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vesuvio2

Il sole è nuovo ogni giorno.

Non si può discendere due volte nel medesimo fiume.

Diamoci da fare. Auguri.

Antonio di Gennaro, 28 dicembre 2015

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La sera non vado più a via Toledo. L’illuminazione, come gli altri servizi pubblici,  è inesistente, le macchie buie prevalgono, e non mi va di essere sballottato dal flusso inarrestabile di concittadini impazienti, senza volto. L’atmosfera è quella dolente della città senza padroni del “Resto di niente” di Striano. In fondo, verso il mare, c’è il deserto oscuro di piazza Plebiscito. Un po’ di luce la trovi a piazza Dante, ma non è luce di città, è quella paesana delle bancarelle. L’aria è satura di musiche incongrue, implacabili percussioni, o melodie nostrane cantate a voce piena, mentre tu cercheresti magari una nota discreta di jazz. Alla fine, trovo un po’ di rifugio nell’atmosfera silenziosa e composta di piazzetta Salazar.

Per questo la sera non vado più a via Toledo, e non c’entrano i turisti. E’ evidente, la riscoperta di Napoli da parte del passa-parola internazionale non è frutto di chissà quali politiche di miglioramento urbano, ma di congiunture favorevoli, e di una miriade di sforzi e investimenti privati, dei mille bed & breakfast fioriti in città, insieme ai piccoli locali e gastronomie, mentre le librerie chiudono. Il resto, per fortuna,  lo fa la città, da sola, che resta un posto straordinario, generoso di storia e di atmosfere, nonostante l’incuria e la carenza cronica di governo e manutenzione.

Ad ogni modo, le cose cambiano, e l’atmosfera europea che non trovi più nel capoluogo, puoi coglierla inaspettatamente nel centro storico di Pozzuoli, ma lì è veramente il frutto di una visione e di un  investimento deliberato sulla città. Il paesaggio urbano di Napoli, invece, attende di essere ricostruito strada per strada, piazza per piazza, e basterebbe poco, la luce giusta, una panchina, il marciapiede in ordine, una macchia di verde curato e il cestino dei rifiuti dove serve. Al di là degli sforzi encomiabili degli investitori privati, quello che manca è uno sguardo pubblico partecipe e responsabile sui diversi luoghi della città.

Certo, tra le emergenze che ci angustiano – a partire dalle strade che sprofondano e i palazzi che si sbriciolano, o il trasporto pubblico che non c’è più – quella dei paesaggi, della qualità delle atmosfere urbane, non costituisce probabilmente priorità. Io penso invece che sia un elemento importante, in grado di conferire senso e valore ai diversi momenti della vita in città, per noi che l’abitiamo ogni giorno, prima ancora che per i turisti internazionali, al centro come in periferia. Alla fine, ciò di cui si avverte la mancanza, è quel minimo di dimensione urbana, europea, che la città certamente merita, al posto della malinconica, inarrestabile deriva strapaesana di questi scombinati ultimi anni.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 30 dicembre 2015 con il titolo “La sera non vado più in via Toledo e i turisti non c’entrano”

La fotografia è ripresa da ilmattino.it

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Antonio di Gennaro, 25 dicembre 2015

L’articolo di Foschini su Repubblica (Giudici contro scienziati la strana battaglia sulle origini della Xylella), riproposto nel post precedente, è avvincente, si legge come una spy story, ed è un buon punto di partenza per una riflessione, purché si faccia un po’ di ordine.

Il conflitto che viene raccontato riguarda almeno tre questioni che è necessario distinguere:

1)         le cause della moria degli olivi: da una parte c’è chi dice che è l’infezione da Xylella a produrla (1a); l’altra tesi è che si tratti invece di una sindrome complessa, che dipende da molti fattori, e in questo caso la lotta alla Xylella non risolve niente (1b).

2)         ammesso che si tratti della Xylella, la tesi sposata dalla Commissione europea è che per eradicare la malattia sia necessaria l’estirpazione della piante malate e il controllo dell’insettino che veicola il batterio, la sputacchina (2a); la tesi contrapposta dice invece che l’estirpazione degli olivi non è necessaria, e addirittura aumenta il rischio di infezione, e che è possibile una cura dolce, soft delle piante malate, con il ricorso a limitate potature (2b). La tesi 2b è in qualche modo collegata con la 1b.

3) sempre ammesso che l’agente patogeno sia la Xylella, resta da capire se l’epidemia ha cause naturali (3a), o sia stata provocata da comportamenti colposi (3b) o addirittura dolosi (3c) da parte di ricercatori e aziende con interessi nel settore.

I punti 1 e 2 dovrebbero rientrare nelle competenze della comunità scientifica, e la loro soluzione essere affidata al confronto critico tra ricercatori e tecnici. Invece, come in altri casi, prima ancora che questo confronto si sviluppi, le diverse tesi divengono materia di conflitto tra istituzioni (commissione europea e ricercatori mainstream da un lato, vs magistratura e ricercatori alternativi dall’altro), ed allora tutto diventa più difficile, perché il ragionamento viene sostituito dalla difesa a oltranza di posizioni di principio.

Il punto 3 introduce la possibilità di responsabilità umane, e qui vengono tratteggiati diversi possibili racconti: quello più semplice, dell’errore umano, o quello della  natura violentata che sfugge al controllo, come in Jurassic Park (3b), fino ad arrivare alla tesi del complotto, come in un romanzo di Umberto Eco (3c).

Il caso della Xylella è emblematico del conflitto tra scienza, istituzioni e società. Gli interessi in gioco sono concreti, e molteplici. La riflessione deve continuare, e la cosa difficile, come in altri casi, è controllare criticamente i diversi aspetti della questione.

Giuliano Foschini, Repubblica 24 dicembre 2015

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Diciotto ottobre del 2010. Nella sala conferenze dello Iam, l’Istituto agronomico del Mediterraneo di Bari, centro di ricerca internazionale orgoglio d’Italia, sono riuniti in un workshop alcuni tra i più importanti patologi vegetali al mondo. “Phytosanitary Workshop on the Quarantine Pathogen Xylella fastidiosa” è il titolo dell’incontro. Si discute di una tremenda peste degli ulivi che già colpito gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei, in grado in un attimo, come fosse Medusa, di rendere pietra un albero secolare. Qualche giorno prima, per gli studiosi riuniti a Bari, era arrivata dall’Olanda una provetta. Sull’etichetta era scritto in rosso: dangerous. E al rigo successivo: Xylella.

Febbraio 2013. I signori Russo, che hanno alcuni alberi nell’agro di Gallipoli, segnalano una strana malattia che ha attaccato i loro ulivi: sono tutti bianchi, ormai secchi. Lo sono diventati in pochi giorni. Nel giro di un mese arrivano decine di segnalazioni dalla stessa zona alle associazioni di categoria che immediatamente avvisano le autorità.

Agosto 2013: grazie a una “folgorante intuizione” un professore barese, Giovanni Paolo Martelli, suggerisce di cercare la presenza del batterio Xylella in Puglia, fino a quel momento mai individuato. Pochi mesi dopo, a settembre, quell’intuizione diventa una certezza: “Identificazione del Dna della Xylella fastidiosa olandese in Puglia”, scrivono in un lavoro scientifico alcuni docenti baresi, tra cui Martelli. Il 15 ottobre si muove anche la Regione Puglia. Poi arriveranno il ministero, la Protezione civile e l’Unione europea: la Xylella ha attaccato la Puglia, sentenziano. Sono a rischio un milione di alberi, anche quelli che vivono da secoli. Bisogna tagliarne, subito, almeno diecimila. Altrimenti sarà l’epidemia.

È necessario ripartire da qui, campagne di Gallipoli, sole di dicembre e tutto intorno tronchi di alberi ormai secchi, per raccontare la peste. E per provare a muoversi all’interno di una vicenda che ha le fattezze di una calamità (una terra che perde la propria storia, la propria bellezza), i contorni di una spy story (come ci è arrivata la Xylella in Puglia?), le conseguenze di una guerra tra accademia e giustizia (sono universitari o incoscienti?), il rischio di una battaglia tra scienza e cialtroneria (virus o scie chimiche?). Sul tavolo ci sono infatti due storie opposte e parallele: la prima racconta di un assalto alla natura fatto da professori incoscienti, politici in cattiva fede e multinazionali e proprietari terrieri a caccia di denaro. Vittime: gli alberi di ulivo pugliesi. La seconda di magistrati inconsapevoli, consulenti matti, scienziati accusati ingiustamente. Vittime: sempre gli alberi di ulivo pugliesi.

I fatti: l’Italia, tramite il suo commissario, il capo della Guardia forestale, Giuseppe Silletti, ha ordinato nei mesi scorsi il taglio di tutti gli alberi malati di Xylella, cinquemila almeno. Lo ha imposto l’Unione europea cui spetta il controllo dei patogeni. Si ritiene infatti che l’unica maniera per contenere il virus sia eradicare. «Non c’è altro da fare», ripete ancora oggi Silletti e, con lui, i professori. «Siamo affranti, ma la scienza deve avere la forza di non piegare la testa», dicono. Affranti. Perché la procura di Lecce ha iscritto tutti loro nel registro degli indagati, Silletti compreso, sostenendo che stanno sbagliando tutto. E che se il virus si è espanso è anche colpa loro: «Tagliare fa aumentare l’epidemia, dimostrano i dati empirici. E poi non c’è alcuna prova che la Xylella sia la causa unica dell’essiccamento ». Primo punto: come è arrivata la Xylella? «Dalle piante ornamentali del Costa Rica», sostengono gli universitari. «Falso. Probabilmente da quel convegno», rispondono i magistrati. Nel provvedimento di sequestro raccontano infatti di «gravi irregolarità» nei documenti che accompagnavano le provette giunte dall’Olanda. E annotano anche che alcuni di quei documenti sono spariti. Li hanno chiesti: ma prima non è stato possibile perquisire lo Iam perché ha lo status di sede diplomatica. E poi, domandandone l’esibizione volontaria, sono stati presi in giro: «Un dipendente è uscito a cercarli ed è rimasto per alcuni minuti fermo fuori dal bagno. È tornato e ha detto che non li aveva trovati».

L’arrivo della Xylella potrebbe, dunque, essere stato uno sbaglio. Ma che interesse hanno ora gli universitari a mentire? L’università, osserva ancora la procura, ha creato uno spin off per un nuovo tipo di coltivazione dell’ulivo non intensiva: e soci, in questa esperienza, sono proprio lo Iam e l’Istituto Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla Xylella. Altri “amici” della società sono poi Vito Savino, ex preside della facoltà di Agraria; Angelo Godini, «fautore dell’eliminazione del deviato degli alberi di ulivo e in particolare di quelli monumentali», e Giovanni Paolo Martelli, il primo a parlare di Xylella. «Savino, Godini e Martelli — scrive ancora la procura — condividono peraltro un medesimo approccio culturale nell’Accademia dei Georgofili, di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell’Agricoltura e attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione Xylella».

Unione europea che ha deciso anche di erogare i contributi per gli alberi da tagliare sulla base non della quantità di olio prodotta ma del numero di piante. «Non si tratta di un particolare », dicono qui a Gallipoli quelli con le mani sporche di terra. «Da qualsiasi parte sia arrivata, la Xylella si è diffusa tramite un animale che salta da una pianta all’altra nei campi non arati. Si è diffusa per colpa di chi non cura le piante. E chi non le cura ha tutto l’interesse a tagliare…». In realtà, dicono i pm di Lecce, si potrebbe essere diffusa per altri motivi. Per esempio, per colpa di alcuni campi sperimentali di pesticidi svolti prima dalla Regione e poi dalla Monsanto, la multinazionale del settore. La stessa che nel 2007 aveva acquisito la società «Allelyx — fa notare la procura — parola specchio di Xylella….». «Quei prodotti — si legge nel decreto — avrebbero potuto produrre gravi conseguenze su batteri eventualmente già presenti e silenti». «Che succede se durante la peste, abbassi le difese immunitarie?», si chiede un contadino. Che indica uno dei campi sui quali avevano svolto quelle sperimentazioni. È tutto nero. Bruciato. Più nessuna traccia. Non è stata la Xylella. Ma un incendio, qualche mese fa.

Vedi anche il post su Horatio “Mediterraneo senza olivi

Foto dell’uliveto secolare Alliste Calaturo, da ilmiosalento.com

 

ciliegi leggeri

Traguardando struffoli e panettoni, lunedì primo febbraio alle 18.00 presso la libreria Iocisto a Via Cimarosa al Vomero (eroica iniziativa in un quartiere desertificato, da sostenere con ogni mezzo)  c’è la prima presentazione pubblica del librino “La terra ferita“, in uscita presso Clean edizioni. Discuteranno del libro Ottavio Ragone e Francesca Santagata.

“La terra ferita” per ora è reperibile presso la libreria Clean, in via Diodato Lioy. Sarà in distribuzione nazionale, e quindi in tutte le librerie, dal 10 gennaio (anche la casa editrice Clean è un piccolo miracolo, una fabbrica di cultura che Gianni e Annamaria Cosenza tengono viva con intelligenza e passione).

Il 19 febbraio al Museo del Mare a Bagnoli, grazie all’ospitalità del professor Mussari, altro incontro. Si presentano insieme “la Terra ferita” e un libro importante, scritto da Gabriella Corona, “Breve storia dell’ambiente in Italia” (Universale paperbacks Il Mulino). Ne parleranno Marco Demarco e Vezio De Lucia, con il coordinamento di Luca Ciardiello. Il Museo del Mare è un altro presidio, una creatura preziosa. Anch’essa vive del lavoro di un gruppo di valorosi. Una di quelle iniziative che rende questa città un posto un po’ migliore per vivere.

E’ tutto per il momento, auguri carissimi a tutti.

 

Marco Rossi-Doria, Repubblica Napoli 20 dicembre 2015 

tramonto leggero

E’ anno elettorale. E ognuno di noi vorrebbe una città che finalmente esca dal declino e ritrovi il suo posto nel Paese. Una città guidata da una squadra che sappia realizzare quello scatto d’orgoglio che Napoli chiede e spesso sa suggerire, da moltissimo tempo. Sì, una squadra – di giovani e non giovani – scelta per merito nell’affrontare i nodi del mancato sviluppo locale, della povertà, della crisi educativa, della ripresa dei cantieri urbanistici, culturali e sociali fermi, per la capacità di ascolto metodico, per la decisiva competenza di sapere mettere insieme guida politica e funzionalità amministrativa; un governo cittadino finalmente più leale che fedele a un sindaco che, a sua volta, sia sufficientemente liberale, sicuro di sé e munito di cultura organizzativa moderna da saper evitare le ossessioni del controllo e la demagogia e da saper rendere conto delle cose fatte e da fare. Chiamando anche noi cittadini a essere più adulti e a smetterla di credere nell’ennesimo “salvatore della patria” che ci de-responsabilizza dalla fatica dei miglioramenti graduali, complessi, misurabili. Forse finalmente saremmo capaci di maturità, di più piena cittadinanza. E sapremmo affiancare e incalzare il governo cittadino ciascuno per le cose che conosce e che sa fare, anche da posizioni di opposizione, accolti a nostra volta per le nostre competenze e realistiche proposte.

CHE in tanti abbiamo nutrito e messo alla prova ovunque in città negli anni. E forse potremmo anche disintossicarci da un rivendicazionismo localistico, un po’ straccione e inconcludente e sostenere un’amministrazione capace di ripensare il rapporto della terza città d’Italia con il governo nazionale favorendo così l’arrivo di risorse anche straordinarie, indispensabili per affrontare una situazione di straordinaria gravità, qual è la nostra, dal punto di vista della legalità, della vivibilità, del lavoro, dello sviluppo locale, della coesione sociale. Nello spirito che fu di Nitti, all’inizio del secolo scorso.

È sano e anche possibile aspirare a tutto questo. Ma per tradurre tale aspirazione in politica andrebbe impressa, già subito, una svolta al dibattito pubblico da parte di chi fa politica. Che proponga di affiancare ai candidati le squadre di qualità che la situazione richiede, che metta l’accento sulle questioni da risolvere, nutrendo il dibattito con le analisi puntuali e i dati, che non dica solo cosa fare ma come fare, in quali tempi, con quali risorse.

Sarebbe, insomma, ora di avere una campagna elettorale magari dura ma che entri nel merito delle cose superando l’ossessione personalistica.

La crisi strutturale di Napoli, che non ha pari per dimensione multi-fattoriale – in nessuna altra metropoli europea, dovrebbe consigliare ai protagonisti della politica una simile svolta nei modi di condurre questa campagna elettorale.

Ma purtroppo fino ad oggi così non è. Il Partito Democratico – la forza che ha maggiori responsabilità pubbliche perché più a lungo ha guidato Regione, Provincia, Comune e segnato la vita politica – si avviluppa quasi unicamente sul vetusto dilemma: Bassolino sì o no. Come se vent’anni non fossero passati o la “città dei bambini” si fosse davvero realizzata. La destra è quasi afona su cosa e come fare. Il sindaco uscente è più attento alla difesa d’ufficio che all’esame, magari anche auto-critico, sul da fare. Il Movimento Cinque Stelle è ancora al di qua del proporre soluzioni di merito.

E, per ora, proprio nessuno chiama a raccolta le esperienze diffuse e le energie competenti in modo non strumentale ma davvero aperto, fondando così una promessa di nuovo patto tra politica e città.

Il fatto è che la politica – a Napoli, ancor più che altrove – è così centrata su se stessa e sulla difesa delle posizioni di rendita da non riuscire neanche a registrare la gigantesca voragine, da tempo aperta, tra la città e la politica stessa.

«Ogni volta si dice così» – qualcuno obietta, quando si fanno questi ragionamenti.

Ma è la progressione spaventosa nei dati dell’astensione che mostra come stanno le cose.

Eccola: confrontiamo i dati delle elezioni politiche (Camera dei Deputati), in Italia e, nello specifico, a Napoli, dal 1992 a oggi.

In Italia alla Camera votarono il 93,19% nel 1992, l’82,88% nel 1996, l’81,38% nel 2001, l’83,62% nel 2006, l’80,51% nel 2008, il 75,20% nel 2013.

A Napoli votarono, alla Camera, il 90,95% nel 1992, il 75,56% nel 1996, il 76,16% nel 2001, il 73,47% nel 2006, il 67,68% nel 2008, il 60,10% nel 2013. Con un aumento dell’astensione molto più forte rispetto allo scenario nazionale, come si evince dal confronto.

Veniamo adesso al dato delle elezioni comunali a Napoli (primo turno): nel 1993 votarono il 67,03%, nel 1997 il 68,17%, nel 2001 il 68,16%, nel 2006 il 66,64%, nel 2011 il 50,58%: un vero e proprio crollo.

Purtroppo il peggioramento nella partecipazione alla politica c’è, eccome: i cittadini che non traducono in scelta politica il proprio vivere, pensare, operare in città sono 4 o 5 su 10.

Ci vuole un’altra politica. E sarebbe auspicabile che almeno uno dei quattro schieramenti contendenti aprisse una nuova danza, avviando un confronto autentico sulle priorità e sul come realizzarle.

Vedremo se avverrà.

Ma una cosa è purtroppo certa: se non avverrà, l’astensione rimarrà alta, ci saranno minori possibilità di avere un’amministrazione che favorisca il riscatto di Napoli e la vita e la politica si allontaneranno ancora.

Gigi Di Fiore – Il Mattino 20 dicembre 2015

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Una bara bianca. Nella narrazione sul dramma della Terra dei fuochi è un’immagine diventata tòpos di una storia che, oltre alle sofferenze personali, è somma di contraddizioni, pareri in libertà, confronti tra tesi e convinzioni diverse. Le bare bianche simbolo dei bambini morti di cancro, nell’area tra le province di Caserta e Napoli che, in 88 Comuni, concentra un immaginario di degrado, devastazioni territoriali, incuria.

I rifiuti e i loro veleni, gli antri malefici di tonnellate di ecoballe, luoghi dai nomi evocatori come Taverna del Re, ex Resit, Masseria del Pozzo. È ancora possibile, dopo il tutto e il contrario di tutto ascoltati in almeno due anni, raccontare questa realtà, andando oltre il luogo comune e, senza nascondere o omettere nulla, offrire ventagli di ipotesi, su cui intervenire? È possibile non farsi schiacciare dall’emozione impotente dei nomi dei piccoli morti di tumore? Tonia, Miriam, Antonio, Giusy, Alessandra: la loro dolente ”Spoon River” cerca risposte scientificamente certe.

L’Istituto superiore di sanità ha diffuso nel luglio 2014 il suo studio sull’incidenza e le statistiche dei tumori nella terra dei fuochi. È il famoso rapporto «Sentieri», dallo scorso settembre diventato una pubblicazione stampata. C’è anche lo studio sui bambini, il «Sentieri kids», ultimo (per ora) approfondimento nazionale. Sostengono i quattro ricercatori dell’Istituto superiore di sanità (Ivano Iavarone, Roberta Pirastu, Giada Minelli, Pietro Comba): «Due pubblicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sui rischi per la salute dei bambini concludono che l’esposizione a cancerogeni nel periodo del preconcepimento, durante la vita intrauterina, o nella prima infanzia, possono causare lo sviluppo di tumori durante l’infanzia o durante la vita adulta».

E aggiungono: «I bambini sono più suscettibili degli adulti ad almeno alcuni cancerogeni, incluse alcune sostanze chimiche e varie forme di radiazioni». Fatte le premesse, da mesi e mesi siamo sommersi da dati e statistiche non sempre concordanti. E non è un caso che, su questo dramma campano, lavori una commissione parlamentare permanente come quella sul ciclo dei rifiuti, ma anche la commissione parlamentare sanità. Alle prime due si è aggiunta la terza commissione speciale della Regione Campania, presieduta dal casertano Gianpiero Zinzi. Ma tutte hanno bisogno di acquisire dati su cui ragionare, per fare affidamento su elementi concreti. I registri dei tumori. I registri dovrebbero fornire i dati principali, da cui partire per elaborare statistiche. Il registro più antico in Campania, nato addirittura nel 1996, è quello della Asl Napoli 3 sud. Ne è direttore responsabile il dottore Mario Fusco, che ha accumulato tanta esperienza da essere nominato tutor per i registri in divenire alle Asl di Caserta (per i dati sui tumori infantili), Avellino, Benevento, Napoli uno. Spiega proprio il direttore Fusco: «Il nostro registro è il primo, insieme con quello della Asl di Salerno.

Ora, per legge, tutte le Asl campane hanno avviato la raccolta dei dati per elaborare i registri tumori sui loro singoli territori. Ce ne saranno otto, quindi, e avremo anche un registro regionale di tumori infantili, come il Piemonte e le Marche». Ma ogni registro, ogni dato che possa essere utilizzabile, deve raccogliere tracce su un periodo di tempo di almeno tre anni. Spiega Bruno Daniele, direttore del Dipartimento di Oncologia all’azienda ospedaliera Rummo di Benevento: «Sui tumori si ragiona scientificamente analizzando diversi indici e concause. Bisogna esaminare le abitudini alimentari, gli stili di vita, l’ereditarietà, l’esposizione a determinate situazioni ambientali, le recidive. Non bastano le statistiche dei morti, hanno importanza anche i controlli, i ricoveri ospedalieri, la diagnosi precoce di un singolo tumore». Insomma, sull’equazione cancro-terra dei fuochi, spia di un dramma che travolge tante esistenze, le certezze sembrano ancora fragili. Dice il direttore Fusco: «Gli ultimi dati triennali arrivano al 2012, presto li pubblicheremo sul nostro sito. Il nostro registro riguarda un’utenza di 57 comuni e comprende aree calde della terra dei fuochi, come Acerra e Casalnuovo. Lo dico con chiarezza, in questa materia, una cosa è l’emozione un’altra la scienza. Non ha senso dire che chiunque viva in uno degli 88 comuni della terra dei fuochi sia a rischio. Non ha senso metodologico». E allora il registro parte dai dati Istat delle morti, poi raccoglie le statistiche ospedaliere. Eppure ragionare di algoritmi, numeri, indici non è discorso proponibile a una mamma che ha perso un bambino di sei anni per leucemia. Lo scorso anno, l’Istituto per tumori Pascale, dove lavora anche il dottore Antonio Marfella tra i fondatori del movimento Medici per l’ambiente e sempre presente nelle battaglie al fianco del parroco don Maurizio Patriciello, diffuse uno studio sulla terra dei fuochi.

Vi si leggeva: «Negli ultimi decenni la mortalità per tumori in Campania è divenuta superiore alla mortalità nazionale. Si evidenzia da alcuni studi un aumento nelle province di Napoli e Caserta». In questa analisi, gli aumenti più rilevanti sono segnalati ad Afragola, Arzano, Caivano, Giugliano, Quarto, Orta di Atella, Santa Maria Capua Vetere per il tumore al polmone. Il record ad Afragola (49 per cento). Ma avverte il dottore Maurizio Montella, che ha contribuito ad elaborare lo studio: «I dati disponibili non permettono di trarre considerazioni conclusive sulla possibile correlazione tra aumento di tumori e potenziali inquinanti». Diverso il parere di Antonio Marfella, che sostiene: «Il cancro è uno dei problemi, tra le patologie diffuse tra chi vive nella terra dei fuochi. Da 20 anni, nelle province di Napoli e Caserta si sono persi due anni di vita a testa per ogni bambino che nasce».

I dati raccolti dal registro dei tumori della Asl Napoli 3 sud vanno in direzione diversa e puntano su un elemento che oggi è considerato dai ricercatori il più importante: l’incidenza tumorale, che poi è il dato sui nuovi casi diagnosticati da un anno all’altro. Insomma, sintetizza cosa influisce di più, quali fattori accrescono il rischio di tumori su gente di uno stesso territorio. Il registro coordinato da Mario Fusco esamina il periodo che va dal 1997 al 2012. E ne spiega le conclusioni proprio Fusco: «I dati sulla terra dei fuochi non si discostano dalle tendenze di altre aree nazionali. C’è un aumento dei tumori al colon e al retto, una diminuzione dei tumori al polmone negli uomini per un aumento tra le donne. Va detto con chiarezza, attraverso dati scientifici, che non esiste una univoca correlazione tra esposizione ambientale e tumore, tranne nel caso dell’Eternit. I nostri dati rilevano aumenti di tumori alla mammella, stazionari alla prostata. L’ambiente è uno dei fattori, non l’unico».

Alle parole si aggiungono i numeri. Eccoli, dal registro dei tumori certificato della Asl Napoli 3 sud: 5500 casi annui di tumore, 600 solo alla mammella. I casi di tumore ai bambini sono 40. L’Associazione italiana registri tumori ha diffuso invece cifre di previsione nazionale sul periodo 2011-2015, ipotizzando 6943 nuovi casi di tumore maligno nella fascia di età tra 0 e 14 anni, di cui 770 in Campania. Ma spiega il dottore Fusco: «Oltre il 50 per cento di questi casi sono in provincia di Napoli, a prescindere dalla residenza nella terra dei fuochi. Il problema dell’inquinamento di quell’area va risolto indipendentemente dall’incidenza e mortalità oncologica». Nello studio dell’Istituto superiore della sanità, su cui hanno lavorato otto ricercatori, si dice: «Si osservano eccessi di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori e eccessi di tumori del sistema nervoso centrale, anche nella fascia 0-14 anni. Sono necessari, però, ulteriori approfondimenti». Altri dati. Il gruppo di studio dei Medici per l’ambiente della Campania ha lavorato sulle schede di dimissione ospedaliera nelle cinque province della regione.

Tra il 2009 e il 2011 sono stati esaminati i dati ministeriali delle cartelle cliniche di chi ha ricevuto una diagnosi di tumore per la prima volta. Il numero, secco, è di 88499 persone, di cui 1840 sotto i 20 anni. In provincia di Caserta, viene registrata una percentuale maggiore di tumori infantili dal 2007 al 2011 nell’arco di età da 0 a 19 anni: 67 casi di leucemie, 50 linfomi, 7 istiocitosi, 4 di altro tipo. Tra il 1996 e il 2006, il numero dei ricoveri di bambini fino a 14 anni con una prima diagnosi di tumore è in Campania di 1147. Il famoso studio «Sentieri» dell’Istituto superiore di sanità, però, precisa: «Nella terra dei fuochi, non si osservano eccessi di mortalità nella salute infantile. Va tenuto sotto osservazione il dato di ospedalizzazione che segnala un eccesso di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori, 151 in provincia di Napoli e 168 in quella di Caserta». La sintesi Che conclusioni trarre? Loredana Musmeci, che all’Istituto superiore di sanità ha coordinato i quattro ricercatori del Dipartimento ambiente, spiega: «In parallelo al risanamento ambientale, sono necessarie misure di prevenzione materno-infantili, con percorsi di diagnosi e terapie».

Ma a che punto è la ulteriore raccolta dati dei registri tumori delle Asl campane? Due sono accreditati da tempo dall’Agenzia internazionale ricerca sul cancro e dall’Associazione italiana registri tumori e coprono il 38,8 per cento della popolazione (Salerno e Asl Napoli 3 sud). Gli altri (Avellino, Benevento, Napoli 1 centro, Napoli 2 nord), attivati nel 2013, sono alla loro prima raccolta statistica per il triennio 2010-2012. Così, mancano veri dati certificati sulle incidenze dei tumori nell’intero territorio campano, da poter mettere a confronto. E dice il professore Maurizio Guida, aggregato all’Università di Salerno alla cattedra di ginecologia e ostetricia: «Studiamo l’incidenza sui feti in zone inquinate, come la terra dei fuochi. Un lavoro basato sull’analisi delle malformazioni, verificando poi l’accumulo nel sangue materno di sostanze derivate dall’inquinamento ambientale».

Lo studio cerca presenze di policlorobifenili, derivati della diossina, furani e metalli pesanti. Un approfondimento in corso, che esaminerà anche l’accumulo di metalli nei capelli materni partendo dai dati sulle malformazioni diagnosticate in aborti spontanei e prematuri. I primi numeri parlano di 23 casi di malformazione ogni 1000 nati vivi nelle province della terra dei fuochi. Dice il professore Guida: «Senza allarmismo, ci sono punti deboli nella pianificazione socio-sanitaria sulla gestione dell’impatto dell’inquinamento ambientale sulla salute. Occorre un monitoraggio sugli effetti certi addebitabili all’esposizione inquinante, sia a carico dei nati, sia dei non nati e un controllo su tutti i tipi di malformazioni riscontrabili sui feti». Alla fine, l’unica certezza è la non certezza scientifica. Allarmi, dati in contrasto, letture diverse, ma nessuno che dia una risposta sicura a chi non si accontenta di piangere su una bara bianca, o di ascoltare le roventi omelie di don Patriciello.

(1. continua)

Aspettiamo i prossimi reportage di Gigi Di Fiore. Buon giornalismo, buona informazione, finalmente (AdG)

Antonio di Gennaro, 10 dicembre 2015

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In un articolo apparso su Repubblica lo scorso 6 novembre (“Le metropoli della messa in scena“) Stefano Bartezzaghi svolgeva importanti considerazioni sul paradosso delle grandi città italiane (Milano e Roma in primis, ma il discorso riguarda anche Napoli), che sono diventate parte importante, nel bene e nel male, della narrazione pubblica, dello storytelling nazionale, con un ruolo predominante che viene però assegnato alle politiche simboliche, rispetto a quelle materiali che riguardano i funzionamenti di base: manutenzione urbana, prevenzione dei dissesti, mobilità, rifiuti ecc.

A ben vedere, anche la scelta dell’amministrazione comunale di Napoli di snobbare la cabina di regia su Bagnoli, rientra nelle politiche della “messa in scena”, con un conflitto tra poteri e una disputa sui principi, che sembrano svolgersi soprattutto a beneficio della campagna elettorale che verrà, piuttosto che tendere alla costruzione di una governance finalmente in grado di condurre in porto una trasformazione territoriale eccezionalmente complessa.

In tutta questa vicenda, il terreno sul quale l’attuale governo cittadino mostra particolari lacune, è quella della distinzione basilare tra le politiche (l’amministrazione della città) e la politica, al singolare, che riguarda invece la disputa per il governo della cosa pubblica. Diversa consapevolezza ha mostrato il sindaco di un’altra metropoli, Giuliano Pisapia, che ha prima collaborato fattivamente con il commissario Giuseppe Sala alla riuscita di EXPO, distinguendosi successivamente da esso, una volta iniziata la competizione elettorale. Nel far questo, Pisapia ha mostrato comunque di tenere ben diviso, nell’interesse della città, il piano dell’amministrazione, da quello della lotta politica, proponendosi di fatto come leader di scala nazionale.

A Napoli succede l’opposto, con un’intera città, il terzo sistema metropolitano d’Italia, che viene trascinato, per esigenze di messa in scena, all’opposizione del governo centrale, col solo effetto di marginalizzarlo sempre più rispetto ai processi decisionali che contano, riducendone peso e considerazione nelle politiche nazionali, dalle quali le aree metropolitane dipendono grandemente.

Un esempio sono i fondi per il dissesto idrogeologico, andati tutti alle aree metropolitane del centro-nord, in grado di mettere in campo una progettazione credibile, mentre noi eravamo intenti alla scrittura di uno statuto metropolitano tutto incentrato sull’immaginifica gestione dei beni comuni. Nel frattempo, la Facoltà di Veterinaria che si sbriciola in diretta, a beneficio di telecamera, svela tutta la fragilità del suolo sul quale poggiamo i piedi, assieme alla disperata precarietà del nostro vivere quotidiano, e all’inconsistenza di quelle politiche simboliche, della “messa in scena”, alle quali abbiamo scelto di affidare il nostro futuro.

Pubblicato su Repubblica Napoli dell’11 dicembre 2015 con il titolo “La messa in scena elettorale”