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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 ottobre 2020

Nel viaggio nelle campagne sotto la tempesta del Covid resta da capire cos’è successo al nostro ecosistema più singolare, la Penisola sorrentina-amalfitana: un ramo di Appennino che ha sbagliato strada e s’è messo di traverso in mezzo al mare: un paesaggio di boschi rocce e terrazze che è innanzitutto montagna e fatica, poi certo lì giù c’è anche il mare, a rendere tutto unico, irripetibile.

Su questi monti, per tenere al loro posto i suoli vulcanici fertilissimi, assai instabili sulla roccia calcarea, ed evitare che l’acqua li porti via, da duemila anni l’uomo costruisce terrazzi, un lavoro durissimo iniziato nell’antichità, proseguito nel Medioevo, e poi ripreso in epoca moderna, coi Gesuiti nel diciassettesimo secolo, poi con la produzione e l’esportazione degli agrumi su vasta scala, dall’800 sino ai primi decenni del secolo scorso.

Quest’agricoltura storica ha costi di produzione assai elevati, è difficile da mantenere, ma ha trovato nuovo respiro e possibilità di futuro in una parola difficile, che è “multifunzionalità”, una delle idee guida della politica agricola comunitaria, significa che il reddito dell’azienda agricola non viene più solo dalla produzione primaria, ma anche dall’ospitalità turistica, l’enogastronomia, la cultura, la cura della persona e la vita all’aria aperta, con il paesaggio che diventa il motore di tutto.

E’ un modello di agricoltura nel quale – mi dice Giorgio Lo Surdo, storico direttore di Agriturist, la prima associazione di agriturismo nata in Italia nel 1965, ora lavora all’Ufficio studi di Confagricoltura – l’Italia è leader in Europa, ma l’impatto dell’emergenza Covid è stato durissimo: il settore agrituristico, che avrebbe dovuto vivere nel 2020 l’anno del boom e della definitiva consacrazione, ha conosciuto invece con il lockdown un crollo del 71%, che significa un calo di fatturato di un miliardo e mezzo in confronto al 2019.

“Rispetto al turismo convenzionale, l’agriturismo si caratterizza per una percentuale più elevata di ospiti stranieri, che sono il 60% circa delle presenze totali. Quando l’Italia ha deciso il confinamento stava peggio degli altri. Poi, quando abbiamo riaperto, la situazione si era rovesciata, era l’Italia a essere circondata da Paesi tutti colorati in rosso. Il risultato è che la quota di stranieri si è quasi azzerata, un limitato recupero c’è stato, con un aumento delle presenze italiane del 10-15%, che non è comunque servito a evitare la caduta.”

Di tutte queste cose parlo con Vittoria Brancaccio, sotto le pagliarelle del giardino del suo agriturismo “Le Tore”, un rifugio per l’anima in mezzo agli ulivi e le colline dolci di Massa Lubrense, la luce è cambiata, le foglie dei grandi noci sugli antichi terrapieni attorno alla masseria settecentesca virano al giallo e all’arancio, e tutto è sospeso in un riverbero di foschia dorata.

Il volto di Vittoria è stanco, con la riapertura a giugno l’ospitalità è finalmente ripresa, ma i dati delle presenze confermano i numeri di Confagricoltura, sono meno di un terzo rispetto all’anno passato, e sono stati comunque mesi di lavoro assai duri. “Quando abbiamo capito che i nostri ospiti avrebbero avuto difficoltà a venire, abbiamo deciso di essere noi in qualche modo a raggiungerli”. In fretta e furia Vittoria con il suo gruppo di lavoro ha organizzato  una piccola Amazon della qualità, i barattoli preziosi con i pomodorini pelati, le confetture e i succhi di frutta, le bottiglie di extravergine profumato sono stati inscatolati e spediti in Italia e nel mondo, o caricati in auto verso Napoli, con un flusso regolare di consegne, dimostrando una volta di più che la Penisola resta pur sempre un quartiere verde della grande area metropolitana.

Ascolto il racconto di Vittoria, mentre i cubetti croccanti di frutta della macedonia sprizzano nel cervello ricordi e sensazioni lontane, il sapore dolce-acido elegante delle annurche che ho visto arrivando sulla paglia tra i filari, i chicchi di uva fragola sui tralci dietro il casale, e la polpa profumata di certi piccoli meloni giallo-verde, sfusati e grinzosi, che riposano appartati nell’orto.

Ora Vittoria mi racconta dell’iniziativa a cui tiene forse di più, la scuola di potatura dell’olivo che si è tenuta qui a “Le Tore” lo scorso settembre, un bell’esempio di multifunzionalità, perché è stato l’oliveto dell’azienda il laboratorio pratico dove uno dei massimi esperti in Italia, Giorgio Pannelli, è venuto dalle Marche per insegnare sul campo, a una sessantina di partecipanti, l’arte di modellare gli alberi affinché crescano equilibrati, facili da gestire, producendo olive di qualità. Tutto all’insegna della sicurezza, a ogni partecipante il suo olivo, con il sesto di impianto di due metri a garantire il distanziamento. 

“L’olivo” mi spiega Pannelli “è un antico compagno dell’uomo, è con lui da millenni, e ha pure lo stesso numero di cromosomi. Se ne abbiamo rispetto, se non lo stressiamo, riesce ad adattarsi a tutto, tranne che all’eccesso d’acqua. E’ un campione di resilienza, e noi possiamo aiutarlo, se riusciamo a comprendere la specificità degli ambienti in cui è chiamato a vivere – il clima, la morfologia, il suolo – lasciando perdere la smania di semplificare e intensivizzazione tutto, alla ricerca del massimo profitto.” Nelle parole di Pannelli la resilienza e l’adattamento alle condizioni reali delle nostre colline e montagne sono possibili a patto di comprendere e accettare la complessità, ed è una lezione non da poco, al di là degli ulivi.

Con la macedonia frattanto è arrivata dalle cucine anche la torta alla crema con le mele preparata da Anna, la cuoca, un’esperienza mistica, mentre il racconto in giardino prosegue, e Vittoria mi dice come, grazie a tutte queste attività, sia riuscita a garantire, anche in questa annata difficile, il lavoro a tutto il personale dell’azienda, e finalmente si rilassa un po’, e sorride.

“Una cosa che ho capito nei mesi di confinamento” continua Vittoria “è che Massa Lubrense dovrebbe essere studiata come modello di insediamento ideale per il dopo-Covid, i 12.000 abitanti vivono distanziati in una quindicina di frazioni sparse sui colli, il livello dei servizi e dei collegamenti è tutto sommato soddisfacente, un esempio è la scuola primaria rimasta aperta nella piccola frazione di Torca, non distante da dove ci troviamo, le giovani famiglie possono in qualche modo organizzare la loro vita, e la demografia è in crescita negli ultimi decenni.”

Questo modello tiene a patto che la campagna rimanga viva, che il paesaggio non si spenga, e qualche preoccupazione in realtà c’è. “In mezzo a questo sconquasso dell’economia qui in Penisola qualcosa sta succedendo” mi dice Vittoria, e il tono di voce si abbassa “grandi proprietà agricole potrebbero passare di mano, una specie di “land grabbing” invisibile. Qui a Massa è un po’ diverso, la proprietà terriera è più frammentata, è ancora in mano a famiglie che continuano, in mezzo a mille difficoltà, a curare le terrazze, gli orti e gli arboreti. Mi chiedo cosa farei se mi proponessero di vendere, ma questi sei ettari sono tutta la mia vita, è il mio lavoro, non posso farne a meno.”

Non c’è tempo per i pensieri, ci raggiungono per il pranzo altri amici, Massimo Ricciardi decano dei botanici napoletani, Vittoria s’è laureata con lui, e poi Riccardo Motti, curatore del magnifico Orto botanico di Portici, e Mauro Fermariello, dopo la laurea in agraria ha seguito la passione per la fotografia, e collabora da Milano con le riviste scientifiche e le testate di mezzo mondo. Lo chef è Raffaele Sacchi, che divide con Vittoria, oltre che la vita, l’avventura de “Le Tore”, è ordinario a Portici, un riferimento nella scienza delle produzioni alimentari, ma quello che conta oggi sono le sue candele ai pomodorini e basilico, spazzate via in un attimo.

Nel frattempo s’è fatto buio, al ritorno, passando da Sorrento, un ultimo sguardo a Piazza Tasso e Corso Italia, la cittadina va spopolandosi, non è l’autunno ma la chiusura uno dopo l’altro dei paesi europei, siamo di nuovo in emergenza, il senso di precarietà è forte, e la domanda è fino a che punto la città che attraverso, uno dei brand del turismo globale, sia consapevole dell’unità di destino coi paesaggi rurali che l’attorniano, della loro bellezza fragile, del lavoro lassù di persone come Vittoria che ogni giorno ci credono, come gli olivi resistono, e lavorano nonostante tutto per farcela.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 9 ottobre 2020

La partita contro il Covid diventa sempre più complicata al Sud, con aspetti dolorosi, a tratti paradossali. E’ difficile comprendere come siamo riusciti a produrre il massimo sforzo di attenzione durante il lockdown, quando il virus da noi circolava poco, per poi abbassare inspiegabilmente le difese ora, che il contagio è arrivato veramente. Certo, in mezzo c’è stata una stagione estiva vissuta da troppi segmenti di popolazione, quella giovanile innanzitutto, con un senso di  irragionevole euforia, l’idea di esserne usciti fuori, il sentirsi invulnerabili, immuni dal rischio.

Il fatto è che questa seconda ondata non trova le diverse parti d’Italia nelle stesse condizioni. Nelle regioni del Nord dove l’epidemia ha mietuto più vittime, ora sappiamo che il virus circolava dall’autunno precedente, entrando in qualche modo in contatto con una percentuale significativa della popolazione. Se anche restiamo lontani dall’immunità di gregge, il virus ha ora spazi comunque più limitati di ulteriore espansione. Da noi no, la malattia ha davanti praterie potenzialmente sterminate.

L’impatto di tutto questo sulla società meridionale lo ha descritto bene ieri Conchita Sannino nel suo editoriale sulle pagine nazionali di questo giornale (“Il virus nella terra più fragile”). Perché l’altra novità rispetto alla scorsa primavera è che se la prima ondata in qualche modo ha interessato di più i quartieri borghesi, la seconda sta dilagando in quelli popolari e nelle periferie, dove è più difficile mettere efficacemente in atto le misure di contenimento del contagio, perché la rete dei servizi e dell’assistenza è più rarefatta, la capacità economica delle famiglie più debole e precaria, con una quota rilevante dei nuclei familiari, circa la metà, al di sotto della soglia di povertà.

Si tratta di una questione nazionale, che come tale deve essere affrontata dal governo centrale, in strettissima collaborazione con regioni e i comuni. Non è pensabile che i destini che abbiamo voluto credere uniti nel momento del primo lockdown, con misure e sacrifici responsabilmente sopportati dall’intera comunità nazionale, tornino ora a essere considerati alla stregua di questioni locali. Sarebbe un’ingiustizia colossale, la vera fine dell’unità del Paese.

Certo, tornando all’articolo della Sannino, la crisi del Covid colpisce ferite aperte da troppo tempo, da troppo tempo rimosse dal dibattito pubblico. La pandemia non crea problemi nuovi, si limita a amplificare e rendere visibili quelli vecchi. La sofferenza strutturale della terza area metropolitana del Paese continua a costituire una delle principali criticità nazionali ed europee. Le risorse del Recovery fund dovrebbero essere impiegate per questo, non l’elenco della spesa ma gli investimenti necessari e indifferibili, su pochissime priorità che sono la salute pubblica, l’istruzione, la riqualificazione degli spazi quotidiani di vita, il resto viene dopo.