giornaliera di 40 euro. Come raccontato da Raffaele Sardo ieri su Repubblica, dei lavoratori che quel giorno erano in azienda, Pasquale e un altro erano a nero, gli altri regolarmente assunti.

La morte tragica di Pasquale Fusco costringe a ritornare sulla questione delle condizioni di lavoro in agricoltura. In Italia muoiono sul lavoro due persone al giorno, nel 2018 gli infortuni mortali sono stati 704, 83 in agricoltura, il 21% delle morti è al Sud. Nella piana campana la situazione è estremamente difficile. Le aziende sono particolarmente piccole, frammentate. La crisi della terra dei fuochi le ha ulteriormente mortificate, spinte alla clandestinità, il sommerso è enorme. La superficie agricole censita dall’ISTAT è solo un terzo di quella reale. Per di più si lavora su margini irrisori: i prezzi agricoli sono fermi da tre decenni in termini reali, mentre i costi di produzione – fertilizzanti, energia, manodopera – seguono invece fedelmente i rialzi del costo della vita.

La situazione ha aspetti paradossali. Le aziende agricole che cercano manodopera qualificata non la trovano. C’è invece nell’hinterland disordinato della piana campana un serbatoio di persone povere, come Pasquale, che in un modo o nell’altro devono lavorare. E gli immigrati, dall’Africa e dall’Est Europa, la loro paga è più bassa, sino alla metà. Ma qui la questione non è tra italiani e stranieri, ma invece tra chi è povero e ha bisogno, e tutti gli altri.

Ragionare del lavoro in agricoltura è dunque difficile, una questione troppo intrecciata ai temi delicati della marginalità, del disagio, della legalità, del controllo del territorio. Solo un’altra faccia della sofferenza sociale complessiva che affligge la grande area metropolitana. I Servizi Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro della ASL dovrebbero, controllare, monitorare la salute delle persone, la qualità degli ambienti di lavoro, ma il servizio sanitario nazionale, in grave affanno qui al Sud, non ce la fa proprio a stare dietro ai fabbisogni particolari del settore agricolo.

Le aziende agricole non dovrebbero essere lasciate sole. Una buona strada è quella della cooperazione: mettere insieme i piccoli perché possano finalmente difendersi in mezzo a un mercato globale spietato, con competitori che hanno costi inferiori ai nostri , una migliore organizzazione, oltre che sistemi-paese più vicini alle attività agricole. Solo le reti cooperative possono aiutare i piccoli produttori a spuntare margini più equi nella filiera del valore, nei confronti di commercianti e distributori, e ad adottare i necessari protocolli di legalità. In Trentino l’80% del valore della produzione agricola è gestita dalle O.P., le organizzazioni dei produttori riconosciute dall’Unione europea; al Sud la media è del 20%.

La morte di Pasquale Fusco è un evento doloroso, senza rimedio, le parole e i ragionamenti non servono. Resta il compito di dare ordine senso e prospettiva a un’agricoltura semiclandestina, che pure continua a gestire il 65% del territorio della grande area metropolitana. Se ci credessimo, il discorso potrebbe addirittura capovolgersi. Una filiera agricola ordinata, rafforzata dall’associazionismo, potrebbe significare per la Campania e il Mezzogiorno un’occasione importante di assorbimento e integrazione degli immigrati, di lavoro per i connazionali, insomma un ammortizzatore sociale attivo e produttivo, forse sotto certi aspetti migliore di quelli che stiamo mettendo in campo. Le persone, il territorio, l’agricoltura non possono andare avanti da soli.

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