You are currently browsing the monthly archive for dicembre 2016.

_dsc9792-fileminimizer

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 28 dicembre 2016

E’ tutto un complesso di cose che mi ha portato stamattina a Ponticelli, prima Federica e Giovanni mi hanno raccontato degli orti urbani fioriti proprio al centro del grande parco pubblico, poi è stato Luca a portarmi una copia del librino “Vita di Aniello Borrelli narrata da lui medesimo”, pubblicato da Napoli Monitor, che è il racconto, lungo tutto il ‘900, di un figlio di contadini di queste terre che diventa operaio, poi dirigente di spicco della sinistra, mentre nasce la Repubblica, e Ponticelli si trasforma in pochi decenni da borgo agricolo a cittadina a periferia.

Atterro a via Argine dalla 162, strada pazzesca, un viadotto ininterrotto che viene giù dai pinnacoli del Centro direzionale, come se la città non esistesse, quasi fosse un inconveniente da scavalcare in fretta, e mi trovo nella Napoli orizzontale, senza il mare e le colline, la pianura di terra e acqua dov’erano i lagni, le masserie, i mulini, i pioppi alti e le fabbriche, e dove il vulcano non sono i Flegrei, ma il profilo imponente del Somma-Vesuvio.

Nel vialone attorno al parco “De Filippo” c’è gente che fa jogging, porta a spasso il cane, all’angolo c’è la camionetta dell’esercito con tre ragazzi in tuta mimetica. Il parco è enorme, nove ettari, come la Floridiana, è una delle opere della Ricostruzione, realizzato negli anni ’80 restò chiuso un decennio, una specie di giardino proibito, e finalmente inaugurato all’inizio degli anni ’90. In realtà, la parte curata del Parco si ferma grosso modo al primo ettaro, con il grande piazzale contornato da una specie di pergolato, una cosa tra Gilgamesh e l’Alhambra. Per il resto, la vegetazione di pini palme oleandri e magnolie è lasciata a sé stessa, e va evolvendosi in boscaglia, i viali e gli arredi finiscono in malora, ed è proprio in questa terra di nessuno che Anna Ascione ha deciso di far nascere il suo laboratorio sociale.

Trovo Anna ad accogliermi all’ingresso del parco, il vento che spazza il cielo in questa mattinata azzurra di dicembre le scarmiglia i capelli biondi sul giaccone rosso, ha gli occhi verdi e un sorriso aperto, contagioso. Anna lavora nel servizio dipendenze dell’Asl Napoli 1, dirige “Lilliput”, il centro diurno semi-residenziale che segue una ventina di giovani, nato nel solco del lavoro di Mario Petrella,  il grande psichiatra che a queste cose ha dedicato tutta la vita, e se n’è andato anzitempo, ai primi di dicembre.

L’accesso agli orti è indicato da una insegna a mosaico, l’hanno realizzata i ragazzi, all’inizio del porticato che si inoltra nel parco, ai lati sono le terrazze coltivate, dove prima era solo sterpaglia. La riconquista faticosa dell’area l’ha raccontata Cristina Zagaria su questo giornale, in un bell’articolo dell’ottobre 2015, quando ci fu l’inaugurazione pubblica, ed è una storia di furti incendi sabotaggi, il lavoro di Anna e dei ragazzi fu contrastato in ogni modo, perché qui la “terra di nessuno” non esiste, Bauman aveva ragione, ai bordi delle città gli spazi vuoti sono alla fine quelli più presidiati e contesi.

Alcune delle terrazze sono coltivate direttamente dai ragazzi, le altre sono date in adozione, ciascuna ad un’associazione, un gruppo, un’istituzione ed è così che intorno agli orti è nata una rete territoriale che, mi dice Anna, “è la vera infrastruttura terapeutica”. Ci sono le scuole pubbliche, con le materne e le elementari del 48° Circolo didattico; gli istituti superiori Calamandrei, Archimede, Marie Curie, Tognazzi-De Cillis; le parrocchie, le associazioni (Arteteca, Pax Cultura, ReMida, Arcobaleno, Strada Facendo, Ardea); e poi Libera, Emergency, l’Associazione Maestri di strada, ed altre ancora. “Intorno agli orti è cresciuta tutta una comunità, ci riuniamo una volta al mese per programmare il lavoro e le iniziative da intraprendere, c’è dentro la gente più diversa, proveniente da tutti i ceti, i lavori, le professioni”.

Gli orti sono davvero uno spettacolo, è un ricamo perfetto di colture contro la terra nera, ora è un trionfo invernale di insalate, cavoli, broccoli, finocchi, cipolle. Antonio, uno dei neo-agricoltori della rete, mi mostra orgoglioso un filare di “lengua ‘e cane”, una varietà di friarielli a foglia stretta, dal sapore particolarmente amarostico. Sotto il portico Carmelo sta dipingendo a colori vivaci un serbatoio metallico arrugginito: nella rete c’è un gruppo di artisti, e mi sembra che nel moggio faticosamente riconquistato, veramente si realizzi una sorta di piccola kalokagathia, l’ideale greco nel quale il bello e il buono coincidono, in questo giardino di umanità ritrovata, sullo sfondo delle torri verticali di edilizia popolare.

“Qui c’è tanta gente diversa, ed è stata l’agricoltura, il lavoro sulla terra a fornire un interesse e un linguaggio comune”. La conversazione con Anna prosegue nel baretto all’ingresso del parco, il luogo è accogliente, ai tavolini un gruppo di ragazze fa colazione, ci sono anziani che leggono il giornale, il barista è gioviale, mi invita ad assaggiare la sfogliata frolla, se non è buona non la pagherò. “I ragazzi di agricoltura non sapevano nulla, ma nella rete è riemersa la cultura contadina di Ponticelli, che la modernizzazione aveva accantonato ma non distrutto, ed ora sono diventati bravi, sono in grado di tirare le porche dritte come si deve, coltivare l’orto si è rivelata innanzitutto una buona disciplina.”

Anna mi mostra una locandina, la mattina del sedici dicembre c’è stata la festa di Natale, con la gente del quartiere, si è mangiato e brindato, allietati dal coro dei bambini del 48° circolo, e dalle musiche dei ragazzi del centro Lilliput, che si sono esibiti insieme all’orchestra del liceo Calamandrei. Per l’occasione ogni associazione della rete ha decorato a suo modo uno degli alberi appena messi a dimora, dono della forestale, e c’è stata anche la lotteria, in palio le cassette con i prodotti degli orti.

Con la rete territoriale, alla fine, Anna lavora per recuperare i suoi ragazzi, ma è evidente che le onde si propagano al resto del quartiere, e tutto parte dalla cura e dal lavoro comune sugli spazi dimenticati di vita. La rete delle associazioni, coi suoi orti, ha recuperato sino ad ora quasi un moggio, poco meno di tremila metri quadri, ma qui ci sono ettari ed ettari da riconquistare, che non sono solo quelli del grande parco pubblico.

Perché il parco “De Filippo” è grande una decina di ettari, ma è a sua volta immerso in un vuoto urbano che si estende per centocinquanta ettari, più di Capodimonte. Un mosaico di incolti, lotti liberi, aree dismesse e spazi verdi, in attesa di non si sa bene cosa. Con la trasformazione edilizia e infrastrutturale rapace, il tessuto di masserie agricole, che ancora nel 1970 era quello settecentesco della mappa del Duca di Noja, è stato in gran parte distrutto, ma la terra è rimasta, ed è quel finto spazio vuoto, alla fine, che costituisce il principale generatore di illegalità, insicurezza, disagio.

In questa situazione di città precaria, perennemente incompiuta, gli orti sociali di Anna potrebbero diventare il seme di un progetto più ampio, per recuperare e ricucire gli spazi, assieme alle relazioni tra gli uomini; per restituire ad ogni metro quadro di terra senso, funzione, dignità. Un progetto nel quale ci sono le istituzioni, faticosamente costrette a lavorare insieme, e le comunità locali, in quella che appare, nel vuoto pneumatico di politiche e strategie, una modalità concreta per rigenerare il territorio, assai più che la tiritera inconcludente sui beni comuni.

Mentre ci salutiamo ci raggiungono Luciano, Corrado, Margherita, tre giovani collaboratori di Anna, lavorano nella cooperativa di educatori che fa parte della rete, le raccontano di non so quale difficoltà, lei se li stringe, li rassicura con la sua ridente nonchalance, a me sembra una forma superiore e necessaria di intelligenza, che la sequenza stupida di resistenze, inefficienze, inerzie riesce appena, per fortuna, a scalfire.

 

pascolo

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 9 dicembre 2016

Il pastore, il gregge, l’agnello: poche attività umane come la pastorizia hanno fornito all’immaginario collettivo, nel corso dei millenni, immagini simboliche altrettanto potenti. La novità è che dopo anni di difficoltà la pastorizia è in ripresa in Italia, ed aumenta anche l’attenzione dei media, con reportage e libri, come quello recente (“Storie di pascolo vagante”, Laterza editore), scritto da Marzia Verona, la ragazza piemontese che dopo la laurea in scienze forestali ha scelto di dedicarsi in prima persona alla transumanza, raccontando giorno per giorno la sua esperienza in un blog assai seguito.

In Campania le cose sembrano andare differentemente: stando ai dati ISTAT, dal 1980 ad oggi il numero dei pastori è diminuito dell’ottantacinque per cento, da ventottomila a meno di cinquemila: dove prima c’erano dieci pastori, ora ne sono rimasti meno di due. La diminuzione del gregge regionale è meno drastica ma comunque significativa, con le pecore che sono diminuite del trenta per cento, le capre del quarantacinque, il che vuol dire centomila capi in meno nel corso di un trentennio.

Per capire come sta cambiando la pastorizia in Campania, niente di meglio che parlare con loro, con i pastori, ma la cosa non è facile, in diversi declinano l’invito, si coglie come una ritrosia ad esporsi. Altri invece hanno accettato di raccontare il loro lavoro, ed allora la prima tappa è a San Mauro Cilento, dove ritorno in un pomeriggio di nuvole scure, spazzate dallo scirocco.

L’appuntamento è all’osteria del frantoio, con Gerardo e Romualdo, due allevatori di capra cilentana, l’antica razza locale, il cui latte ha il profumo della macchia mediterranea e si trasforma, dopo una particolare lavorazione, in un cacioricotta sublime. In questi paesaggi aspri, la capra funziona come una macchina prodigiosa, superando in produttività sia i bovini che gli ovini.

Gerardo è un ragazzo possente, lavorava nell’edilizia, poi con la crisi del settore, assieme alla moglie Donatella ha deciso di cambiare, ha investito tutto nel gregge, con l’aiuto del programma di sviluppo rurale ha costruito l’ovile e un piccolo caseificio aziendale. Ottenere le autorizzazioni dal Parco non è stato facile, le norme paesaggistiche sono arcigne, è stato necessario rivestire interamente le strutture di pietra arenaria, i costi sono lievitati, ma Gerardo ci crede, si è indebitato, e ha deciso andare fino in fondo.

Romualdo è tra i più esperti allevatori del Monte Stella, la sua famiglia vive di pastorizia da generazioni, ha i capelli striati d’argento e parla con una voce possente che riempie il locale. Mi racconta delle difficoltà legate ai controlli sanitari, a causa di una legislazione singolare, che impone alla pastorizia gli stessi standard di un caseificio industriale, ignorando il fatto che le tecniche artigianali di lavorazione, se ben condotte, garantiscono comunque una elevata salubrità, e sono alla base della tipicità dei prodotti.

C’è poi il problema del pascolo, e qui si sfiora l’assurdo, perché la disponibilità di superfici seminaturali, nella rarefazione demografica e colturale del Cilento, è potenzialmente sconfinata, e il pascolamento costituisce la migliore forma di presidio e cura delle aree in abbandono, di pulizia del sottobosco, di prevenzione del fuoco. Ciò nonostante, prescrizioni e divieti abbondano, e fioccano le sanzioni, con il pastore costretto a percorrere una terra sostanzialmente inutilizzata come fosse uno straniero, nei ritagli esigui che gli vengono lasciati a disposizione.

Gustiamo il cacioricotta, con il vino, il pane, i fusilli con i broccoletti, si è fatto tardi, la tempesta è calata, devo rientrare a Napoli, l’indomani ho appuntamento coi pastori del Sannio. In autostrada rispuntano le stelle, cerco di vincere il sonno e penso che alla fine, nel racconto di Gerardo e Romualdo, il lavoro rimane quello delle origini, della Bibbia e dell’Odissea: il pastore è colui che cammina davanti al gregge, alla ricerca quotidiana di pascoli, punti d’acqua e di riparo; che assiste ai parti e medica gli animali feriti. Per fare questo, deve conoscere palmo a palmo il territorio e i suoi abitanti, le regole d’uso, il mosaico delle proprietà; deve essere in grado di stringere alleanze, di prevenire e gestire i conflitti.

Quella che viene fuori, insomma, è una figura tutt’altro che avulsa dalla vita della comunità, e che si aiuta adesso con le nuove tecnologie: smartphone, posizionamento satellitare, la comunicazione sui social. Ciò nonostante, il pastore resta un intruso, un cittadino invisibile alle politiche e alle amministrazioni, una mina vagante, anche se è il suo lavoro a tener vivi paesaggi collinari e montani che si vanno spegnendo, assieme alle tradizioni, le economie, le identità.

La mattina del giorno dopo c’è l’azzurro sulle colline del Fortore, arrivo a San Giorgio in tempo per uscire con Antonio Casiero e col suo gregge di pecore, raggiungiamo il pascolo percorrendo il sentiero in mezzo a un mosaico perfetto di prati, siepi e macchie di bosco. Nei paesaggi più dolci e meno aridi della collina interna, non c’è più bisogno dell’intraprendenza eroica della capra, questo è il regno della laticauda, la pecora bianca dalla coda larga, arrivata qui dal Nord Africa, e selezionata nei secoli attraverso l’incrocio con ceppi locali.  E’ un’eccellenza tipica di queste colline, un animale docile, che produce un agnello dalla carne particolarmente morbida, di gusto delicatissimo, oltre a un ottimo pecorino. Qui il pascolo non è brado, come in Cilento, ma stanziale, e viene praticato su prati polifiti di proprietà delle aziende, seminati al posto del tabacco, e recintati con cura.

Sembra un’isola felice, ma la crisi colpisce anche qui: a San Giorgio La Molara nell’ultimo trentennio il numero dei pastori è quasi dimezzato, mentre i capi, che pure erano raddoppiati dai tremila del 1982, ai quasi seimila del 2000, sono diminuiti del venti per cento nell’ultimo decennio. Antonio mi spiega come l’agnello di laticauda, di qualità superiore, incontri difficoltà sempre maggiori a competere col prodotto estero, che si acquista a tre euro il chilo di peso vivo, quando da noi ne occorrono quasi il doppio per rientrare dei costi di produzione.

Nel pomeriggio si torna in paese, siamo ospiti di Donato Vicario, il decano degli allevatori di laticauda. Visitiamo l’ovile, ci mostra con orgoglio gli arieti e le fattrici, frutto di una selezione rigorosa: la popolazione di laticauda è piccola, cinquemila capi in tutto, la missione di Donato è fare in modo che questa storia preziosa non si esaurisca. Alla fine ci ritroviamo tutti in cucina, attorno al tavolo, con le donne di famiglia, tre generazioni di allevatori, il più piccolo ha undici anni, si chiama Donato come il nonno, assaggia e valuta con competenza la caciotta appena aperta, dice la sua, mentre le signore portano bottiglie di birra fresca, col pecorino sono perfette.

Vengo via con tutte queste storie, c’erano dieci pastori trent’anni fa, ora sono due, ma quella che ho incontrato è gente appassionata del suo lavoro, competente, che si è sforzata di andare avanti. Le razze tipiche pregiate che allevano, la cilentana e la laticauda, sono eccellenze nell’enogastronomia nazionale, hanno un loro albo genealogico, sono un pezzo importante del patrimonio di biodiversità del paese.

“I pastori devono superare l’isolamento, puntare sull’associazionismo, iniziare a lavorare insieme” mi dice Antonio Limone, commissario dell’Istituto Zooprofilattico per il Mezzogiorno, l’ente deputato ai controlli veterinari e di qualità. Vado a trovarlo nella bella sede di Portici, circondata dal bosco di lecci della Reggia, per cercare di tirare le fila del discorso. “Insieme dobbiamo scrivere i disciplinari di produzione, partendo dalle pratiche tradizionali, e controllare che queste regole vengano rispettate. Solo così riusciremo a tutelare i prodotti di qualità della nostra pastorizia”.

Antonio ha ragione, e c’è un’altra considerazione da fare: in Campania i tre quarti della popolazione vive come può, stipata sul quindici per cento di superficie territoriale, nelle pianure congestionate ai piedi dei vulcani. Nella vasta cintura verde appenninica, dal Matese al Cilento, se continua così, non rimarrà nessuno. In questi paesaggi di colline e montagne che si spopolano, sono i pastori tra i pochi rimasti a prendersi cura dell’ecosistema, a tenere viva un’economia, ed è un lavoro importante, nell’interesse di tutti. Va bene quindi codificare le regole di produzione, ma occorre anche un riconoscimento sociale, un atteggiamento diverso delle istituzioni. C’erano dieci pastori, ne sono rimasti due, cerchiamo di non perdere anche loro.

napoli-piccola

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 1 dicembre 2016

La classifica 2016 della qualità della vita pubblicata da “ItaliaOggi” certifica il momento assai difficile per le città del centro-sud: Napoli perde ancora tre posizioni ed ora è al terzultimo posto nella graduatoria delle centodieci città, e anche Roma è in caduta libera, perde diciannove posizioni in un solo anno, piazzandosi all’ottantottesimo posto.

Prima di giudicare se questo tipo di studi abbia senso, se i risultati coincidano con l’esperienza e la percezione di chi le città le vive ogni giorno, è importante comprendere cosa veramente la ricerca si propone di misurare, che è la qualità della vita non delle singole città, ma delle province, cioè di sistemi urbani più ampi.

Detto questo, il primo messaggio che viene dalla lettura della graduatoria 2016 è una difficoltà complessiva che riguarda tutte le grandi città metropolitane del paese, rispetto ai centri di minori dimensioni, la cosiddetta “provincia”.

Milano, Torino, Roma e Napoli si trovano tutte sulla parte destra della classifica, lontane dalle posizioni di vertice, e tutte, con l’eccezione di Torino, perdono colpi, peggiorando visibilmente rispetto all’anno prima.

Anche la Milano scintillante dell’Expo, alla quale molti guardano come la città italiana più dinamica, maggiormente in grado di rinnovarsi, di reggere la sfida con il resto d’Europa. Queste quattro città metropolitane inglobano 663 comuni, nei quali vive il 20 per cento della popolazione italiana, sul 5 per cento appena del territorio nazionale. Si tratta dunque delle aree del paese di massima densità e complessità urbana. All’opposto, per capirci, la città di Mantova, che quest’anno è in vetta alla graduatoria, ha quarantanovemila abitanti, meno del quartiere dove vivo, e tutta la sua provincia ha quattrocentomila abitanti, collocati in modo piuttosto ordinato e distribuito, su un territorio che è il doppio di quello della provincia di Napoli, che ne ospita più di tre milioni.

Insomma, questa classifica della qualità della vita somiglia a un Gran Premio dove accanto alle macchine da corsa gareggiano i caterpillar, ma sarebbe sbagliato dare un giudizio riduttivo e liquidare tutto così, perché è vero che l’Italia da troppo tempo ha smesso di fare politiche nazionali per migliorare la qualità dei suoi sistemi urbani.

Le vecchie province sono state mandate in soffitta, e le nuove Città metropolitane stentano ancora ad assumere un ruolo di guida e coordinamento. Ma la storia non finisce qui, perché c’è il lato più doloroso per noi, ed è la cesura tra il Mezzogiorno del paese, dove secondo la classifica si concentra larga parte del disagio urbano, e il resto d’Italia, dove i sistemi urbani sono comunque in grado di offrire ai cittadini un paniere di servizi ed opportunità almeno sufficiente, se non soddisfacente.

Insomma, Milano e Torino non brillano, ma rimangono pur sempre nel quadrante positivo della qualità urbana, quello dove l’offerta di lavoro, servizi, istruzione, salute, tempo libero è più vicina all’Europa. Roma e Napoli arrancano invece nel quadrante grigio, quello dove prevale la fatica quotidiana del vivere.

Ad ogni modo, il messaggio per Napoli è particolarmente amaro perché la classifica di “ItaliaOggi” è lì a ricordare che il capoluogo non si salva da solo, che il giudizio su di esso non dipende dai luna park sul lungomare, ma dalla qualità delle sue periferie, e di quell’hinterland dimenticato, che comprende il novanta per cento del territorio, e nel quale vivono come possono i due terzi degli abitanti della città metropolitana. Di fronte a questa realtà particolarmente dura Napoli ha due strade, come sempre: rinchiudersi nei suoi confini fisici ed oleografici, o stringere una nuova alleanza con il territorio, con le altre novanta città, dai Lattari al lago Patria, passando per il Vesuvio, costruendolo davvero un governo metropolitano capace di invertire la rotta.