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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 24 luglio 2021

L’appuntamento del G20 ha trovato la città nuda, priva di leadership istituzionale, incapace di raccontare un’esperienza, un progetto, una visione. In una sorta di stridente contrappasso i ministri dell’ambiente hanno approvato tra gli applausi un primo importante documento su decarbonizzazione, smart cities, acqua, suolo e lotta alla povertà, in una Napoli che su tutte queste cose è all’anno zero, con le reti dei servizi, trasporti, verde e manutenzione urbana in stato di avanzata dismissione; e i rifiuti che se non fosse per l’impianto di Acerra e le navi e i treni che li portano via a caro prezzo, assedierebbero ancora le nostre strade. In più, ed è la cosa più preoccupante, l’azzeramento oramai della macchina amministrativa della città, senza la quale nessuna politica di sostenibilità può essere quotidianamente praticata.

Nello squallore del silenzio un ruolo di supplenza l’ha avuto l’arcivescovo di Napoli monsignor Mimmo Battaglia: nella sua lettera alla diocesi ha espresso tutta la sua preoccupazione per un Piano nazionale di ripresa e resilienza nel quale semplicemente “…manca il Sud. Manca il Sud nella sua specificità di questione morale e politica e, quindi, democratica. E se manca il Sud in quanto tale, mancano anche i poveri nella loro drammatica peculiarità”.

Si dirà che sono questioni interne, che col G20 non c’entrano, ma è evidente invece che si tratta proprio dello stesso discorso: il piano “nazional-europeo” come lo definisce l’arcivescovo si colloca pienamente nella famiglia di politiche per la transizione green a scala globale intorno alle quali i 20 ministri a Palazzo Reale stanno discutendo.

Quello che monsignor Battaglia constata è la mancanza nel Pnrr di un cambio di passo, l’interruzione una volta per tutte delle politiche nazionali dell’ultimo quarto di secolo, che hanno finito per premiare i più forti, si tratti della sanità, dell’università o delle infrastrutture, con i fondi europei a fare da debole inefficace correttivo.

Eppure, a leggere i discorsi di Draghi in questi ultimi mesi, risulta evidente come il tema sul quale il presidente del consiglio più stia ritornando è quello della lotta alle diseguaglianze: il fondato timore che l’approfondirsi del solco tra garantiti e precari; l’indebolimento del ceto medio; la marginalizzazione di chi proprio non ce la fa; la rottura definitiva dell’ascensore sociale; l’assenza di prospettive e speranza per una quota ormai maggioritaria di popolazione; lo svilimento del lavoro, tutte queste cose rappresentano ormai la minaccia più grave per le istituzioni democratiche.

Tornando al Pnrr, Draghi ha lavorato per mettere ordine in un documento che appare ancora come il conglomerato di tante (troppe) cose, affidando tutte le speranze, come traspare dalle ultime frasi del suo discorso di presentazione in Senato, ad una fase di implementazione ispirata a onestà, spirito repubblicano, senso del dovere e delle istituzioni.

E’ evidente come le persone di buona volontà siano costrette a condividere queste speranze, ma i problemi posti da monsignor Battaglia rimangono. Tanto più che alle diseguaglianze del passato, acuite dalla pandemia, si aggiunge ora il problema della equa ripartizione dei costi della cosiddetta “transizione ecologica” che, in assenza di politiche redistributive esplicite, colpiranno proprio i gruppi sociali già in difficoltà.

Meridionalismo e gestione sostenibile delle risorse continuano a essere, da Antonio Genovesi in poi, questioni strettamente intrecciate. La costruzione di un ambientalismo indissolubilmente legato alla questione sociale è il lavoro più importante che abbiamo davanti.


Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 6 luglio 2021


E’ successo che dopo un intervento del sottoscritto alla sessione del “Sabato delle idee” dedicata allo stato della città e alle proposte per rimetterla in sesto, altri organi di stampa cittadini abbiano ripreso le cose dette su Bagnoli, come fossero novità, i lettori di questo giornale sanno invece che si tratta di riflessioni che “Repubblica” porta avanti coerentemente da molti anni, l’ultimo ampio reportage scritto con Giuseppe Guida è di un paio di settimane fa.
Nel fine settimana amici premurosi hanno anche telefonato raccontandomi del grande trambusto che ne è seguito sui social, chiedendomi in che modo intendessi replicare, difendermi, contrattaccare, ma non è questo che serve ora, quanto continuare a ragionare.
Il punto è come restituire alla città il vasto territorio dell’ex acciaieria murato, interdetto, sequestrato da un trentennio. Tutte le evidenze sostengono la possibilità in condizioni di sicurezza di aprire al pubblico il parco che già c’è, un parco temporaneo certo, di bellezza e suggestione immensa, dove i processi naturali di ricolonizzazione vegetale hanno creato un nuovo struggente scenario per i monumenti della grande industria che fu.
E’ bene ripeterlo, non si tratta di idee originali, ma della prassi che le democrazie serie seguono per il recupero dei grandi santuari dismessi dell’industria novecentesca, sulla base di una trasparente analisi di rischio, e di una rigorosa e sobria messa in sicurezza dei luoghi.
La strada italiana è diversa (perché il problema non è solo Bagnoli), basata invece sul rispetto di astratti valori tabellari, così che la bonifica – una bonifica cartacea, ideologica, slegata dalla realtà – diventa l’obiettivo dell’azione pubblica, anziché l’effettiva restituzione dei luoghi alla collettività. Un meccanismo estremamente costoso, che non porta a nulla, strutturalmente inceppato, se ancora il report di Confindustria sulle bonifiche in Italia evidenzia come le operazioni portate a termine a scala nazionale rappresentino una percentuale irrisoria, del tutto frizionale rispetto al totale.
A Bagnoli tutte queste cose assumono dimensione parossistica. Ancora di recente, L’Istituto superiore di protezione ambientale ha dovuto bocciare tout court in conferenza dei servizi uno strampalato piano di bonifica redatto da Invitalia, per il lotto adiacente via Bagnoli, che prevedeva lo sbancamento del suolo fino alla falda, quasi sei metri di profondità, senza validi motivi e spiegazioni, al posto di un più sobrio e razionale confinamento degli strati superficiali, una cosa nella quale le strutture vegetali, già all’opera, danno un grosso contributo.
Stesso discorso per i fondali marini, dove si vorrebbe procedere a un vasto, costoso, irragionevole dragaggio dei sedimenti di fondo, un’operazione di enorme impatto per l’ecosistema, col problema totalmente irrisolto poi di come smaltire le immani quantità di fanghi. Inutile dire che pratiche più sobrie e ragionevoli ci sono, come raccontato nel reportage di “Repubblica”, basate sulla stabilizzazione in loco dei sedimenti, anche qui con l’aiuto di piante idonee, prima tra tutte la Posidonia con le sue spettacolari praterie sommerse.
Insomma, è necessario per Bagnoli un cambio di impostazione realistico, rapido, per ricostruire da subito un rapporto con i luoghi che ha semplicemente saltato una generazione. Si tratta di ragionamenti che “Repubblica” da anni offre al dibattito pubblico, continuerà a farlo, capiremo nelle prossime settimane se il vento è finalmente cambiato.

Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli del 12 luglio 2021, foto di Riccardo Siano

Devi vederla dall’alto, dalla strada vicinale che borda la selva antica ai piedi dei Camaldoli, per capire che Pianura non è più un casale, e nemmeno un quartiere, ma una città, che in quarant’anni s’è costruita da sola, riempendo di palazzi la conca verde e le terre scure fertilissime.
Nel passato di questi luoghi non c’è l’industria, come a Bagnoli o a Napoli est, qui l’economia era agricola, e dava da vivere a tutti, con i grandi proprietari e i coloni che ancora in pieno ‘900, regolavano l’uso e il possesso della terra sulla base di consuetudini e usi risalenti a un passato medievale, di sei o sette secoli prima.
Con l’ingresso nella modernità scombinata, il posto dell’agricoltura viene occupato dall’edilizia “fai da te”, la contabilità dell’abusivismo è impressionante: 7.000 vani abusivi vengono realizzati negli anni ’60, 20.000 nel decennio successivo, e altri 32.000, tra il 1981 e il 1991. Così l’antico casale è deflagrato, la superficie edificata è aumentata di quasi 40 volte, dai 14 ettari del 1950, ai 500 circa di oggi, riducendo il paesaggio agrario storico a uno spezzatino desolato di poderi superstiti tra un agglomerato e l’altro.
Nel frattempo, la popolazione di Pianura aumenta di 50.000 unità, sulla spinta di due emergenze epocali: il bradisismo dei primi anni ’70, e il terremoto del 1980. Dai 9.500 abitanti del 1951, si passa ai 60.000 attuali, ma è una stima per difetto, al posto del casale ora c’è una città, completamente abusiva, quella che vediamo stamattina dal bordo della selva, il più vasto quartiere di Napoli per superficie territoriale, il quinto per popolazione.
L’occasione per tornare è una ricorrenza, si festeggia in questi giorni il ventennale della fondazione del Corriere di Pianura, una presenza importante nel quartiere, la tiratura mensile è di 1.500 copie, la comunità di redazione comprende una ventina di persone, insieme condividono la missione ostinata di raccontare e riammagliare le storie e i fatti di questo pezzo di città, per immaginare nonostante tutto percorsi di miglioramento e riscatto.
L’appuntamento è con Augusto Santojanni, uno dei fondatori del giornale, che a Pianura è nato, ha lavorato una vita come medico di famiglia, è stato anche segretario della sezione locale del PCI, proprio negli anni difficili del far west edilizio; dell’evoluzione drammatica di questi luoghi e di queste comunità è uno dei massimi testimoni.
Per il numero del ventennale ha scritto un editoriale bello e sincero, l’incipit è diretto: “A Pianura non è facile vivere. Non lo era quando eravamo un borgo di 10.000 abitanti, ancora di più oggi che ne siamo circa 60.000. Non ci sono teatri, né cinema, né spazi o strutture pubbliche in cui sia agevole svolgere qualsiasi attività sportiva-ricreativa, culturale o del tempo libero. Non c’è neanche una scuola superiore.”
“Eppure” osserva Augusto “a Pianura l’associazionismo ferve: qui è nata la prima associazione anti-racket in Campania, ed è nutrito l’arcipelago di associazioni sportive, compagnie teatrali amatoriali, comitati civici e di carattere religioso, radio libere. Qualche nome: Pianura libera, Sei di Pianura se…, Pianura verde, 80126, Radio onda web, gli Amici di Don Giustino…”.
Insomma, la comunità è viva, anche nella problematicità dei luoghi. Con Augusto percorriamo la scacchiera ortogonale di strade anguste tra i palazzi abusivi di 6, 7, 8 piani, portano il nome di filosofi antichi e scrittori contemporanei, rimani indeciso se si tratta di una versione più congestionata e ammaccata del Vomero, o una replica contemporanea dei Quartieri spagnoli, anche qui c’è un’economia del vicolo vitale fatta di micro-esercizi e piccoli commerci.
La vita ferve, anche se manca lo spazio, quello pubblico innanzitutto, ed allora una delle battaglie dei comitati è stata quella per la realizzazione del marciapiede, assunto a simbolo imprescindibile di convivenza civile minima. Campagne vinte in alcuni casi, come in via Empedocle o in via S. Donato, sembrano dettagli, e invece è a partire da interventi come questi che i luoghi iniziano a cambiare faccia.
Certo non mancano le pulsioni di segno opposto, come nei Quartieri anche qui le forze dell’ordine sono dovute intervenire lo scorso anno, con grande spiegamento di mezzi, e con tanto di comunicato del Viminale, per riaprire alla libera circolazione importanti strade che erano state arbitrariamente privatizzate con sbarre e muretti.
Se il marciapiede è il punto d’inizio, ad una scala più ampia non manca a Pianura un patrimonio territoriale dal quale partire per un possibile riscatto. I poderi agricoli e le masserie superstiti messi insieme fanno più di 200 ettari, e sono orti arborati coi noci, i ciliegi d’alto fusto e i vigneti ancora assai belli: messi in ordine, d’intesa con gli agricoltori, con le risorse del programma di sviluppo rurale, potrebbero dar vita a un grande parco dell’agricoltura storica, monumento vivente di una civiltà rurale lunga duemilacinquecento anni.
Altri 250 ettari di verde sono le selve di castagno e i boschi misti della corona di versanti che cinge tutt’intorno la conca, sono in prevalenza aree demaniali da curare e manutenere, anche per la prevenzione del rischio idrogeologico e degli incendi: una grande foresta urbana, con una rete di sentieri che consentirebbe benefiche esperienze di fruizione collettiva.
Dei cinque parchi della ricostruzione, spazi importanti di salute e socialità soprattutto in tempo di pandemia, quattro sono in disarmo, vandalizzati e non fruibili, a partire dal gioiello del Parco “Falcone Borsellino”, il solo spazio verde in condizioni decenti è il Parco “Attianese”, la riconquista integrale di questo patrimonio pubblico è uno dei primi obiettivi di riscatto di questo immenso quartiere. Come è da valorizzare il grande anello di viali che, a partire dalla stazione della Circumflegrea e da via Pallucci, cinge quasi per intero abitato, strade di impianto razionale, con alberature notevoli di tigli e pini, in buono stato di manutenzione, elementi di una qualità pubblica della quale questo pezzo di città ha disperatamente bisogno.
Fuori dalle cronache, dai simposi degli intellettuali, dalle strategie urbanistiche di grande respiro (nulla di strategico si dice infatti su questo quartiere nemmeno nel preliminare di PUC approntato qualche mese fa dall’amministrazione comunale di Napoli), lontano dalle crisi della movida, apparentemente senza eccellenze architettoniche e storiche, il cratere di Pianura è da sempre derubricato a quartiere abusivo, metterci le mani equivale a smuovere pericolosamente pile di scartiloffi polverosi relativi a condoni edilizi ingialliti e spesso fasulli, sanatorie, ordinanze di demolizioni sopite. Nessuno nell’attuale macchina comunale si prenderebbe mai la briga di mettere ordine in questo sconquasso burocratico.
Eppure, per chi lo attraversa, emerge subito il senso di una comunità attiva, di iniziative in corso, di ambiti urbani ricchi di decoro e di abitabilità. Gli stessi enti pubblici hanno messo in moto, negli ultimi anni, iniziative di rigenerazione e rinnovamento urbano. Come la sostituzione in corso di alcuni manufatti di prefabbricazione pesante, realizzati nel dopo-terremoto, con più dignitosi edifici residenziali e il recupero di nuovi suoli per lo spazio pubblico. Ma anche episodi architettonici meritevoli come la stazione delle Circumflegrea “La Trencia” ristrutturata e riconfigurata da Nicola Pagliara nel 2005 o l’ampliamento del cimitero, su progetto di Guendalina Salimei, Paolo De Stefano e Ebsg, vincitori di un concorso di progettazione del 2008. O la palazzina aggraziata della Casa della cultura, con gli archi catalani, inaugurata nel 2014 a via Grottole. Meno in sintonia con i luoghi appare l’edificio della Municipalità di Corso Duca D’Aosta, progettato negli anni ’80 da Costantino Dardi e Carlo Carreras. Un manufatto che ha insinuato nel centro storico un episodio di fraintesa modernità, un’invasione incongrua tipica di quegli anni, che per di più a rappresenta l’istituzione pubblica. La modernità, e una migliore adeguatezza al contesto urbanistico, sono invece meglio rappresentati dal Villaggio dei lavoratori Italsider di via Campanile, a ridosso di uno dei pochi ambiti urbani costruiti con regolare licenza nel periodo del caos urbanistico napoletano degli anni ’60. Simbolicamente, il lento adeguamento pubblico di questo quartiere si ferma sullo scheletro incompiuto del poliambulatorio, la cui realizzazione, cominciata nel 2002, si blocca poco dopo, generando, in pieno centro, un rudere urbano in cemento armato, immobile da circa 20 anni, divorato dalla boscaglia.
Sulle carte geografiche, Pianura appare, in linea d’aria, distante dai principali poli di servizi, commerciali e per lo svago di Napoli, ma in realtà la linea Circumflegrea, gestita da EAV, garantisce ancora una connessione affidabile e rapida direttamente nel cuore della città, a Montesanto, a partire proprio dalle stazioni “La Trencia” e Pianura. Mentre nell’altra direzione portano fino al mare, con la stazione di Torregaveta. Anche la mobilità su gomma garantisce una certa rapidità negli spostamenti, in particolare verso il Vomero e la Tangenziale, con il raccordo Pigna-Soccavo-Pianura inaugurato nel 1997. In termini infrastrutturali non è poco.
Il racconto di questo quartiere contiene in nuce le cose da fare: un grande programma di riammaglio, riordino, messa a sistema, demolizione (dove necessario), ricostruzione (dove le regole lo consentiranno), di sistematica manutenzione ordinaria, cura urbana, di tutela dei residui agricoli che resistono alla pressione urbana.
Nonostante i collegamenti rapidi, pero, Napoli appare effettivamente lontana e Piazza Municipio ancora di più. Eppure sono proprio le grandi strategie o qualche idea innovativa infilata in un nuovo piano urbanistico a non servire. O a non servire più. Pianura attende una normale efficienza amministrativa che concluda le cose incompiute, riqualifichi quelle da riqualificare e controlli quando c’è da controllare, invertendo il senso di anomia di questi luoghi. La sfida urbana di Pianura può essere ancora vinta.

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