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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 28 novembre 2017

Con la limitazione della circolazione sui viadotti insicuri, anche Genova si è trovata a vivere, certo in condizioni più estese e critiche, i disagi sperimentati a Napoli con la chiusura parziale della tangenziale. Tempi di percorrenza infiniti, cittadini e mezzi commerciali bloccati in lunghe code, e su tutto la sensazione di essere tornati indietro di cinquant’anni. Scopriamo così che il problema del deterioramento delle infrastrutture è di scala nazionale, che quel “debito pubblico territoriale” del quale dicevamo nell’articolo dello scorso 18 novembre – il costo delle manutenzioni e delle sostituzioni non fatte – rappresenta una posta passiva colossale, che si aggiunge a quella finanziaria, rendendo ancora più critico l’equilibrio di bilancio dello stato italiano. E’ evidente che in un simile quadro, aumentano gli aspetti di preoccupazione per il Mezzogiorno d’Italia, il pezzo di paese dove la crisi economica e istituzionale sta mordendo con maggiore violenza.

Il problema non è solo nostro, interessa molte economie avanzate, grandi paesi che in apparenza stanno meglio di noi. Attorno al deterioramento della rete autostradale statunitense si dibatte da almeno un quarto di secolo. Il budget pubblico per tenere in ordine le autostrade è costantemente diminuito, mentre l’Highway Trust Fund, l’ente federale che finanzia queste cose, è in bancarotta. A leggere i racconti sul New York Times, gli impatti sulle famiglie americane sono simili a quelli che stiamo vivendo noi, ed è questo il punto.

Nelle democrazie occidentali la rete dei trasporti è, in parte consistente,  eredita  del welfare state, un investimento pubblico colossale che, negli “anni d’oro” come li chiama Hobsbawm, dal secondo dopoguerra alla crisi degli ’70, ha cambiato la vita dei cittadini e delle aree geografiche, aprendo la strada alla modernizzazione, connettendo con modalità mai sperimentate prima le comunità nazionali, e rafforzando in ultima analisi le democrazie, pensiamo solo all’impatto sulla nostra società ed economia dell’Autostrada del Sole.

Ora il welfare è in crisi nera, e la risposta è stata la privatizzazione progressiva delle reti pubbliche, che pure erano state realizzate con il contributo collettivo, di lavoro e di soldi, di almeno un paio di generazioni. E’ un processo che le politiche dell’Unione europea, che ha fatto della concorrenza un idolo, più che un criterio di ragionamento, hanno fortemente promosso e incoraggiato. Con il crollo e l’ammaloramento dei viadotti prendiamo atto che si è trattato di un’operazione finanziaria, più che di un nuovo modello gestionale, visto che alla fine le manutenzioni e il turn over delle opere comunque non è stato fatto.

Il prezzo, alla fine, lo pagano i cittadini, come è assai bene descritto nel libro “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana” (Einaudi), frutto del lavoro di un collettivo di economisti e sociologi europei, tra i quali il nostro Davide Minervini del Dipartimento di scienze sociali della Federico II. Il libro racconta la grande crisi, dal punto di vista delle famiglie europee, che vedono progressivamente erodersi il paniere di beni e servizi pubblici, proprio quelli legati al welfare, che vanno dai trasporti, all’energia, all’istruzione alla sanità fino alla telefonia e internet, a causa dei mancati investimenti, della liberalizzazione dei canoni, in un regime che è diventato di fatto un oligopolio privato.

In tutta questa storia il Mezzogiorno d’Italia è l’anello debole, e qui il ministro Provenzano ha pienamente ragione a mettere in discussione la posizione di Milano, l’unica città italiana veramente legata all’economia globale, tanto da poter disporre di fatto di una finanza parallela autonoma, grazie alla sua capacità di attrarre capitali internazionali. E’ singolare che in questa situazione i pochi grandi investimenti strategici nazionali, dall’Expo al Technopole, riguardino il capoluogo lombardo, come una sorta di premio aggiuntivo alle straordinarie performance di Milano, la sola delle nostre città che Paragh Kanna colloca tra le “città-stato”, i gangli forti delle supply chain globali, sempre più insofferenti, per ragioni evidenti, ai governi territoriali, regionali o statali che siano.

Non c’è alcun dubbio. Le politiche nazionali stanno andando in soccorso dei più forti e non si capisce più, in questa partita per la vita, quali asset, quali carte possa giocare il Sud, con il suo marchio di “inefficienza” che è diventato la scusa – lo spiega bene Nadia Urbinati nel suo “La mutazione antiegualitaria” (Laterza) – per un indebolimento asimmetrico del diritto di cittadinanza, della possibilità di contribuire con pari dignità alla formazione delle scelte pubbliche nazionali.

Una cosa è certa. In tutta questa discussione evitiamo almeno di spararla grossa: certo una “nuova IRI” potrebbe essere d’aiuto, se si disponesse di qualche decina di miliardi l’anno, per tutto il tempo necessario a rimettere in sesto l’armatura fisica del Paese; di una classe dirigente credibile; e possibilmente, di una strategia territoriale decentemente riequilibrata. Se non c’è questo, sono solo slogan per prender tempo, guadagnare un po’ di spazio sui giornali.

(La foto è tratta dal sito del Fatto Quotidiano)

Michele Serra, “La Repubblica” 26 novembre 2019

Quanto costa un uomo con la zappa e gli stivali di gomma?
Costa il tempo necessario a insegnargli che la zappa, che tiene pervio il fosso, pulita la canalina, sgombero il tubo di cemento, fa miracoli.
Credetemi, non è del passato contadino, non dell’improbabile arcadia di nonni sapienti che sto parlando. È del futuro.
Il governo delle acque, in un Paese per il settanta per cento montagnoso, è un insieme di grandi e piccole opere.
Le dighe enormi e gli argini possenti, le tonnellate di cemento e i viadotti che scavalcano i fiumi contano quanto il cesello paziente del territorio. Senza la cura del metro quadro, del rivo, del drenaggio che spurga la frana, nessuna grande opera basta a contenere la dissoluzione di un territorio dimenticato, tradito, omesso.
Ve la racconto io, e mi dovete ascoltare, la differenza tra l’acqua che viene giù disciplinata, lungo il reticolo anche minuto che solo l’uomo con la zappa e l’uomo con la ruspa (piccola, maneggevole) possono mantenere vivo; e l’acqua ingovernata, anarchica, lasciata alla sua cieca foga, che poco a poco svelle e trascina, cancella e distrugge. Grandi opere, ma certo, però per farne capire l’utilità e l’intelligenza, delle grandi opere, fatele parte di un sistema che riguarda tutti, proprio tutti. Date una zappa in mano a ogni studente, portatelo a vedere come funziona il monte, come funziona l’Italia. Se è una mania, pazienza, vale la pena passare per maniaco: servizio civile obbligatorio, di leva, per tutti, badile zappa piccone e stivaloni per ogni abitante di questo Paese, capi che insegnano, un esercito di soldati che impara. Cambierebbe l’Italia, cambierebbe dalle sue radici.


Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 18 novembre 2019

“Non esiste buono o cattivo tempo ma buono o cattivo equipaggiamento”. La frase di sir Robert Baden Powell, il fondatore a inizio secolo dello scautismo, vale per le persone, ma torna utile anche per le città, bisogna solo vedere in che misura e con quali modalità. Si è insistito giustamente in questi giorni sulla prevenzione. Da questo punto di vista una città equipaggiata è innanzitutto una città manutenuta, nella quale alberi, sottoservizi, terrapieni e cornicioni sono attenzionati e curati nel tempo, affinché non sprofondino a cadano in testa alla gente. Se tutto questo manca, perché non ci sono i soldi, e i servizi tecnici comunali sono a pezzi, l’ultimo rifugio per le autorità competenti è la sospensione delle attività a rischio, che significa chiudere ad ogni allerta meteo scuole, giardini, cimiteri, linee ferroviarie, spazi pubblici, in una frustrante precarietà, una vita civica impoverita, a singhiozzo.
Dopo la voragine, quando poi arrivano le troupe televisive, li vedi gli amministratori locali trasformarsi in severi e accorati avvocati del popolo, con dichiarazioni vibranti di vicinanza ai cittadini colpiti, di richiesta allo Stato di intervento e immediato ristoro, come se non c’entrassero niente, non fossero un pezzo di Repubblica pure loro, detentori di competenze o responsabilità precise, e a quel punto davvero lo straniamento è totale, non capisci più perché rimangono lì, e che li voti a fare.
La questione è seria. Città come Napoli e Roma hanno accumulato nei decenni un debito pubblico gigantesco che ha una componente finanziaria, e una componente ben più rilevante, che è quella fisica, territoriale, corrispondente al costo complessivo delle manutenzioni non fatte, e dei danni ricorrenti al patrimonio che si sgretola, a cose, persone, attività. Infine, c’è un debito strutturale, organizzativo. Le macchine comunali sono allo stremo, le competenze interne e i servizi tecnici, la cui faticosa costruzione aveva richiesto decenni, sono in avanzata fase di dismissione, la capacità amministrativa è ai minimi termini.
In questa situazione, il ricorso alla public advocacy, il sindaco difensore, imbonitore o avvocato del popolo serve a poco. Una nuova leadership dovrebbe partire da un’operazione-verità, dal riconoscimento delle carenze e dei bisogni trascurati, piuttosto che dei primati fantastici. Da un progetto misurabile e verificabile di ricostruzione della rete dei servizi, a partire dalla cura dell’ecosistema urbano, del suolo, dell’acqua, delle reti, degli alberi, degli edifici pubblici e delle scuole; quelli in definitiva ai quali è affidata la nostra sicurezza, il nostro equipaggiamento, per dirla come Baden-Powell.
Su tutte queste cose siamo fermi almeno da vent’anni. Da dove ricominciare, come riconvertire a questa missione l’intera macchina pubblica, tutte le risorse umane e finanziarie disponibili, a partire da quella scatola misteriosa/buco nero che restano le aziende partecipate, è la vera sfida, la piattaforma per una nuova alleanza di rinascita civica, e su queste cose non esiste buono o cattivo sindaco, ma solo una buona o cattiva strategia.

IFORD, Altracittà e l’associazione culturale “Laura Lombardo Radice” hanno organizzato la presentazione a Roma di “Ultime notizie”, il prossimo 29 novembre alle 20.00, presso Il Seminterrato di Via Siena, in Via Siena 2. Intervengono Francesco Erbani e Peter Hoogstaden. L’occasione per ragionare ancora insieme su una strategia per lo spazio rurale italiano.

 

 

Greta, Francesco e la democrazia

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 12 ottobre 2019

Soffia forte sulla città il vento di “Friday for future”, il movimento dei ragazzi ispirato da Greta Thunberg che si batte contro il cambiamento climatico, prima con la grande manifestazione dei cinquantamila di fine settembre, seguita dall’assemblea nazionale a Castel dell’Ovo, una due giorni cui hanno preso parte centinaia di attivisti da tutt’Italia. Sono eventi di rilievo, cui “Repubblica” ha giustamente dato ampia copertura. In sede di commento i richiami al ’68 si sprecano. Come allora, la società degli adulti è colpita da un giudizio di inadeguatezza duro come uno schiaffo. Di fronte all’emergenza climatica in atto una frattura s’è spalancata, un “noi” contrapposto a un “loro”. I vecchi modi di pensare non servono più, l’attendismo è il peggior delitto. Greta e i suoi ragazzi chiamano a un’azione immediata, una svolta netta, imperativa, che riguarda tutto: modello economico, tecnologie, stili di vita, atteggiamenti, valori. Il tempo è finito, e comunque di noi non si fidano più.

Ci sono due risposte, ugualmente inadeguate, che a questo punto è possibile dare. La prima è quella denigratoria, della destra più becera, che mette in dubbio le capacità di Greta, la sua integrità, autenticità, autonomia, insieme alla robustezza mentale e culturale dei ragazzi scesi in strada nelle città di mezzo mondo. La seconda è il plauso peloso, gattopardesco, di chi pensa di blandire a parole il movimento, aspettando che magari si sgonfi, continuando in ogni caso a fare tutto esattamente come prima.

Il modo più onesto di vivere l’ondata impetuosa di novità, che cammina con le gambe e il respiro dei nostri figli, resta quello del confronto, del ragionamento, separando se possibile le parole d’ordine, gli obiettivi, dai percorsi realisticamente praticabili per il loro conseguimento.

Qui l’esempio può venire da Papa Francesco. La narrazione che la Chiesa latino-americana ha fatto del dramma amazzonico è molto simile per pathos, linguaggio, scenari a quella di Greta. Le soluzioni, il processo operativo che è necessario attivare per scongiurare la catastrofe ecologica e sociale – che ora il Sinodo mondiale che si è aperto a Roma dovrà sviluppare – Francesco le ha comunque delineate nella sua enciclica “Laudato si’”. E’ un documento fondamentale, che colloca l’ecologia integrale al centro della dottrina sociale della Chiesa. La parte pastorale dell’enciclica si sofferma lungamente sui metodi di valutazione preventiva e confronto, che è necessario utilizzare per identificare gli impatti ecologici e sociali delle diverse opzioni per contrastare il cambiamento climatico e il degrado degli ecosistemi, mettendo sul tavolo un bilancio trasparente, da sottoporre alla discussione pubblica. Insomma per Francesco l’urgenza degli obiettivi di sostenibilità e giustizia sociale è fuori discussione, ma le strade per raggiungerli possono essere diverse, la democrazia ha gli strumenti per scegliere, e non ci sono scorciatoie.

Di fronte a queste cose, le parole di Greta suonano dure: “Per me è bianco o nero, e non esistono zone grigie quando si parla di sopravvivenza. O continuiamo a vivere come civiltà, o moriamo… Tutto deve cambiare. E bisogna cominciare oggi. Quindi dico a tutti là fuori che è arrivato il momento della disobbedienza civile, il momento di ribellarsi.” In un recente commento sul New York Times, un giornale certamente progressista, che pure ha seguito e sostenuto il lavoro di Greta, Christopher Caldwell, un tipo che di fondamentalismi se ne intende, giunge alla conclusione che “il suo approccio radicale entra in frizione con la democrazia”. Da noi, ci aveva pensato Massimo Cacciari su “La Stampa” del primo ottobre a osservare che Greta procede per semplificazioni estreme, e che pure questo è populismo.

Sono giudizi troppo severi, bisogna dare tempo a questi ragazzi.  Il loro impegno è ammirevole in una società di adulti che ha smarrito la maniera di integrarli, dare loro un lavoro, un futuro, un percorso di vita perscrutabile. Magari in questi movimenti si formerà una nuova classe dirigente utile al Paese. La direzione che indicano è quella giusta, il loro stimolo è provvidenziale. Cerchiamo di lavorare con loro, di ricordare che il metodo democratico, con tutti gli acciacchi, è l’unica cosa che abbiamo, che il tempo per costruire soluzioni deve esserci, non è detto sia sempre inerzia o cattiva coscienza.

 

Bagnoli ovvero la pianificazione alla rovescia

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 16 ottobre 2019

“Se si fa la bonifica e non ci sono le infrastrutture per raggiungere il nuovo quartiere, non si riesce a restituire Bagnoli ai cittadini e al mondo”. Le parole del ministro Provenzano suonano sacrosante, una boccata finalmente di aria buona, anche se una simile constatazione era già nel parere motivato del Ministero dell’Ambiente sul piano di risanamento di Invitalia, tanto lacunoso, secondo i tecnici di quel dicastero, da rivestire – è scritto proprio così nel decreto – “carattere virtuale”.

Lo schema infrastrutturale, il progetto indispensabile di trasporto pubblico, la rete del ferro per far vivere la nuova Bagnoli,  così come i relativi fondi, non ci sono, ma è comunque partito il concorso di idee pensato da Invitalia, che è un po’ come progettare arredi e finiture di un nuovo appartamento, in un palazzo nel quale mancano ancora l’accesso, le scale, l’ascensore, le uscite di sicurezza, e pure il tetto. Insomma, la pianificazione al contrario.

La stessa cosa era successa in verità anche per la bonifica, che si intende ostinatamente realizzare sull’intera area, il cui costo (quasi quattrocento milioni, che uniti ai seicento già spesi fanno un miliardo di euro, quanto Milano ha speso per fare l’Expo) è stato computato senza mai pubblicizzare gli esiti dell’analisi di rischio, l’attività cruciale per capire dove bonificare, e sino a che punto.

Alla domanda esplicita che pure “Repubblica” aveva posto, Invitalia ha prima replicato che l’analisi di rischio c’era, ma era segreta, dando in seguito una versione ancora diversa: l’analisi di rischio si farà una volta decise le destinazioni finali, che è un altro bel caso di pianificazione alla rovescia, perché uno Stato che volesse comportarsi come buon padre di famiglia, tenderebbe ragionevolmente a localizzare le destinazioni d’uso anche in funzione dei livelli di rischio, evitando di fare sforzi inutili, e buttare soldi e tempo.

Stando così le cose, il ministro non ha potuto che registrare la situazione di stallo, prender atto della solitudine del commissario Floro Flores che ha pure lamentato, a distanza di cinque anni dal decreto Sblocca-Italia, la mancanza di una struttura tecnica (sic!); la complessiva incertezza sulle risorse finanziarie che servono per portare a termine tutto.

Nel clima deprimente che si è creato, le parole del ministro piovono come una spruzzata rigenerante d’acqua sul viso, e fanno ben sperare, così come la volontà da lui espressa di “chiarire alcune cose col soggetto attuatore”, cioè con Invitalia. Potemmo magari smetterla con la pianificazione al contrario, dedicarci finalmente a una sobria, pragmatica messa in sicurezza delle aree, che costerebbe assai meno; liberare risorse per le infrastrutture e il trasporto pubblico, che è il modo per far nascere davvero, e sostenibilmente, la nuova città.

 

Senza Tangenziale

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 23 ottobre 2019

A causa dei controlli di stabilità al viadotto di Capodichino dureranno almeno tre settimane i disagi e gli ingorghi per la restrizione del transito a sole due corsie. I percorsi alternativi suggeriti da Tangenziale di Napoli fanno sorridere: se vieni da occidente e vuoi prendere l’autostrada esci a Fuorigrotta e percorri il lungomare. Facevano prima a dire di non prenderla proprio, ma il dato triste è l’essere improvvisamente tornati alla situazione di viabilità di quarant’anni fa, prima dell’inaugurazione nel ’72 del primo tratto dell’opera, e constatare ancora una volta quanto la città sia fragile, priva di alternative, risorse, soluzioni di scorta per superare le emergenze.

Tutto questo in un clima generale ancora impressionato dal crollo di Genova: come quel ponte anche il nostro è gestito da Atlantia, e se è del tutto fuori luogo qualunque semplicistico accostamento, resta l’incertezza sul ciclo di vita delle grandi infrastrutture in cemento, che promettevano l’eternità, ma hanno i loro acciacchi pure loro. Ad ogni modo, in attesa di notizie più precise da parte della concessionaria, la decisione di un esercizio a scartamento ridotto del viadotto si rende ora necessaria per l’effettuazione dei controlli, o la riduzione precauzionale dei carichi, o probabilmente tutt’e due le cose.

Resta il fatto che la città è inerme, priva di alternative, dinnanzi a problemi che pure sono noti almeno da un vententennio. Nel Piano della rete stradale primaria approvato dall’Amministrazione comunale nel 2000, l’insostenibilità dell’accesso unico da est alla città, costituito proprio dal viadotto che ora s’è ammalato, veniva fortemente sottolineata, con la previsione di realizzare un secondo, necessario corridoio d’ingresso da ovest (l’Occidentale), con un collegamento tra la Perimetrale di Scampia e la Tengenziale, all’altezza degli svincoli del Vomero. Un tracciato era stato individuato, ed è allegato al Piano, con uno studio di fattibilità e di inserimento paesaggistico ed ambientale estremamente avanzato. In questo modo, a chi deve rientrare in città, si proponeva una doppia alternativa, distribuendo più razionalmente i flussi, evitando le forche caudine dell’unico, congestionato ingresso orientale alla città.

Erano tempi nei quali ci permettevamo ancora il lusso di programmare il futuro, anche se poi comunque quel piano fu accantonato. Oggi viviamo precari, beneficiando la rendita di decisioni prese quaranta, trenta, venti anni fa. Viviamo di rammendi, rattoppi, verifiche di stabilità, pregando a mani giunte che il capitale infrastrutturale e fisico della città, sottoposto a disumane pressioni, in qualche modo resista.

 

Il deserto a Mezzogiorno

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 8 novembre 2019

Dopo la presentazione dell’ultimo rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno, è veramente sorprendente il rimprovero di autorevoli osservatori al prestigioso istituto di ricerca, di riproporre alla fine sempre la stessa ricetta, quella di chiedere più fondi per il Sud. Si tratta proprio di cattiva ideologia, perché il rapporto dice tre cose incontrovertibili. Primo: la somma di trasferimenti e investimenti pubblici è minore nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, quindi ciò che Svimez chiede è che sia ristabilita come minimo l’equità. Secondo: la crisi ha innestato, con l’emigrazione dei migliori, un impoverimento del capitale umano e sociale che costituisce l’aspetto più drammatico del problema. Terzo: il Paese non ha una strategia per fronteggiare tutto questo, se non quella cinica di sganciare, con l’autonomia differenziata, i vagoni più lenti.

Vanno via dal Sud i ragazzi che hanno studiato, ma anche le multinazionali come Whirlpool e Arcelor, e viene da chiedersi se, oltre la “trappola dello sviluppo intermedio” di Gianfranco Viesti (siamo troppo inefficienti per attrarre l’eccellenza, troppo costosi per concorrere coi paradisi della delocalizzazione), non finisca per pesare molto alla fine una sorta di populismo anti-tecnologico e anti-industriale.

Facciamo il caso dell’ArcelorMittal. Chiunque conosca gli impianti siderurgici d’Italia, da Piombino a Taranto, passando naturalmente da Bagnoli, sa che sono stati concepiti, e per tutto il Novecento hanno funzionato con una logica arcaica: l’occupazione sciatta dello spazio, centinaia di ettari, a volte migliaia, per dare la possibilità allo stabilimento di smaltire in libertà i propri residui, le loppe, gli scarti, come fossimo ancora nel mondo di Dickens, e poi i carbonili a cielo aperto, pronti a spandere al vento polveri insane. Uno stato di cose inaccettabile, ormai palesemente, contrario al quadro normativo, nazionale e europeo.

Eppure, in questa situazione è evidente che se vuoi mantenere la siderurgia assieme al più grande impianto d’Europa, una cosa che vale quindicimila posti di lavoro, quasi l’1,5% del PIL nazionale considerando l’indotto, devi necessariamente prevedere uno scudo legale, che non significa l’impunità per i colpevoli, ma la possibilità di disporre del tempo ragionevole per la messa a norma, per la conversione ecologica degli impianti. Lo scudo serve a evitare che chi oggi vuole risolvere i problemi, debba rispondere delle mancanze delle gestioni precedenti. Ma il senso vero è quello di proteggere l’ordinamento giuridico stesso, evitandogli di funzionare fuori contesto, come un meccanismo cieco, dagli esiti drammaticamente inappropriati.

Ma tant’è, l’ideologia vuota degli slogan ha vinto. Con il voto parlamentare che ha abolito lo scudo, la ricerca di un colpevole da punire ha prevalso sulla ricerca di soluzioni responsabili. Certo, è evidente che una multinazionale come Arcelor, consapevole del suo potere negoziale, abbia sparato alto, per strappare condizioni più favorevoli, complice anche l’attuale calo della domanda mondiale di acciaio. Ma dall’altro lato del tavolo, ci sono istituzioni repubblicane che appaiono allo sbando, prive di una visione e uno straccio di politica territoriale e industriale, si tratti di Whirlpool o dell’Ilva.

Ad ogni modo, ad alimentare questo clima scoraggiante per le imprese, è lo stesso modo di pensare che da noi ha trasformato la crisi della piana campana nel mito eterno, privo di soluzioni della Terra dei fuochi; che continua ad opporsi ostinatamente a qualunque civile, moderna impiantistica per i rifiuti.  Quel che è certo, è che non si governa a lungo con gli slogan. Dopo la sbornia parolaia del ventennio, a riportare il Paese a un principio di realtà ci pensò la Costituzione repubblicana, che dice che la politica è tutta un bilanciamento ragionevole e faticoso di principi: iniziativa privata e programmazione pubblica, libertà e sicurezza, sviluppo economico e qualità dell’ambiente. L’arte di fare i compromessi giusti, in vista di un superiore bene comune. Ora sembra che quella strada sia definitivamente persa.

 

 

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