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Paolo Pileri, da http://www.casadellacultura.it

Dopo un intervento su youtube Paolo Pileri torna a ragionare su “Ultime notizie dalla terra”, con una recensione scritta per “Casa della cultura”. Paolo insegna urbanistica al Politecnico di Milano, è la figura di riferimento in Italia per le ricerche sul consumo di suolo, con un lavoro di studio e divulgazione instancabile. Il pezzo che ha scritto è molto bello, mi ha spiazzato e commosso, perché Paolo si è letteralmente immerso nel libro, facendone venire fuori cose ignote pure a me.

Impossibile non innamorarsene. Di cosa? Della Campania o, meglio, degli spazi aperti campani, agricoli e naturali, periurbani o montani, che Antonio di Gennaro racconta nel suo libro dal titolo meraviglioso: Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018, pref. di Ottavio Ragone). Ma è il sottotitolo a darci la misura dell’impegno e della sfida che ci lancia: La Terra dei fuochi: questioni per il paese intero, dove la parola terra è scritta con la “T” maiuscola e la parola paese con la “p” minuscola. Già perché Antonio è indignato. E come tutti gli indignati che si rispettino, è arrabbiatissimo con quanti hanno ceduto alla tentazione della maledetta equazione terra dei fuochi tutta la CampaniaNelle sue pagine c’è un insieme di storie che si fondono assieme in un’unica storia di territorio e di genti orgogliose della terra su cui hanno i loro piedi.

Se alcuni fatti criminali e mafiosi, cruenti e vergognosi, hanno sporcato la terra campana, si sappia chiaramente che è stato solo un ‘di cui’, perché quella terra è sempre stata ed è densa e ricca di persone, aziende, natura, luoghi, territori, bellezza, bontà, tradizioni che non sono seconde a nessuno. Eppure ‘tutta la Campania’ l’abbiamo spedita in un embargo mai dichiarato di fatto, ma subito dalle aziende agricole e dalla filiera alimentare campana. Per mesi e mesi nelle città del nord abbiamo boicottato i prodotti campani nonostante ci dicessero che erano pulitissimi. E lo abbiamo fatto convinti di fare il giusto, con il sorriso magari, senza farci sfiorare né dal dubbio che stavamo sbagliando, né dal pensiero che stavamo facendo un danno enormemente peggiore di quello ignobile fatto dalla camorra maledetta. Già perché se per dodici mesi nessuno compra mozzarelle, quelle aziende falliscono, quegli agricoltori sono sul lastrico, i giovani perdono lavoro. E se falliscono chi se le compra le aziende con le loro terre? Il nostro embargo diviene una sorta di favore alla criminalità che vuol far fallire ciò che di buono c’è sui territori per poi appropriarsene.

Quindi quell’inversione di maiuscole io non la biasimo, ma la capisco e mi ha aperto gli occhi. L’ho trovata perfetta per ricordare quanto fragile sia la solidarietà nel nostro Paese e mia. E Antonio con questo libro coraggioso e appassionato non si sottrae alla fatica di voler mettere le cose a posto. Ci lancia un salvagente, forse l’ultimo come scrive nel titolo, per toglierci i pregiudizi dagli occhi. Lo fa portandoci a spasso per decine e decine di realtà locali. Con lui scopriamo i ritratti straordinari di donne, uomini, giovani, vecchi che in Campania hanno dato vita a formidabili aziende agricole dove la produzione non è mai, e sottolineo mai, indifferente ai luoghi, alla terra, ai paesaggi anche se si tratta di paesaggi tra i più arditi d’Italia come le limonaie sulla costiera amalfitana o i vigneti del Cilento o gli oliveti a Posillipo. Vi giuro che se leggete questo libro vi si apre davanti agli occhi un racconto di territorio che vi lascerà senza parole. Leggi e vedi vibrare un territorio. Ci entri dentro. Senti i passi. I profumi. Vedi le ginestre a Camaldoli. Senti il profumo dell’olio e la mozzarella di bufala Stella Bianca di Casal di Principe che conoscevi solo per essere paese di camorra. Senti su di te lo spirito potente del paesaggio di Casale di Teverolaccio, di Massa Lubrense, del Formicoso, di San Giorgio La Molara, della Riviera di Chiaia, di Capodimonte, di Miradois, di Napoli.

La Campania è tanta biodiversità umana, agricola e naturale. Ed è impossibile non dire: “ma cosa mi sono perso in questi anni?”. In queste pagine capisci che un’albicocca in Campania non è mai solo un’albicocca. Perché Antonio riesce a dirci che dietro ogni singola azienda agricola che lui ci presenta c’è una storia di amore, rispetto e cura per il paesaggio. Non solo: è amore consapevole e voluto. Tutti i protagonisti del libro fanno quel che fanno, perché lo vogliono fare. E così impariamo che curare il suolo e produrre un buon olio sono cose inseparabili e fatte di proposito. Tutelare il paesaggio e ottenere un’ottima falanghina sono la stessa cosa e fatto con proposito. Che dietro un’ottima mozzarella di bufala ci sono, di proposito, i prati verdi della Campania. Che una pasta come si deve, biologica e senza trattamenti all’origine, è stata ottenuta perché, di proposito, si è deciso di migliorare la fertilità dei suoli. Che la cacioricotta ha alle spalle dei giovani che hanno deciso di rimanere di proposito a fare i pastori. Capite?

Di proposito migliaia di persone ogni giorno tengono in vita un paesaggio che noi non vediamo e che in un nanosecondo ci permettiamo di obliterare prendendo una parte e facendone il tutto. Ognuno di noi, con le sue scelte vuoi alimentari, vuoi turistiche, vuoi culturali può tenere in vita i migliori paesaggi in Italia. Può donare resistenza a quei paesaggi. Se vuole. Ognuno di noi è parte di un progetto di territorio, se vuole. Possiamo essere anche noi, di proposito, energia che dà energia a chi resiste e tiene vivi e vegeti i migliori e più difficili paesaggi italiani. Pochi libri riescono a raccontarti con tale coinvolgimento il paesaggio.

Antonio però non è solo innamorato della nostra Campania (perché la Campania non è solo dei campani, come la Lombardia non solo dei lombardi), ma è anche competente (è un agronomo) di una competenza che ha deciso di non tenere per sé, ma di trasformare in conoscenza per tutti noi. Non solo, Antonio è animato dal fuoco sacro del riscatto della sua Terra (con la T maiuscola). È un patriota. Secondo me è proprio questo, un patriota del contemporaneo. Antonio ha macinato chilometri a piedi, in auto, in elicottero per dirci che la Campania è innanzitutto un’altra cosa. Che la Campania è un crocevia di progetti di territorio unici e belli e che quei progetti di territorio sono l’argine migliore alla criminalità. Che l’urbanistica che ha sventrato le campagne ha avuto vita facile ogni volta che ci siamo dimenticati del valore del suolo e di chi lo lavora. Se dimentichiamo il suolo, lasciamo spazio al peggio. Capita davanti a casa nostra, ma capita anche lontano dalle nostre finestre. Perché il progetto di territorio non è un fatto esclusivo di una comunità amministrativa, ma di un sistema di relazioni complesso e non sempre riconoscibile che si riconosce in una patria i cui confini sono sempre meno amministrativi e sempre più di buon senso, di questioni, di sfide, di valori. I valori di Riccardo, Vittoria, Fabrizio, Mariachiara, Peppino, Mario sono i valori di tutti noi. Gli stessi. E dobbiamo capirlo. Il loro progetto di territorio non può non essere anche il nostro. L’avido individualismo che è stato, ed è, la cifra dell’umore di questo presente ci ha reso egoisti e l’egoismo, in realtà, ci rende ciechi della bellezza che sta dietro un muro di pregiudizi di cui ci convinciamo tropo facilmente. A Capodimonte, la foresta reale è stata aperta a tutti proprio abbattendo un muro e oggi i ragazzini di quei quartieri disagiati hanno prati su cui correre e giocare a pallone. Quella foresta, aperta, è il riscatto sociale di una comunità come può esserlo un nuovo posto di lavoro in una delle aziende agricole che Antonio ci fa visitare.

Eppure siamo ancor tentati di immaginare che tutta la Campania sia terra dei fuochi e, con facilità, giriamo la testa altrove. Peccato perché potremmo scoprire che sono solo una trentina gli ettari da interdire alla coltivazione a causa dei contaminanti da rifiuti mafiosi contro i cinquantamila monitorati (p. 131). E noi per trenta ettari, lo 0,06%, abbandoniamo tutto? Lasciamo tutto alla criminalità? L’antimafia la facciamo tutti assieme, conoscendo come vanno le cose per davvero. La famosa lotta italica per proteggere il suolo e il paesaggio, che Luigi Einaudi nel 1951 chiedeva agli italiani di fare perché era proprio la lotta più dura e necessaria, non la stiamo facendo ancora. Anzi consumiamo suolo con mille trucchi e offendiamo la buona terra che abbiamo inquinandola con indifferenza e boicottaggi. Ci permettiamo di girarci dall’altra parte abdicando al nostro ruolo di alfieri del territorio.

Con questo libro possiamo raccogliere da terra l’atto d’amore e riscatto che Antonio dà a tutti noi e, giustamente, capire che è una questione che ci riguarda. Riguarda tutti noi. Se non ce ne interessiamo ci troveremo per sempre in un paese con la “p” minuscola. Davvero è l’ultima notizia dalla terra: dopo non ce ne saranno più perché le forze verranno meno. A tutti noi decidere di tornare protagonisti della buona sorte di tanti territori del nostro bel Paese: non dimenticandoli mai, mettiamo gli occhi oltre la cortina della menzogna e dell’indifferenza per capire che i territori sono abitati da storie fantastiche e sono queste a fare da argine al peggio. E abitati devono rimanere. Ognuno di noi può essere motore di fragilità e di scoraggiamento altrui o, al contrario, di forza e incoraggiamento per gli altri. A Noi la scelta.

Grazie Antonio della tua ultima notizia dalla terra. La buona terra.

Paolo Pileri

N.d.C. – Paolo Pileri, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, è tra gli ideatori e animatori del progetto VENTO: il progetto di dorsale una cicloturistica tra Venezia e Torino considerata parte integrante del sistema nazionale della ciclabilità turistica, ma che soprattutto è progetto di territorio (www.cicloviavento.it). Cura la rubrica ‘Piano Terra’ della rivista “Altreconomia”.

Tra i suoi libri: Interpretare l’ambiente (Alinea, 2002); Compensazione ecologica preventiva (Carocci, 2007); con E. Granata, Amor loci: suolo, ambiente, cultura civile (Cortina, 2012); con A. Giacomel e D. Giudici, Vento: la rivoluzione leggera a colpi di pedale e paesaggio (Corraini, 2015); Che cosa c’è sotto: il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo (Altreconomia, 2015 e 2016); 100 parole per salvare il suolo (Altreconomia, 2018); con A. Giacomel, D. Giudici, R. Moscarelli, C. Munno e F. Bianchi, Ciclabili e cammini per narrare territori. Arte design e bellezza dilatano il progetto di infrastrutture leggere (Ediciclo 2018); Progettare la lentezza. Linee antifragili per rigenerare l’Italia a piedi e in bici (People, 2020); con R. Moscarelli editors, Cycling & Walking for Regional Development. How slowness regenerates marginal areas, (Springer, 2020)

Per Città Bene Comune ha scritto: Laudato si’: una sfida (anche) per l’urbanistica (2 dicembre 2015); Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio 2017); La finanza etica fa bene anche alle città (3 novembre 2017); L’urbanistica deve parlare a tutti (21 settembre 2018); Udite, udite: gli alberi salvano le città! (9 novembre 2018); Contrastare il fascismo con l’urbanistica (21 marzo 2019); L’ossessione di difendere il suolo (e non solo) (25 ottobre 2019); Per fare politica si deve conoscere la natura (31 gennaio 2020).

Sui libri di Paolo Pileri, v.: Bernardo De Bernardinis, Per una nuova cultura del suolo (28 ottobre 2016); Roberto Balzani, Suolo bene comune? Lo sia anche il linguaggio (12 ottobre 2018).


Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida,
Repubblica Napoli del 2 gennaio 2020

Fioriscono sui giornali italiani e esteri i reportage sul destino dei grattaceli, da quelli della City di Londra a quelli di Manhattan, dalla Défence di Parigi, fino a quelli da poco completati di Citylife a Milano, tutti per adesso svuotati dalla pandemia, a causa dei confinamenti, ma soprattutto del lavoro a distanza.

Così George Hammond sul Finantial Time, una testata non certo facile alle suggestioni, si chiede se gli ultimi grattacieli che Londra ha da poco inaugurato rappresentino già il monumento a un modo di lavorare che non c’è più, e la stessa domanda se la pone Julia Kollewe su un giornale liberal come il Guardian, mentre sul New York Times Julie Creswell e Peter Eavis prendono atto del fatto che “anche se la pandemia di coronavirus sembra diminuire a New York, le aziende sono riluttanti a richiamare i loro lavoratori ai loro grattacieli e mostrano ancora più esitazione a impegnarsi a lungo termine per la città”. Insomma, è chiaro che la cosa non finisce qui, non si esaurirà nemmeno con la disponibilità del vaccino e l’immunizzazione di massa, ci stiamo tutti muovendo verso un altro mondo, un altro modo di lavorare e produrre.

È partendo da tutte queste cose che è nato il desiderio di capire cosa sta succedendo ai nostri grattaceli, quelli del Centro Direzionale di Napoli. Ci arriviamo ciascuno con la sua auto, la rampa che scende nel sottosuolo verso i garage ora semivuoti, è bordata da un filare di palme nane lasciate a un loro selvatico sviluppo, da una cascata anarchica di vite americana, e l’atmosfera è quella di una foresta tropicale  che va richiudendosi sul cemento sgretolato di una civiltà passata.

Dall’atmosfera cupa del livello “meno due” torniamo in superficie. La prima visita è alla fontana circolare ormai secca che doveva un tempo fastosamente accogliere il pedone che arriva in superficie dalla città vecchia, ora è un ricovero malinconico di lattine. Ai fianchi, le due gigantesche torri dell’Enel, svuotate da tempo, senza bisogno della pandemia. La sorpresa è trovarne una aperta, qualcuno ha rimosso le grosse catene che bloccavano le maniglie delle porte a vetro opacizzate dall’abbandono, come fosse un garage qualunque di periferia, c’è gente dentro, ci avventuriamo.

E’ una delegazione di funzionari e tecnici dell’azienda, devono effettuare un sopralluogo, si muovono con circospezione nell’atrio abbandonato, c’è acqua per terra, un armadio sventrato mostra all’aria fasci scomposti e impolverati di carte, e una scalinata un tempo sontuosa, con decori lignei da country club, ora più che mai incongrui, l’atmosfera è un po’ tesa, come archeologi che si inoltrino in un tempio sigillato da millenni. Comunque, quando scoprono che siamo lì solo per capire cosa sta succedendo al più grande pezzo della Napoli contemporanea, un po’ seccamente ci chiedono di andar via, per ragioni di sicurezza, s’intende.

Lunghe aiuole verdi bordano i viali, era un elemento di eccellenza del progetto, uno degli ultimi lavori di Pietro Porcinai, il più grande paesaggista italiano, si tratta quindi a tutti gli effetti di giardini d’autore. Porcinai scelse oculatamente specie sempreverdi della macchia mediterranea, ed è tutta una teoria quindi di lentischi, mirti, corbezzoli, filliree, oleandri, assieme a cugini esotici come la plumbago con le sue delicate infiorescenze celesti, viene dal Sud Africa ma s’è trovata assai bene, e infatti la trovi spudorata dappertutto, nei bordi strada, come un’infestante.

Il problema è che si tratta di un verde sofisticato, tecnologico, posto sul tetto di un oggetto di cemento che si sviluppa per due piani sotto, che deve quindi vivere e svilupparsi in un ambiente artificiale e confinato. Il mantenimento di questo ecosistema tecnico richiede la massima cura: irrigazione sapiente, controllo delle infestanti, potature accorte; come il “bosco verticale” delle due torri residenziali di Milano, sono in realtà cose fragilissime, che richiedono un dispendio energetico e idrico elevato.

Dopo un paio di decenni in cui le cose sono andate bene, il giardino di Porcinai è ora in piena crisi, ci sono aiuole a partire dall’ingresso in evidente abbandono, le infestanti ingoiano gli arbusti, mentre cespugli interi seccano e restano in piedi, stecchiti, su un sottobosco di bottiglie e cartacce. Assieme al rovinio della pavimentazione, con le mattonelle rotte o traballanti, frettolosamente sostituite da poveri rappezzi in cemento, il declino del verde è un ulteriore aspetto di quello più generale dello spazio pubblico, di quel tessuto connettivo che alla fine rendeva un minimo vivibile e presentabile questo luogo, che la città vecchia non ha mai voluto o potuto assimilare.

Perché alla fine il centro direzionale appare oggi esito di una modernizzazione fraintesa, arrivata in ritardo, quando i modelli post-industriali annunciavano, nel medio periodo, scenari diversi e legati ad innovazioni di cui già si aveva sentore: la digitalizzazione, le tecnologie informatiche e di comunicazione, il calo demografico delle grandi città, i mutamenti del mercato del lavoro.

E invece con un ritardo colpevole e dopo aver operato una finta riflessione tra piani attuativi concettualmente diversi durata quasi venti anni, con il contributo determinante dell’impostazione iniziale di Giulio De Luca – a sua volta basata sullo schema di Luigi Piccinato – alla fine, quasi per sfinimento, il disegno definitivo fu firmato dal giapponese Kenzo Tange. Decenni di gestazione non potevano che determinare un progetto urbano già obsoleto, concepito negli anni ’70 e privo di proiezioni al futuro e di analisi serie. Sarebbe bastato anche solo guardare all’altro lato dell’Atlantico, dove in genere le mutazioni urbane avvengono con decenni di anticipo.

Anche dal punto di vista ambientale, se c’è un’idea di progettazione urbana da portare a esempio di assoluta insostenibilità, è proprio quella che ha partorito questo enorme accrocco – per buona parte interrato nella palude dove ancora scorre sotterraneo il Sebeto – che fin dalla nascita è condannato a sfuggire alla sommersione grazie a un esercito di instancabili pompe sommerse, legando così la sua esistenza a un fabbisogno energetico perpetuo, come quello che occorre per refrigerare e riscaldare i suoi inospitali edifici in vetro-metallo.

A soffrire la crisi che li ha definitivamente chiusi sono alcuni degli edifici più rappresentativi. La coppia di torri cosiddette Wind, oggi Enel, all’ingresso dell’asse centrale, progettate da Giulio De Luca, Massimo Pica Ciamarra e  Renato Avolio De Martino, sono oggi vuote e in attesa di un difficile riuso. Eccessivamente sottili, secondo la sagoma del planovolumetrico, per recuperare un minimo di spazio all’interno i progettisti espulsero gli ascensori all’esterno ed eliminarono i pilastri: i solai di quelle torri sono appesi con dei tiranti alla grande trave visibile sulla sommità dell’edificio. Stesso destino per le due grandi torri marmoree dell’allora Banco di Napoli, progettate da Nicola Pagliara. L’abbandono sta causando il distacco di molte delle lastre e dei blocchi di marmo pregiato sagomate secondo i minuti dettagli esecutivi del progettista per il basamento e in facciata. Soltanto questi due complessi edilizi raggiungono una volumetria di poco inferiore ai 300mila metri cubi

Nonostante tutto, nel tempo questo tessuto urbano è riuscito comunque ad essere parte del quartiere. C’è riuscito, in particolare, sui bordi. Quello lungo il carcere di Poggioreale, ad esempio, si caratterizza per una connessione diretta e a livello con la via Otranto del quartiere Vasto, costeggia l’edificio più basso e a scala urbana (ex Olivetti) realizzato da Renzo Piano, sino all’istituto comprensivo “Gennaro Capuozzo”, una delle poche attrezzature pubbliche che il bulimico piano del Centro Direzionale è riuscito a produrre e sottrarre all’ingordigia dei privati che hanno gestito la realizzazione. A seguire, passando per il curioso Complesso Esedra, il percorso conduce alla nuova copertura lignea tutta a onde della stazione della linea 1 della metropolitana progettata dall’architetto italo-spagnola Benedetta Tagliabue.

Anche le torri residenziali, sul bordo opposto, restano alla fine una delle parti migliori, sicuramente più vitali di questo luogo. Certo i residenti hanno dovuto asserragliarsi dietro cancellate robuste, ma all’interno del recinto percepisci una cura, gli ingressi, le facciate, i balconi, e chiudi un occhio pure sulle verande che in molti hanno realizzato, in questo mare di spaesamento sono un segno di radicamento, finalmente, ai luoghi.

«Le città contemporanee dei servizi di Kenzo Tange» ci dice Francesca Castanò, professore di Storia dell’Architettura all’Università della Campania Vanvitelli «in Italia stanno andando incontro a destini diversi. Se a Bologna il Fiera District pare votato alla completa rivitalizzazione attraverso interventi che portano nuovi abitanti e nuove attività, qui a Napoli il Centro Direzionale, un autentico palinsesto architettonico con qualità assenti in analoghi progetti, lentamente muore, nel generale svuotamento di funzioni e di senso. Come pure la città satellite del Librino di Catania dove l’utopia di Tange è del tutto svanita»..

Ma la maggiore sofferenza di questo brano urbano è l’apparente assenza di prospettive, l’essere stato dimenticato dalla pianificazione urbanistica e da buona parte del discorso pubblico sulla città. In una logica rigenerativa, l’intervento non può prescindere dal fatto che le condizioni attorno alle quali è stato pensato non ci sono più, a maggior ragione alla luce della tragedia epocale che stiamo vivendo. Sarà necessario ristrutturare, smontare, integrare, reinventando la pelle e il contenuto degli edifici. Ma forse sarà necessario anche demolire e ricostruire (e forse nemmeno, in qualche caso) secondo modelli contemporanei di intervento e tecnologie adeguate.

Quello che è certo è che bisogna soprattutto restituire questo pezzo di città alla città, allontanando parte del terziario e mettendoci abitanti, migliaia di abitanti. E servizi, attrezzature pubbliche, per l’istruzione, la cultura, lo sport, le cose che servono alle persone per vivere. Una grande azione pubblico/privata, che conservi la traccia di questo luogo oramai stratificatosi nella città, mutandone però l’identità e l’abitabilità. Integrandolo finalmente con quello che c’è intorno, i quartieri vecchi del Vasto, di Poggioreale, con la vita certo piena di problemi e contraddizioni, i pensieri e i drammi indistruttibili di una città vera.

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