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di Aurelio Musi, Repubblica Napoli del 29 agosto 2021

Questo giornale sta offrendo una straordinaria opportunità a tutti i soggetti della campagna elettorale: partiti, candidati sindaci, aspiranti consiglieri comunali e di municipalità, opinione pubblica. “Repubblica” ha messo in campo un libero confronto di proposte e suggerimenti offerti al solo fine disinteressato di non sprecare un’altra occasione per il bene della città.

Un modo per tradurre, all’altezza dei bisogni attuali di Napoli, l’efficace formula dell’illuminista Gaetano Filangieri, “la filosofia in soccorso dei governi”: l’aspirazione, cioè, che cultura ed esperienza rechino il loro contributo ad un’efficace pratica di governo del territorio. Il contributo di idee sta arricchendo sensibilmente l’agenda delle cose da fare e i candidati risponderanno alle tante sollecitazioni per entrare finalmente nel vivo di programmi, che oggi appaiono ancora alquanto carenti.

È necessario che il rapporto fra cultura e politica non resti a livello dell’utopia illuministica, ma realizzi un proficuo scambio capace di determinare un salto di qualità nella pratica amministrativa dei prossimi anni. Bisogna allora rilanciare alcune delle idee che, con straordinaria generosità e ricchezza di argomentazione, sono state presentate nei giorni scorsi da autori provenienti da mondi diversi.

Sottolineare, altresì, alcuni tratti comuni che con insistenza emergono dagli interventi. Concretezza, progettualità, innovazione: il trinomio ricorre nei contributi del prefetto Marco Valentini e dello scienziato Luigi Nicolais. Si tratta di un legame strettissimo fra i tre livelli, unica via, come è stato notato da più parti, per recuperare gli anni perduti. L’imprenditore Ambrogio Prezioso usa poi il più efficace termine “metodo” al posto di “modello”.

Occorre applicare a Napoli, in campo urbanistico, le procedure artigianali del sarto – il “metodo sartoriale” appunto – fatto di disegni originali, ma anche di sapienti rammendi, cuciture, aggiustamenti in corso d’opera. I “modelli” sono spesso solo chiacchiere controproducenti. E, per continuare con la metafora sartoriale, i quartieri, oggetto dell’intervento di Antonio Di Gennaro e Giuseppe Guida, sono il disegno e il nervo di Napoli, che deve essere non “un’aggregazione di villaggi”, ma “una città bellissima e plurale”: e allora occorrono manutenzione ordinaria, rigenerazione urbana, quelle condizioni di base richiamate da Prezioso, come le scuole per l’infanzia e i presidi sanitari sul territorio, un efficiente sistema dei trasporti metropolitano come lucidamente suggerito da Ennio Cascetta.

Marco Rossi-Doria riprende il tema delle “due città”, fornendo i dati materiali delle diseguaglianze e insistendo sulla produttività della spesa sociale. La sua riflessione si integra con quella di Enrica Morlicchio e Andrea Morniroli, che rilevano l’assenza dei poveri e dei soggetti fragili dalla campagna elettorale.

Fare rete, sistema, coordinamento: è la richiesta pressante che proviene soprattutto dal mondo della cultura e dell’arte, da chi ha promosso esperienze ormai note in tutto il mondo come quelle del quartiere Sanità, ma che restano un “modello”, cioè un unicum, e non “metodo” diffuso. Il procuratore generale Luigi Riello chiama alla loro responsabilità i candidati sindaci, induce a riflettere su legalità, economia e camorra, ma soprattutto segnala un dato di straordinaria importanza. Il contrasto alla criminalità organizzata si fa sempre più arduo perché essa ha ormai acquisito il know-how non solo per concorrere con le istituzioni legali alla gestione dei fondi del Pnrr, ma addirittura per anticiparne le mosse.

L’agenda è dunque ricca di stimoli. E nei giorni a venire si arricchirà ulteriormente. Essa non vuole sostituirsi alla politica, svolgere la funzione di supplenza. Ma indicare una strada, un “metodo” che dovrà avere un riscontro anche nella ormai imminente composizione delle liste.

Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli del 21 agosto 20121

Una cosa pensiamo di averla capita girando la città per preparare i reportage, pubblicati sulle pagine di “Repubblica Napoli”, su stato e prospettive di alcuni luoghi emblematici – dal Centro direzionale ai Quartieri Spagnoli, passando per Napoli est, Posillipo, Bagnoli, Pianura – ed è l’importanza che ancora hanno i quartieri. Non parliamo delle 10 municipalità, che sono rimaste contenitori artificiali, vuoti di poteri e funzioni, meri luoghi di intermediazione spicciola.

È banale dirlo, ma i 31 quartieri rimangono ancora realtà vere, con una loro storia, cultura, radicamento. Sono città nella città. Molti di essi, pensiamo a Ponticelli, Secondigliano, Pianura, se non fossero Napoli, sarebbero, almeno per rango demografico, cittadine di rilievo, a scala regionale e non solo.
All’inglobamento degli antichi casali nella Grande Napoli, cento anni fa, non è seguito un reale progetto di integrazione all’interno di un’agenda cittadina unitaria, in cui tutti potessero riconoscersi, e così Napoli rimane una città incompiuta, un’aggregazione di villaggi.

In molte di queste “città nella città” la desertificazione dei servizi, delle attrezzature comuni, degli spazi pubblici vivibili, ha raggiunto nell’ultimo ventennio, come ha scritto Ottavio Ragone nel suo recente editoriale, livelli critici per la tenuta sociale, economica, democratica.
Per inaugurare ora (si spera) una fase nuova, è da una contabilità, un bilancio scrupoloso di questo deficit di cittadinanza che bisogna partire, quartiere per quartiere, perché problemi e priorità sono diversi. Se le uniche reti rimaste a fare presidio e coesione sono la scuola pubblica, la Chiesa e il terzo settore, è la maglia istituzionale che è invece assente e va capillarmente ricostruita: un sistema nervoso per ricevere e immettere quotidianamente stimoli, segnali, progetti concreti e urgenti.

Su questi temi i programmi e le idee sulla città non possono più essere generici, immaginari o immaginifici. Devono invece fare i conti con la Napoli reale e con i vent’anni di inerzia trascorsi, ma anche con vent’anni (almeno) di azioni e progettualità incompiute. Quartiere per quartiere, Napoli deve recuperare una capacità di governo all’interno dei suoi confini, per poter credibilmente recitare un ruolo guida a scala metropolitana, regionale e anche, in una prospettiva più lunga, in quella macro-regione meridionale che inevitabilmente tenderà a formarsi, se con il Recovery plan si riuscirà a completare davvero il sistema di connessioni, a cominciare dall’Alta Velocità (quella vera) verso Bari e verso Reggio Calabria.
Per aspirare ad essere riconosciuta ad un qualsiasi livello sovralocale, Napoli deve fare prima i conti con il suo quotidiano e con chi con questo quotidiano ha a che fare. Con una programmazione di breve termine, ordinaria, fatta dei mille fatti urbani che, messi tutti assieme, sono diventati un’emergenza.

È necessario, in questo senso, un inedito Piano di manutenzione urbana del corpo della città attraverso il quale il tema negletto della “manutenzione ordinaria” e del decoro diventi investimento strutturale e azione continua e duratura. Un piano che agisca sul lato fisico, ma anche sugli assetti organizzativi e funzionali della macchina comunale.

Una programmazione che consenta di attivare finalmente, per fare solo alcuni esempi, un servizio (in house, o anche esternalizzato, ma con regole chiare) di manutenzioni capillari e tempestive lungo le arterie cittadine (carreggiate, marciapiedi, aree pedonali), di pulizia e cura di arredi, fontane, piccoli monumenti. Delle piste ciclabili frettolosamente istituite dalla precedente amministrazione, salvarne alcune, riqualificandole e riammagliandole, garantendo a chi usa bicicletta e monopattino una rete sicura e certa. Assicurare una decente illuminazione pubblica. Regolamentare insegne dei negozi e cartelloni pubblicitari, soprattutto nelle aree di pregio e di valore storico.

Ricostruire e rendere rapidamente operativo un servizio comunale di cura e manutenzione del patrimonio di aree verdi, ormai in larga misura indisponibile per i cittadini, per i bambini soprattutto, cui la città offre veramente troppo poco rispetto agli standard delle normali città europee.
Gestione ordinaria è anche il portare a compimento i progetti e piani attuativi già in corso da anni e mai conclusi, senza inventarsene di nuovi.

Su questo sfondo, può apparire meno urgente, se non meno utile, elaborare nuove strategie attraverso la redazione di un nuovo strumento urbanistico, il Puc. Queste cose richiedono tempo, impegno e condizioni di contesto che, allo stato, la città non è in grado di garantire ed è forse opportuno dislocarne la redazione al medio-lungo periodo, una volta definita, quartiere per quartiere, l’agenda di qualità e rigenerazione urbana che la città attende. Una città bellissima e plurale che si aspetta di essere riparata per poter ripartire. E cinque anni sono il tempo giusto.

Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 18 agosto 2021

Comincia qui il centro storico di Napoli, nel mare di ulivi e viti di Vigna S. Martino, sui terrazzamenti quattrocenteschi che attorniano la Certosa: tutto un sistema che i monaci costruirono di muri in pietra di tufo, rafforzati con archi, archi rampanti e contrafforti, e poi cisterne e acquidocci per regimare l’acqua e proteggere i suoli; una macchina paesaggistica strepitosa, che ci appare ancora stamattina com’è raffigurata nella Tavola Strozzi, la foto della città scattata cinquecento anni fa, un ricamo di migliaia di viti e ulivi, tra la Certosa e i Quartieri Spagnoli, che è insieme ecosistema, monumento, e opera d’arte. E un po’ metafora della città che pullula là sotto, immediata, dopo il cancello di accesso dal Corso Vittorio Emanuele.

L’appuntamento con Peppe Morra è di primo mattino, proprio lì, al cancello anonimo sul corso, percorriamo una rampa ripida tra i palazzi, poche decine di metri, poi miracolosamente si spalanca il grande anfiteatro verde, l’esperimento di agricoltura urbana tra i più importanti al mondo.

Lungo il sentiero in terra perfettamente curato che ci porta in alto, le cime degli alberi tremano nel vento; sotto di noi il reticolo immenso della città storica, fino al porto, il Maschio Angioino, il colonnato della piazza grande, poi si spalanca il golfo, con il Vesuvio e la Penisola sospesi nell’azzurro.

Quando trent’anni fa Morra ha scoperto questi luoghi, la vigna era un roveto immenso, in rovina. Con i suoi collaboratori è iniziato il lavoro – certosino è il caso di dire – di restauro, giorno dopo giorno, per riprendere e riparare i muri, le percorrenze, le vie d’acqua, ricostruire la morfologia originaria dove s’era perduta. Sino al reimpianto delle colture storiche, i vigneti e gli oliveti, sulla base di una lettura filologica dei luoghi. La risistemazione delle antiche morfologie ha fatto anche emergere il sentiero pedonale che i viandanti percorrevano quotidianamente per arrivare alla Certosa: segue le curve di livello del promontorio per poi terminare sopraelevato su archi di tufo verso l’ingresso, ora murato.

Peppe ci accompagna tra i filari rigogliosi delle viti, camminando accarezza le piante, si ferma a sfogliare un grappolo perché prenda luce. Ora siamo sulla terrazza più alta, proprio ai piedi della Certosa: nel buio fresco della cantina scavata nelle ceneri del vulcano, il bicchiere di falanghina coi riflessi d’oro che ci viene offerto è la sintesi di tutto. Per salvare e restaurare la Vigna, per quasi un decennio Morra ha dovuto mettere in secondo piano la sua attività principale di promotore e creatore d’arte e cultura, ma ora che la scommessa è vinta, questo paradiso verde si aggiunge alle altre due creature cui ha dedicato la vita, il “Museo Nitsch” e “Casa Morra”.

Al ritorno, sulla terrazza larga di un oliveto, un gruppo di bambini gioca e impara all’aria aperta sotto lo sguardo di giovani animatori. “In questo anno e mezzo di lockdown” racconta Morra “la Vigna è stata uno spazio importante per i bambini di un quartiere dove il verde non c’è. Inspiegabilmente gli spazi verdi della città invece di essere potenziati sono stati chiusi. Noi possiamo essere d’esempio, offrire un modello, ma il problema rimane, la domanda sociale di aree verdi è enorme, ci sono in città altri 2.300 ettari di agricoltura storica da recuperare e far vivere, da Pianura a Poggioreale, nel Parco delle Colline di Napoli, un’istituzione nata col piano regolatore, della quale non si sa più niente, come dissolta nel nulla”.

Molti dei bambini che abbiamo incontrato sono allievi della Fondazione Focus, la cittadella dell’educazione sorta nel grande convento che s’era svuotato, proprio al centro dei Quartieri Spagnoli. Per capire anche questa storia ripassiamo il Corso, ci reimmergiamo nella città di pietra, il quartiere pensato quasi cinquecento anni fa da don Pietro da Toledo per dare alloggio ai soldati e agli inurbati nella capitale che scoppiava d’uomini, un caso unico di edilizia residenziale d’iniziativa pubblica che ha resistito mezzo millennio, insieme ai suoi abitanti,

La densità abitativa è altissima, oltre 17mila abitanti per chilometro quadro, più del doppio della media comunale; il 10% dei bambini di Napoli vive qui, in questa città senza prati e alberi (il solo polmone di verde pubblico del vecchio Ospedale militare è fruibile a mezzo servizio, nonostante i tanti milioni spesi); e qui si registra il tasso di evasione scolastica più alto d’Italia.

Rachele Furfaro e Alberto Caronte ci accolgono nel chiostro pieno di vita, arte e colori della Fondazione Quartieri Spagnoli: con Renato Quaglia sono le persone che hanno immaginato questa realtà e la fanno vivere ogni giorno. A loro, chiediamo innanzitutto cosa ha significato per il quartiere questo anno e mezzo di pandemia. “L’impatto è stato devastante, le statistiche ci dicono che 6 bambini su 10 non ce l’hanno fatta, hanno lasciato, e il problema non è tecnologico, il computer o la connessione, quanto l’interruzione della relazione educativa diretta, in contesti domestici precari, dove la DAD per il bambino o il ragazzo significa solitudine e isolamento.”

È questa relazione che Foqus ha dovuto costruire, nel quartiere con il deficit educativo più alto d’Europa, e l’idea è stata innanzitutto quella di rivoluzionare i rapporti, qui in ogni classe lavorano sei maestri, contro i tre del metodo istituzionale. “Questi bambini non vedono un futuro: in assenza di una risposta adeguata da parte delle istituzioni, l’unica cosa che possiamo fare è prenderci carico di queste esistenze. Ma non basta, è necessario lavorare con le loro famiglie, perché non abbiamo risolto niente, se un briciolo di speranza non si riaccende anche nei genitori e nei fratelli maggiori.”

Per non spezzare questo filo, i maestri di Foqus nel lungo lockdown hanno dovuto lavorare d’intelligenza, sfruttando tutte le occasioni per dare continuità al rapporto personale coi piccoli, facendo lezione all’aperto, dai balconi, nei chiostri, o sotto gli alberi della Vigna. Anche se la legge non è stata violata, innumerevoli sono stati i controlli dei vigili, in un’applicazione di pignoleria burocratica difficilmente comprensibile.

Insomma, in queste situazioni una delle cose più importanti da fare è restituire senso e significato ai luoghi, riscoprirli come spazio pubblico, proprio come ha fatto Peppe Morra duecento metri più alto nella Vigna, ed è con evidente orgoglio che la Furfaro ci racconta dell’ultimo lavoro di Foqus, presentato pochi giorni or sono: la realizzazione di una toponomastica interattiva dei Quartieri Spagnoli, con una mappa e una segnaletica che oltre ad aiutarti nell’orientamento in mezzo al dedalo incredibile di vicoli, ti racconta sul tuo smartphone la storia lunga, la cultura e il significato degli spazi che stai percorrendo.

Progetti reali, fattibili, in linea con i tempi, indirizzati ad un obiettivo, forse parziale, ma connessi con quello che accade. Il contrario, insomma, dei disegni vaghi e pretenziosi dei progetti urbani e architettonici proposti negli ultimi decenni per il centro storico. Guardando con gli occhi attuali sembra quasi impossibile che si siano persi decenni a discutere di menate urbanoidi come “Il regno del possibile”. Una visione redatta comodamente poggiati su un tavolo da disegno e a chiacchiere, che alterava in senso “moderno” l’intero centro storico, con sventramenti per strade e grandi attrezzature urbane. Una visione in ritardo non solo sui grand travaux di fine ottocento, ma anche sulle utopie corbusierane, fraintese e fuori tempo massimo, come nei casi del Centro Direzionale e delle macrostrutture residenziali pubbliche piazzate attorno agli antichi casali (Secondigliano, Ponticelli, Miano, Barra).

Dalla prospettiva verso la Stazione Marittima, si percepisce dalla Vigna il brandello di un’ennesima visione urbana forse un po’ più calibrata sui luoghi: quella di Carlo Aymonino di più di trent’anni fa, che prometteva un taglio in diagonale dei Quartieri Spagnoli, dalla Certosa fino al porto. Un richiamo, quasi il fossile di quella visione immaginifica, è rappresentato dal taglio centrale oggi già realizzato al centro di Piazza Municipio, pensato da Alvaro Siza per la stazione della metropolitana, una sorta di segno urbano attraverso il quale guardare l’invaso sottostante.

Se si escludono le desolate ricostruzioni “in stile” di alcune insulae urbane, uno dei pochi episodi potenzialmente in grado di catalizzare lo spazio pubblico portando un segno di attualità nelle incrostazioni edilizie dei Quartieri Spagnoli, è il Mercatino e Centro Sociale progettato da Salvatore Bisogni e Anna Bonaiuto in via Sant’Anna di Palazzo, un luogo oggi mortificato dall’incapacità gestionale di Comune e Municipalità, e forse anche di una città che non l’ha capito del tutto.

Per quanto riguarda poi i restauri promessi con i 100 milioni di euro (oggi 80, domani forse ancora di meno) del programma Unesco, i pochi cantieri partiti sono tutti in corso, i tempi di chiusura dei lavori tutti sforati: se articolare un giudizio sull’operazione sulle singole operazioni sarà possibile forse tra qualche anno, quello che si può dire oggi è che l’obiettivo principale è già stato mancato: prevedere una serie di interventi integrati, diffusi e articolati, appunto, in un “grande progetto” capace i generare tutela e rilancio.

Per lasciarci definitivamente alle spalle i progetti di manomissione del centro storico, meglio ripartire da cose più semplici e alla portata, cominciando ad esempio dal progetto di pedonalizzazioni mirate (ora più credibili con il completamento delle nuove stazioni della metropolitana), e riqualificando le antiche pedamentine, evitando magari che siano impunemente invase dalle superfetazioni abusive,  come nel caso della Salita del Petraio.

Nonostante le tante parole spese sul centro storico, ciò che preoccupa è che nessuno, pensando a cosa saranno queste zone tra 20 o 30 anni, riesca a prefigurare un cambiamento reale, uno scarto di lato improvviso, qualcosa di programmato e attuabile con la speranza di mutare lo stato delle cose e la vita degli abitanti. Una mancanza di prospettiva preoccupante, che affida il futuro alle visioni dei privati che si avventurano, alle occasioni estemporanee, all’informale, alla fortuna.

E allora un credibile programma politico sarebbe, proprio come per le periferie esterne della città, quello di recuperare una capacità di gestione ordinaria e quotidiana dei luoghi, un impegno di cura e attenzione che è alla base di esperienze rigenerative, come la Vigna, e come Focus, o come l’Associazione Quartieri Spagnoli Onlus, animata da Giovanni Laino e Annamaria Stanco, che da quarant’anni si occupa di progetti di protezione sociale dei più deboli.

Comprendendo che “rigenerazione urbana” qui significa soprattutto lavorare con le persone, produrre spazio pubblico, riconoscendo e interpretando il mix e gli episodi di annidamento sociale che contraddistinguono questi densi ambiti urbani. Consentendo a chi vuole agire, di agire di concerto e con il sostegno delle istituzioni, senza impedimenti vuoti e con poche regole irrinunciabili. Un augurio, più che un programma.


Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 15 agosto 2021

Giovedì pomeriggio, dal Parco archeologico del Pausilypon, dove mi trovavo, il panorama sul Golfo era come al solito spettacolare, ma lo stesso il sangue s’è gelato vedendo la colonna di fumo imponente che saliva ai piedi del Vesuvio. Ardeva il bosco di Massa di Somma, e il pensiero è tornato all’estate drammatica del 2017, quando il fuoco s’è portato via metà delle pinete storiche che adornavano il vulcano.

Questa volta è andata meglio, l’intervento a terra dei Vigli del Fuoco e delle squadre regionali dell’antincendio boschivo è stato tempestivo, le fiamme sono state contenute e spente. Anche se ci aspettano almeno altre tre settimane di passione, il dato è che sino ad ora la Campania nel complesso sta reggendo, seppur con situazioni di locale criticità, soprattutto nelle province di Caserta e Benevento, dove si è purtroppo registrata una vittima.

Situazioni di massima emergenza si sono verificate altrove, nelle isole maggiori, Sardegna e Sicilia, poi in Calabria, ma il fenomeno è di scala continentale. Secondo gli scienziati che gestiscono il satellite europeo Copernicus, il Mediterraneo è diventato in quest’ultimo mese un “wildfire hotspot”, uno dei posti sulla Terra dove gli incendi stanno imperversando di più: tutta una fascia che nella carta del rischio di Copernicus appare colorata da una tetra tonalità rosso-violacea, dalla Sardegna alla Turchia, passando per Marocco, Libano, Albania, Macedonia del nord, Grecia.

Temperature ben al di sopra dei 40 gradi dell’anticiclone africano contribuiscono a sostenere il fenomeno, e sono ancora gli esperti ad affermare con certezza che non si tratta di una punta anomala, ma dell’espressione strutturale, ostile di un cambiamento climatico che non si arresta.

I danni in vite umane, animali e beni materiali sono ingenti. Di fronte alle conseguenze tragiche del fuoco il presidente Draghi ha dichiarato che il governo “… metterà in cantiere un programma di ristori per le persone e le imprese colpite, insieme a un piano straordinario di rimboschimento e messa in sicurezza del territorio.”
Sono le parole che è possibile dire a caldo, ma definire una strategia pubblica per affrontare queste cose è difficile, perché si è chiamati a fronteggiare i guai e le sofferenze dell’oggi, escogitando nel contempo le azioni necessarie a contrastare uno scenario di rischio che si proietta nei decenni e secoli avanti a noi, e gli aspetti contraddittori non mancano.

L’ultimo Inventario Forestale Nazionale che sarà presentato il prossimo autunno, dice che la superficie dei boschi italiani è in continuo aumento: i nuovi boschi coprono una superficie di 515mila ettari a scala nazionale (+4,9% rispetto al 2005). In Campania i nuovi boschi occupano una superficie di 42mila ettari, un incremento del 9,4% rispetto alla rilevazione 2005. E’ la prima volta, da un paio di secoli a questa parte, che la superficie forestale in Italia supera quella coltivata, e c’è poco da rallegrarsi, perché assieme al crollo demografico dei piccoli centri d’Appennino, il bosco che avanza rappresenta l’altra faccia dello spopolamento e della desertificazione antropica.

Questi nuovi boschi nascono orfani, senza qualcuno che se ne prenda cura. Perciò, se vogliamo difendere il suolo e immagazzinare la CO2, prima di piantare nuovi alberi, sarebbe meglio prenderci cura di quelli che già ci sono, ed è un problema non da poco, perché è dalla metà del Novecento che il sistema di gestione forestale è andato declinando in Italia, specie in Appennino, col polarizzarsi della popolazione e dell’agenda politica del Paese intorno a un sistema urbano cresciuto a dismisura.

E’ in questo nuovo “saltus” (le boscaglie degli antichi Romani) post-moderno che l’incendio impazza, e il nostro compito è quello di governare e gestire l’abbandono, che non è un ossimoro, ma una strategia di prevenzione seria, fatta di soluzioni sociali, economiche e agroforestali appropriate. Certo, parole come gestione, cura, prevenzione hanno scarso appeal, non vanno bene per riempire i telegiornali d’estate, ma un discorso laico, senza scorciatoie e slogan facili, è importante continuare a farlo.