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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 15 agosto 2021
Giovedì pomeriggio, dal Parco archeologico del Pausilypon, dove mi trovavo, il panorama sul Golfo era come al solito spettacolare, ma lo stesso il sangue s’è gelato vedendo la colonna di fumo imponente che saliva ai piedi del Vesuvio. Ardeva il bosco di Massa di Somma, e il pensiero è tornato all’estate drammatica del 2017, quando il fuoco s’è portato via metà delle pinete storiche che adornavano il vulcano.
Questa volta è andata meglio, l’intervento a terra dei Vigli del Fuoco e delle squadre regionali dell’antincendio boschivo è stato tempestivo, le fiamme sono state contenute e spente. Anche se ci aspettano almeno altre tre settimane di passione, il dato è che sino ad ora la Campania nel complesso sta reggendo, seppur con situazioni di locale criticità, soprattutto nelle province di Caserta e Benevento, dove si è purtroppo registrata una vittima.
Situazioni di massima emergenza si sono verificate altrove, nelle isole maggiori, Sardegna e Sicilia, poi in Calabria, ma il fenomeno è di scala continentale. Secondo gli scienziati che gestiscono il satellite europeo Copernicus, il Mediterraneo è diventato in quest’ultimo mese un “wildfire hotspot”, uno dei posti sulla Terra dove gli incendi stanno imperversando di più: tutta una fascia che nella carta del rischio di Copernicus appare colorata da una tetra tonalità rosso-violacea, dalla Sardegna alla Turchia, passando per Marocco, Libano, Albania, Macedonia del nord, Grecia.
Temperature ben al di sopra dei 40 gradi dell’anticiclone africano contribuiscono a sostenere il fenomeno, e sono ancora gli esperti ad affermare con certezza che non si tratta di una punta anomala, ma dell’espressione strutturale, ostile di un cambiamento climatico che non si arresta.
I danni in vite umane, animali e beni materiali sono ingenti. Di fronte alle conseguenze tragiche del fuoco il presidente Draghi ha dichiarato che il governo “… metterà in cantiere un programma di ristori per le persone e le imprese colpite, insieme a un piano straordinario di rimboschimento e messa in sicurezza del territorio.”
Sono le parole che è possibile dire a caldo, ma definire una strategia pubblica per affrontare queste cose è difficile, perché si è chiamati a fronteggiare i guai e le sofferenze dell’oggi, escogitando nel contempo le azioni necessarie a contrastare uno scenario di rischio che si proietta nei decenni e secoli avanti a noi, e gli aspetti contraddittori non mancano.
L’ultimo Inventario Forestale Nazionale che sarà presentato il prossimo autunno, dice che la superficie dei boschi italiani è in continuo aumento: i nuovi boschi coprono una superficie di 515mila ettari a scala nazionale (+4,9% rispetto al 2005). In Campania i nuovi boschi occupano una superficie di 42mila ettari, un incremento del 9,4% rispetto alla rilevazione 2005. E’ la prima volta, da un paio di secoli a questa parte, che la superficie forestale in Italia supera quella coltivata, e c’è poco da rallegrarsi, perché assieme al crollo demografico dei piccoli centri d’Appennino, il bosco che avanza rappresenta l’altra faccia dello spopolamento e della desertificazione antropica.
Questi nuovi boschi nascono orfani, senza qualcuno che se ne prenda cura. Perciò, se vogliamo difendere il suolo e immagazzinare la CO2, prima di piantare nuovi alberi, sarebbe meglio prenderci cura di quelli che già ci sono, ed è un problema non da poco, perché è dalla metà del Novecento che il sistema di gestione forestale è andato declinando in Italia, specie in Appennino, col polarizzarsi della popolazione e dell’agenda politica del Paese intorno a un sistema urbano cresciuto a dismisura.
E’ in questo nuovo “saltus” (le boscaglie degli antichi Romani) post-moderno che l’incendio impazza, e il nostro compito è quello di governare e gestire l’abbandono, che non è un ossimoro, ma una strategia di prevenzione seria, fatta di soluzioni sociali, economiche e agroforestali appropriate. Certo, parole come gestione, cura, prevenzione hanno scarso appeal, non vanno bene per riempire i telegiornali d’estate, ma un discorso laico, senza scorciatoie e slogan facili, è importante continuare a farlo.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 16 novembre 2020
Il Covid non vuole smetterla di scombinare le nostre vite, relazioni, economie, ma il grande vigneto ai piedi del Taburno stamattina sembra proprio non accorgersene, continua a coprire come un mare le colline fino all’orizzonte, in questa estate di San Martino radiosa, che sembra non finire mai. Il foliage – lo spettacolo delle colorazioni autunnali – è emozionante contro l’azzurro, ogni vitigno è un colore diverso della tavolozza, le pennellate gialle sono della falanghina, quelle rosso cinabro i pampini di aglianico, su uno sfondo verde cupo che prova ostinatamente a resistere.
Si conclude oggi nel Sannio, terra di storie lontane e gloriose, dove si concentra quasi metà del patrimonio viticolo della Campania, il viaggio nelle campagne travolte dalla pandemia. Frattanto s’è alzato un vento leggero, nel silenzio le foglie cadono una per volta, con un crepitio secco, come fossero di cristallo. La vendemmia 2020 s’è chiusa, ma il lavoro non è finito per Ildo Romano, uno dei mille viticoltori della Guardiense, stamattina sta dando il concime organico al vigneto, appena quanto basta, così che alla ripresa di inizio primavera la pianta trovi nel suolo scuro l’azoto che le serve. “Con la concimazione ci andiamo piano” mi spiega Ildo “il nostro obiettivo non è la quantità, ma la produzione giusta per fare un grande vino”.
Da tremila anni in queste terre l’agricoltura continua a essere cura della vita, il ripetersi di gesti misurati e precisi, per rinnovare annata dopo annata i cicli biologici che danno nutrimento agli uomini, un lavoro che non può essere fermato, neanche il virus c’è riuscito, anche se i pensieri non mancano, siamo di nuovo alle prese con provvedimenti difficili per contenere il contagio, mai come quest’anno aprile sembra maledettamente lontano.
Qual è il sentimento del popolo del vino in questo momento complicato lo chiedo al presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella, uno dei più prestigiosi enologi nel panorama italiano e internazionale, nel 2019 l’Università del Sannio gli ha conferito la laurea honoris causa in Economia e Management per il suo contributo allo sviluppo della viti-vinicoltura e del territorio sannita. “E’ innegabile che il nuovo aggravamento della situazione ci preoccupa. Nei mesi del primo lockdown abbiamo visto il vino soffrire. Il vino ha un legame fortissimo col genere umano e con le terre che abitiamo, ci accompagna nei nostri momenti di meditazione, svago, convivialità. La grande crisi della ristorazione ci ha colpiti duramente: il ristorante rimane il miglior palcoscenico dei nostri vini, un ruolo che non può essere sostituito dalla grande distribuzione organizzata, o dalle vendite on line, due canali complementari, che pure ci hanno aiutato a contenere il calo di vendite. Eppure” prosegue Coterella “nonostante queste difficoltà, a nome degli enologi italiani devo dire che non abbiamo tutto il diritto di lamentarci. Altri settori dell’economia nazionale hanno sofferto la crisi più di noi. Mentre il vino ha mostrato nonostante tutto una capacità di recupero: nei mesi di giugno luglio e agosto, con la riapertura, abbiamo in parte colmato la perdita causata dal lockdown, con vendite superiori, a parità di periodo, a quelle dei tre anni precedenti.”
Nel racconto di Riccardo Cotarella c’è preoccupazione, ma anche la volontà di guardare avanti: “Anche se ora sappiamo di dover affrontare nuove difficoltà, dobbiamo farci trovare pronti quando questa tragedia finirà. La pandemia ci ha costretti a tornare coi piedi per terra, a pensare nuovi prodotti all’insegna dell’essenzialità. Non potremo più permetterci confezioni costose, bottiglie troppo pesanti, tappi troppo lunghi, etichette disegnate da grandi artisti e cantine progettate da archistar. Il Covid ci ha imposto una profonda riflessione etico-comportamentale, il ritorno a un sistema di vita più sobrio, razionale.”
Nel frattempo Ildo ha terminato per oggi di concimare, gli chiedo quando il calendario dei lavori gli concederà finalmente una pausa, lui gira intorno lo sguardo sull’orizzonte di vigneti, scuote sorridendo la testa, mi dice che ancora pochi giorni, il tempo che le viti si spoglino e vadano in riposo, poi inizia la stagione delle potature, che lo impegnerà per i prossimi tre mesi.
Perché il vigneto che ci circonda, benché appaia quasi come un’unica distesa di 11.000 ettari, è in realtà un mosaico di piccole e piccolissime aziende e proprietà, e in questo sta la particolarità del Sannio rispetto ad altre zone di produzione, la diffusione del modello cooperativo, che è poi un’eccezione, in una terra di individualismo come la Campania. In questo vigneto collettivo l’opera di vignaioli professionisti come Ildo è vitale, perché consente la cura e la coltivazione anche di vigneti ormai privi di un conduttore vero e proprio, proprietà di borghesi, di emigrati, o di agricoltori ormai troppo anziani, strappandoli così all’abbandono.
Ed è proprio questo modello di gestione ed economia capillare, dal basso, che ora il Covid può mettere in crisi, come mi spiega Domizio Pigna, presidente della Guardiense, la cooperativa con sede a Guardia Sanframondi, a sessant’anni dalla fondazione tiene insieme 1.000 soci, 1.500 ettari di vigneto, una produzione di uve di 200.000 quintali l’anno. A preoccupare è la giacenza in magazzino delle scorte di vini di qualità, invendute a causa del lockdown. Con la messa in commercio della nuova annata, il rischio è quello di un eccesso di offerta, con un crollo dei prezzi, e quindi dei redditi delle migliaia di piccoli viticoltori, vanificando il lavoro e le conquiste di anni.
Le soluzioni urgenti che il presidente propone sono due: “C’è bisogno di un provvedimento straordinario che consenta la distillazione di crisi delle giacenze di vini di qualità (DOP e IGP), sulla base di un giusto prezzo, favorendo un riequilibrio del mercato e un sostegno ai redditi delle famiglie coltivatrici, per le quali il vino rimane la principale voce d’entrata.”
L’altra misura suggerita da Domizio Pigna è di portata più ampia, e consiste in una strategia “dall’azienda alla tavola”: sostenere i ristoratori, insieme ai loro fornitori di prodotti campani di qualità: non solo i vini dunque, ma la mozzarella, l’olio, il vitellone bianco, la pasta, il pomodoro. Perché anche l’export in fondo inizia al tavolo del ristorante, è qui che il turista estero entra in contatto con i nostri prodotti. Per questo c’è bisogno di un’alleanza, un patto di aiuto reciproco, da promuovere nei diversi paesaggi della Campania, dal Sannio al Cilento, per tenere uniti i destini di agricoltura, ristorazione e turismo, creare filiere di prossimità, e provare a uscire insieme dalla crisi.
Da Guardia Sanframondi passo il fiume, mi sposto in riva sinistra del Calore, qui ai piedi del Taburno si concentrano le terre della Cantina di Solopaca, un altro pezzo di storia, anno di nascita 1966, la cooperativa associa 600 viticoltori e 1200 ettari di vigneto. Al presidente Carmine Coletta chiedo in che misura lo stare insieme aiuti ad affrontare le difficoltà: “Il fatto di essere una società cooperativa è un punto di forza, ci consente, con la ristorazione ancora ferma, di compensare in parte le perdite, grazie alla vendita del prodotto sfuso, e agli acquisti della grande distribuzione organizzata: se anche i margini di guadagno sono più stretti, è sempre un modo per alleggerire la cantina, movimentare il fatturato, creare liquidità.”
A fare i conti della crisi ci pensa Libero Rillo, presidente del Consorzio Sannio DOP, l’ente di tutela che associa 2000 produttori sanniti, cooperatori e non: dal suo osservatorio privilegiato la previsione, se la situazione di mercato non dovesse mutare, è di un calo del 30% nella vendita di prodotto, 7 milioni di bottiglie in meno rispetto alle annate precedenti, una perdita secca per la viticoltura sannita – vale a dire la principale industria diffusa di quest’area interna, il perno dell’economia locale – intorno ai 20 milioni di euro. “Ci sono diverse considerazioni da fare” mi dice Rillo “la prima è che il vino, purtroppo, non è un alimento essenziale, nei momenti difficili possiamo farne a meno. In secondo luogo, i mancati consumi a causa del lockdown restano una posta rigida nel bilancio, i bicchieri che non abbiamo bevuto non li recupereremo più. Poi c’è la situazione difficile delle piccole cantine, che lavorano soprattutto con la ristorazione, con prodotti di fascia medio-alta, quella maggiormente colpita dal calo dei consumi. Si tratta di aziende a carattere familiare che, a differenza delle grandi cooperative, hanno minori opportunità di compensare conferendo alla grande distribuzione.”
Alla fine, quello che ti colpisce in questa valle, incontrando il popolo del vino, parlando coi suoi leader, è il fatto che pure in mezzo alla bufera, nessuno di loro si è arreso. C’è una richiesta di aiuto, certo, per non vanificare mezzo secolo di investimenti e conquiste che hanno fatto crescere un intero territorio, ma anche la convinzione che bisogna continuare a darsi da fare, con le proprie forze, che non è possibile fermarsi proprio adesso.
“Nei miei giri porto sempre il Sannio come esempio” mi dice Riccardo Cotarella “nei dieci anni di lavoro qui ho scoperto una terra di viticoltori attenti, generosi, disponibili a un lavoro continuo, certosino di miglioramento del prodotto, senza paura di intraprendere nuove sperimentazioni. E’ una parte di Sud che in pochi decenni è riuscito a diventare una pietra miliare nella viticoltura italiana, ed è questo patrimonio di ricerche e conoscenze il tesoro vero dal quale ripartire dopo la pandemia.” Il sole adesso cala dietro le colline, la valle è serena e subito rinfresca. “Che ti devo dire” conclude Ildo sorridendo dietro i baffi da moschettiere “anche da questa disgrazia dobbiamo tirare fuori una grazia, siamo fatti così, ostinati, un po’ matti, ci nascono le idee e dobbiamo giocarle”.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 ottobre 2020
Nel viaggio nelle campagne sotto la tempesta del Covid resta da capire cos’è successo al nostro ecosistema più singolare, la Penisola sorrentina-amalfitana: un ramo di Appennino che ha sbagliato strada e s’è messo di traverso in mezzo al mare: un paesaggio di boschi rocce e terrazze che è innanzitutto montagna e fatica, poi certo lì giù c’è anche il mare, a rendere tutto unico, irripetibile.
Su questi monti, per tenere al loro posto i suoli vulcanici fertilissimi, assai instabili sulla roccia calcarea, ed evitare che l’acqua li porti via, da duemila anni l’uomo costruisce terrazzi, un lavoro durissimo iniziato nell’antichità, proseguito nel Medioevo, e poi ripreso in epoca moderna, coi Gesuiti nel diciassettesimo secolo, poi con la produzione e l’esportazione degli agrumi su vasta scala, dall’800 sino ai primi decenni del secolo scorso.
Quest’agricoltura storica ha costi di produzione assai elevati, è difficile da mantenere, ma ha trovato nuovo respiro e possibilità di futuro in una parola difficile, che è “multifunzionalità”, una delle idee guida della politica agricola comunitaria, significa che il reddito dell’azienda agricola non viene più solo dalla produzione primaria, ma anche dall’ospitalità turistica, l’enogastronomia, la cultura, la cura della persona e la vita all’aria aperta, con il paesaggio che diventa il motore di tutto.
E’ un modello di agricoltura nel quale – mi dice Giorgio Lo Surdo, storico direttore di Agriturist, la prima associazione di agriturismo nata in Italia nel 1965, ora lavora all’Ufficio studi di Confagricoltura – l’Italia è leader in Europa, ma l’impatto dell’emergenza Covid è stato durissimo: il settore agrituristico, che avrebbe dovuto vivere nel 2020 l’anno del boom e della definitiva consacrazione, ha conosciuto invece con il lockdown un crollo del 71%, che significa un calo di fatturato di un miliardo e mezzo in confronto al 2019.
“Rispetto al turismo convenzionale, l’agriturismo si caratterizza per una percentuale più elevata di ospiti stranieri, che sono il 60% circa delle presenze totali. Quando l’Italia ha deciso il confinamento stava peggio degli altri. Poi, quando abbiamo riaperto, la situazione si era rovesciata, era l’Italia a essere circondata da Paesi tutti colorati in rosso. Il risultato è che la quota di stranieri si è quasi azzerata, un limitato recupero c’è stato, con un aumento delle presenze italiane del 10-15%, che non è comunque servito a evitare la caduta.”
Di tutte queste cose parlo con Vittoria Brancaccio, sotto le pagliarelle del giardino del suo agriturismo “Le Tore”, un rifugio per l’anima in mezzo agli ulivi e le colline dolci di Massa Lubrense, la luce è cambiata, le foglie dei grandi noci sugli antichi terrapieni attorno alla masseria settecentesca virano al giallo e all’arancio, e tutto è sospeso in un riverbero di foschia dorata.
Il volto di Vittoria è stanco, con la riapertura a giugno l’ospitalità è finalmente ripresa, ma i dati delle presenze confermano i numeri di Confagricoltura, sono meno di un terzo rispetto all’anno passato, e sono stati comunque mesi di lavoro assai duri. “Quando abbiamo capito che i nostri ospiti avrebbero avuto difficoltà a venire, abbiamo deciso di essere noi in qualche modo a raggiungerli”. In fretta e furia Vittoria con il suo gruppo di lavoro ha organizzato una piccola Amazon della qualità, i barattoli preziosi con i pomodorini pelati, le confetture e i succhi di frutta, le bottiglie di extravergine profumato sono stati inscatolati e spediti in Italia e nel mondo, o caricati in auto verso Napoli, con un flusso regolare di consegne, dimostrando una volta di più che la Penisola resta pur sempre un quartiere verde della grande area metropolitana.
Ascolto il racconto di Vittoria, mentre i cubetti croccanti di frutta della macedonia sprizzano nel cervello ricordi e sensazioni lontane, il sapore dolce-acido elegante delle annurche che ho visto arrivando sulla paglia tra i filari, i chicchi di uva fragola sui tralci dietro il casale, e la polpa profumata di certi piccoli meloni giallo-verde, sfusati e grinzosi, che riposano appartati nell’orto.
Ora Vittoria mi racconta dell’iniziativa a cui tiene forse di più, la scuola di potatura dell’olivo che si è tenuta qui a “Le Tore” lo scorso settembre, un bell’esempio di multifunzionalità, perché è stato l’oliveto dell’azienda il laboratorio pratico dove uno dei massimi esperti in Italia, Giorgio Pannelli, è venuto dalle Marche per insegnare sul campo, a una sessantina di partecipanti, l’arte di modellare gli alberi affinché crescano equilibrati, facili da gestire, producendo olive di qualità. Tutto all’insegna della sicurezza, a ogni partecipante il suo olivo, con il sesto di impianto di due metri a garantire il distanziamento.
“L’olivo” mi spiega Pannelli “è un antico compagno dell’uomo, è con lui da millenni, e ha pure lo stesso numero di cromosomi. Se ne abbiamo rispetto, se non lo stressiamo, riesce ad adattarsi a tutto, tranne che all’eccesso d’acqua. E’ un campione di resilienza, e noi possiamo aiutarlo, se riusciamo a comprendere la specificità degli ambienti in cui è chiamato a vivere – il clima, la morfologia, il suolo – lasciando perdere la smania di semplificare e intensivizzazione tutto, alla ricerca del massimo profitto.” Nelle parole di Pannelli la resilienza e l’adattamento alle condizioni reali delle nostre colline e montagne sono possibili a patto di comprendere e accettare la complessità, ed è una lezione non da poco, al di là degli ulivi.
Con la macedonia frattanto è arrivata dalle cucine anche la torta alla crema con le mele preparata da Anna, la cuoca, un’esperienza mistica, mentre il racconto in giardino prosegue, e Vittoria mi dice come, grazie a tutte queste attività, sia riuscita a garantire, anche in questa annata difficile, il lavoro a tutto il personale dell’azienda, e finalmente si rilassa un po’, e sorride.
“Una cosa che ho capito nei mesi di confinamento” continua Vittoria “è che Massa Lubrense dovrebbe essere studiata come modello di insediamento ideale per il dopo-Covid, i 12.000 abitanti vivono distanziati in una quindicina di frazioni sparse sui colli, il livello dei servizi e dei collegamenti è tutto sommato soddisfacente, un esempio è la scuola primaria rimasta aperta nella piccola frazione di Torca, non distante da dove ci troviamo, le giovani famiglie possono in qualche modo organizzare la loro vita, e la demografia è in crescita negli ultimi decenni.”
Questo modello tiene a patto che la campagna rimanga viva, che il paesaggio non si spenga, e qualche preoccupazione in realtà c’è. “In mezzo a questo sconquasso dell’economia qui in Penisola qualcosa sta succedendo” mi dice Vittoria, e il tono di voce si abbassa “grandi proprietà agricole potrebbero passare di mano, una specie di “land grabbing” invisibile. Qui a Massa è un po’ diverso, la proprietà terriera è più frammentata, è ancora in mano a famiglie che continuano, in mezzo a mille difficoltà, a curare le terrazze, gli orti e gli arboreti. Mi chiedo cosa farei se mi proponessero di vendere, ma questi sei ettari sono tutta la mia vita, è il mio lavoro, non posso farne a meno.”
Non c’è tempo per i pensieri, ci raggiungono per il pranzo altri amici, Massimo Ricciardi decano dei botanici napoletani, Vittoria s’è laureata con lui, e poi Riccardo Motti, curatore del magnifico Orto botanico di Portici, e Mauro Fermariello, dopo la laurea in agraria ha seguito la passione per la fotografia, e collabora da Milano con le riviste scientifiche e le testate di mezzo mondo. Lo chef è Raffaele Sacchi, che divide con Vittoria, oltre che la vita, l’avventura de “Le Tore”, è ordinario a Portici, un riferimento nella scienza delle produzioni alimentari, ma quello che conta oggi sono le sue candele ai pomodorini e basilico, spazzate via in un attimo.
Nel frattempo s’è fatto buio, al ritorno, passando da Sorrento, un ultimo sguardo a Piazza Tasso e Corso Italia, la cittadina va spopolandosi, non è l’autunno ma la chiusura uno dopo l’altro dei paesi europei, siamo di nuovo in emergenza, il senso di precarietà è forte, e la domanda è fino a che punto la città che attraverso, uno dei brand del turismo globale, sia consapevole dell’unità di destino coi paesaggi rurali che l’attorniano, della loro bellezza fragile, del lavoro lassù di persone come Vittoria che ogni giorno ci credono, come gli olivi resistono, e lavorano nonostante tutto per farcela.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 6 settembre 2020
E’ la tappa del viaggio più complicata, perché riguarda le conseguenze della pandemia su aspetti del territorio rurale meno scontati, che non riguardano la produzione di alimenti, i cicli naturali e il paesaggio, ma la capacità di tutte queste cose di curare le persone, di riequilibrare le vite, offrire opportunità di riscatto.
Un esempio è nella campagna dissestata tra Napoli e Caserta, a Succivo, il Casale di Teverolaccio, dove i ragazzi di “Terra felix” hanno recuperato il complesso cinquecentesco, coi suoi orti e giardini, e usano l’agricoltura e la cura della terra come strumento per assistere l’infanzia a rischio, i soggetti deboli, le vite ferite, in credito col destino.
L’impatto del lockdown su questa delicata macchina sociale è stato pesante. “E’ il momento più difficile della vita ventennale del Casale” mi dice Paola Pascale, uno dei motori della cooperativa “All’improvviso abbiamo dovuto interrompere tutti i progetti, il lavoro con le scuole, sospendere l’attività della Tipicheria, il punto di ristoro che ci garantiva un po’ di autofinanziamento.”. Anche gli orti sociali affidati agli anziani, è stato necessario chiuderli precauzionalmente, qualche nonnetto ha pure tentato di scavalcare nella smania di accudire il proprio pezzetto di terra. Da allora” mi dice Paola sorridendo “fotografiamo ogni giorno gli orti, e inviamo la foto ai conduttori”.
Certo, la cooperativa sociale ha usufruito della cassa integrazione per i dipendenti, ma comunque s’è arrestato il lavoro dei volontari e degli obiettori di coscienza. E s’è fermato il progetto con il Ministero dei beni culturali per il recupero dei bambini fragili, utilizzando come laboratori gli orti museali creati nell’Anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere, nell’area archeologica di Pompei, nel Real Sito di Carditello.
“Abbiamo rischiato brutto” mi dice ancora Paola “ma ce l’abbiamo fatta. Ci ha aiutato la vendita dei prodotti, le conserve di pomodoro biologico coltivato sul fondo fuori le mura, e le bottiglie di asprinio dai filari di vite maritata simbolo di questa terra. Un momento emozionante è stata l’ospitalità alle classi di bambini coi loro maestri, che hanno potuto incontrarsi qui all’aperto, nei giardini del Casale, per festeggiare insieme la chiusura dell’anno scolastico”.
Alcuni progetti del Casale sono stati finanziati dalla “Fondazione Con il Sud” ed è al presidente, Carlo Borgomeo, che chiedo quanto il terzo settore si è rivelato fragile di fronte all’emergenza. “Non è il terzo settore in sé ad esser fragile” spiega Borgomeo “in molti casi si tratta di realtà ben strutturate, quello che è delicato è piuttosto l’oggetto delle attività, che sono le relazioni umane. Questa crisi” osserva il presidente “ci ha imposto un capovolgimento di paradigma. Prima pensavamo che le attività di cura alla persona, il welfare, fossero una conseguenza dello sviluppo economico. Ora sappiamo che è il contrario: è la capacità di valorizzare e proteggere le persone la precondizione di ogni percorso di sviluppo. C’è un punto sul quale le diverse scuole economiche sono d’accordo: la centralità del capitale umano. L’esperienza del Casale di Teverolaccio nella periferia difficile tra Caserta e Napoli” continua Borgomeo “è di enorme importanza per la rinascita del territorio, assieme alle altre che la Fondazione sostiene a Messina, Cagliari, e a Napoli, dove i ragazzi della Sanità gestiscono splendidamente le Catacombe di San Gennaro. E’ con questi strumenti che possiamo arrestare lo svuotamento di quartieri e territori, spezzare i flussi centrifughi che portano via le persone.”
Il rapporto tra abitanti e territorio del quale parla Borgomeo era pure il cruccio di Manlio Rossi-Doria, ed è tema ancora caldo, se con la pandemia si ripropone la necessità di un riequilibrio, ora che la città densa si è fatta pericolosa, intellettuali come Boeri e Arminio auspicano uno spostamento d’uomini verso i piccoli centri, che poi sarebbe un altro modo per il territorio rurale di venire in soccorso alla città, di curarne i mali.
Per seguire questa traccia, dall’Appia mi sposto a nord-est, sulla Casilina, la consolare più bella, coi filari d’alberi che la seguono ancora, come nel ‘700; in tre quarti d’ora sono a Pietramelara, dopo Riardo, nella media valle del Volturno, il distretto verde delle acque minerali. Mi aspetta Francesco Sabatino, agronomo, una lunga carriera nei servizi regionali di sviluppo agricolo, tiene un blog seguitissimo sulla storia e la cultura di questa terra (“Scribacchiando per me”), cinquecentomila contatti negli ultimi anni. Ci arrampichiamo per il borgo antico, un piccolo gioiello, fin su la torre, dall’alto si conferma la sensazione di quando arrivi: un senso d’ordine, di decoro che permea il paesaggio, nella parte abitata come in quella rurale.
“Qui le aziende agricole sono ancora vitali” mi dice Francesco “gli agricoltori hanno conservato un legame forte col territorio, ci sono allevamenti bufalini che producono in modo sostenibile, all’interno di un ciclo agronomico equilibrato”. Il versante nord del Monte Maggiore domina il paese, il manto fresco di boschi è intatto, proprio come lo vedeva un antico sannita. I boschi sono curati come un salotto, con Francesco visitiamo i ruderi di una masseria romana ai bordi della foresta, con un dedalo di locali sotterranei a volta, e tutt’attorno le mura ciclopiche.
Pietramelara è una cittadina ordinata, immersa nel verde, gli abitati a scacchiera potrebbero essere quelli di un quartiere satellite di Monaco o di Baltimora, la demografia è sana, gli abitanti sono 4.700, sono aumentati del 15% negli ultimi trent’anni, e raddoppiano quasi ogni d’estate, quando tornano gli emigranti dalla Svizzera; c’è una borghesia colta e articolata, e siamo solo a 45 minuti dal centro di Napoli. Eppure nel racconto di Francesco cogli accenti di preoccupazione.
La cittadina è cresciuta di venti volte nell’ultimo cinquantennio, ma il piccolo borgo medievale s’è svuotato. Lungo la stradina deserta una voce filtra da un uscio a pianterreno, è un’anziana professoressa di Napoli, col marito hanno preso casa qui vent’anni fa, lei accudisce una ventina di gatti, esprime delusione “Avevamo tante aspettative, poi abbiamo visto la vita sociale poco a poco affievolirsi, i negozi chiudere, il centro storico s’è svuotato, restiamo noi, con qualche famiglia di locali e di immigrati rumeni”.
Insomma in posti come questo si vive bene, la riserva di senso civico è una risorsa importante, eppure avverti la mancanza di una visione, di una strategia, senza la quale la qualità sociale si sfibra in un lento declino.
Potrebbero cittadine come Pietramelara contribuire al riequilibrio post-Covid del quale si parlava prima? Evitando gli errori del passato, agendo con misura, usando il patrimonio abitativo che c’è, senza la bulimia speculativa del piano casa, evitando di sfasciare un paesaggio di qualità che la comunità locale è riuscita a preservare? Forse si, se recuperiamo una capacità di coordinamento che s’è persa, ora che le decisioni si prendono tutte a scala municipale, dove il territorio lo vedi troppo da vicino, ti interessa solo casa tua, e il comune confinante è un avversario; o a scala regionale, dove il territorio non c’è più, si dissolve in narrazioni astratte, mentre è il livello intermedio che manca – quello comprensoriale, che tiene insieme le città, le campagne e le reti di collegamento – liquidato in fretta con la riforma sbagliata delle province.
Sono questioni difficili, ma il viaggio deve chiudersi, ed allora riprendo la Casilina, poi la Venafrana verso il Matese, la montagna che si spegne, dal 1960 la popolazione si è dimezzata, è a Pratella che ho appuntamento con Antonio Maione, sacerdote, docente, psicoterapeuta, in largo anticipo sui tempi ha innescato un’esperienza di ripopolamento venendo a vivere qui, in un villaggio disperso ai piedi del massiccio. Antonio è una figura importante del cattolicesimo napoletano, le sue prese di posizione, le sue omelie nel segno del Concilio hanno a volte destato polemiche e contrasti, il solo torto è stato probabilmente quello di dire le stesse cose di papa Francesco, con cinquant’anni d’anticipo.
Il suo lavoro prosegue qui, ha restaurato alcuni casali abbandonati, ripreso la sistemazione e la coltivazione delle terre dove solo il bosco avanzava, e così la sua opera pastorale si svolge potando i tralci di una vigna, o mettendo a dimora un nuovo pollone d’olivo.
Un po’ alla volta una piccola comunità di cittadini lo ha seguito, ha preso casa e terra, sono docenti, ricercatori, professionisti, artisti, imprenditori. “Mettere insieme questa decina di ettari è stato difficile” mi dice Antonio mentre sediamo nella torretta sul tetto che domina a perdita d’occhio la vallata. “E’ stato necessario contattare una sessantina di micro-proprietari diversi, in un lavoro paziente di ricucitura e ricomposizione della terra”.
Gli chiedo perché la scelta di continuare il suo lavoro in un luogo ai margini, lontano dalla metropoli. “La città è un ingranaggio che troppo spesso non riconosce più alle persone la capacità di costruire in autonomia un proprio progetto, un percorso creativo di vita. Anche gli spazi sociali, pubblici, per un’interazione autentica si restringono. Un momento di lavoro sulla terra, con i suoi cicli e i suoi tempi, può aiutare le persone a riprendere contato con sé stesse.”
Perché l’idea di Antonio non è la scelta romantica, la fuga verso un countryside idealizzato. Secondo lui per ricostruire un senso di vita bisogna mettere insieme, più che contrapporre, i valori autentici dalle città e quelli dello spazio rurale, in una sintesi come la chiama lui “r-urbana”: un modo per affrontare i problemi della città e quelli della campagna, in questi tempi nuovi dopo la pandemia, dove i vecchi riferimenti non valgono più.
Ad ogni modo il progetto cresce e si diversifica, ne parlo con Costanza D’Elia, insegna storia contemporanea all’Università di Cassino, è una piccola donna normanna gentile e determinata, ha preso anche lei casa nel micro-borgo di Pratella, e qui ha fondato una casa editrice, si chiama “officinadifuturo”, che muove ora i primi passi. “Mi raccomando” dice “fai capire bene che non è il ritorno alla campagna, ma un percorso verso il nuovo, un viaggio verso la persona”.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 26 agosto 2020
L’appuntamento con Peter è a Oliveto Citra, il tragitto della superstrada verso l’Alta Valle del Sele non lo ricordavo così, una strada-paesaggio fantastica, attraverso uno scenario medioevale di colline vergini con boschi a perdita d’occhio. Quando in paese ci affacciamo dal belvedere che domina la valle, tra i Picentini e il gruppo austero dei Monti Eremita-Marzano, al confine con la Basilicata, la veduta mozzafiato ti dice che questo è uno dei pezzi di Campania più belli, che l’Italia è uno strepitoso museo sotto il cielo, proprio nei posti di margine, quelli che frequentiamo meno.
Peter Hoogstaden è un ingegnere olandese che proprio non riesce a invecchiare, ha studiato ingegneria agraria a Wageningen, da piccolo è venuto in Italia con l’idea di fare il pianificatore, strada facendo si è appassionato al turismo sostenibile, il piacere di scoprire i paesaggi rurali camminando. Vent’anni fa quest’idea è diventata impresa, ed è nata Genius Loci, un tour operator che accoglie, assiste e guida turisti da ogni parte del mondo, portandoli sui sentieri lontani dal caos, di un’Italia che molti, troppi connazionali non conoscono.
Ha lavorato duramente Peter, si deve molto al suo impegno se il Sentiero degli Dei è diventato “il sentiero più famoso d’Italia”, ma lui non si ferma, è sempre alla ricerca dell’ultimo angolo poco conosciuto che vale la pena di vivere, è un inventore di paesaggi, nel senso etimologico del termine, quello di dare nuovo significato e valore a luoghi che magari sono lì, sotto gli occhi di tutti, da qualche migliaio di anni.
Se la pandemia ha colpito pesantemente l’intero settore turistico, l’impatto è stato particolarmente duro per i segmenti che si rivolgono al pubblico straniero, che in quest’estate difficile è venuto completamente a mancare. Stagione compromessa, ma Peter non si è fermato, e l’innovazione cui sta lavorando ora è quella di proporre questo turismo diverso al pubblico italiano, un invito a riappropriarsi del Paese, rimanendo magari più vicini a casa propria, senza rinunciare a vivere comunque esperienze intense, sorprendenti, difficili da dimenticare.
E’ per vedere Peter all’opera che sono venuto, per capire come fa: stamattina a Oliveto Citra deve incontrare un gruppo un po’ speciale di persone che a diverso titolo stanno lavorando per far vivere e conoscere questa valle fuori dal tempo, ma che pure il tempo e la storia hanno profondamente segnato, l’epicentro del sisma tremendo del 1980 è su quegli altopiani calcarei, appena dietro le cime silenziose che ci circondano.
Ma la Ricostruzione qui il paesaggio non l’ha distrutto, la vista sulla valle è ancora un quadro settecentesco, un mosaico mozzafiato di coltivi, boschi, filari, tutto curato e coltivato, le case nuove sparse nella valle ci sono, ma nascoste pudicamente nel verde e quasi non le vedi.
Nella minuscola piazza-salotto del paese, con i platani potati ad arte come eleganti pensiline verdi, il monumento ai caduti, gli anziani sulle panchine all’ombra che ci guardano, ci viene incontro Carmine Pignata, è il sindaco di Oliveto, medico, con lui parliamo della difficoltà di tener viva qui una comunità di 3.800 persone, ci parla dell’importanza dello stabilimento per la lavorazione del pomodoro che la Mutti ha acquisito da pochi anni nell’area ASI lungo il fiume, sono posti di lavoro preziosi, l’agricoltura e il turismo restano importanti, ma senza un’economia diversificata fatta di manifatture e servizi questi luoghi non reggono.
Ora il gruppo si completa, ci raggiungono Marzia Spera, geologa e docente, con lei sono Tiziana, Francesca, Rosalia, Massimo, Umberto, tutti soci di “Mefitis”, l’associazione che lei ha fondato, che porta il nome della dea tremenda e misteriosa che da tremila anni veglia sulle mofete, le fonti naturali di gas tellurici che sgorgano dalle viscere della terra. Nel territorio di Oliveto ce ne sono una decina, e su questa singolarità Marzia ha costruito un progetto di visita e conoscenza, lungo un itinerario che ti porta a esplorare buona parte della valle maestosa.
Dai margini del borgo ci inoltriamo lungo il sentiero bordato di querce, fin giù al fondovalle, tra oliveti ben curati, macchie di bosco e filari, campi dorati dalle stoppie di frumento, ruderi silenziosi di abitazioni rurali, con le pietre coperte di licheni.
In questo paesaggio-giardino, dove il presidio agricolo tenacemente tiene, i manufatti storici sono tutt’uno con la natura, come l’acquedotto con gli archi aggraziati in pietra che alimentava la cartiera; e la piccola chiesa quattrocentesca di Santa Maria delle Grazie, ai margini del borgo, con l’immagine della Vergine col Bambino, insolitamente ritratta coi seni scoperti e una corona turrita, che sono poi gli stessi attributi di un gruppo di antiche divinità (la Grande Madre Cibele, la Dea Madre dei Cretesi) della quale la stessa Mefitis potrebbe far parte.
La mofeta che ora incontriamo sperduta nel verde e il silenzio è un laghetto d’acqua gelata ribollente, il colore è lattescente, l’odore pungente di solfuro. Tutt’attorno il suolo è spoglio, incrostato di depositi minerali, solo poche piante specializzate, come il giunco, riescono a crescere, l’atmosfera è sospesa, le immagini dantesche affiorano alla memoria, e capisci perché nei millenni, gli italici prima, i romani poi, abbiano stabilito questi come luoghi di culto: e perché Mefitis (“colei che fuma”, “colei che sta in mezzo”) sia stata la dea della fertilità femminile e dei raccolti, della salute recuperata, e del passaggio tra gli stati diversi della vita, con le acque che guariscono dalle malattie, e il mantello invisibile di anidride carbonica che può invece stordirti e ucciderti.
Tutte queste cose le racconta Marzia, con competenza scientifica (come geologa ha collaborato a lungo con l’Osservatorio vesuviano nello studio e monitoraggio di queste mofete), ma anche con momenti di immedesimazione teatrale, rituale, durante i quali quasi trasfigura nella sacerdotessa dell’antico culto, e comprendo allora cosa sia il “turismo esperienziale” che lei intende proporre, dove non c’è solo lo “storytelling”, il racconto, ma anche lo “story-living”, il rivivere in questi luoghi millenari, esperienze e sensazioni che i nostri progenitori devono aver sicuramente provato.
Il viaggio prosegue, con le mofete che assumono conformazioni diverse, quasi fossero manifestazioni cangianti della dea: fredde acque pullulanti all’interno di inghiottitoi di roccia calcarea, pozze di fanghi gorgoglianti o anche – ed è la forma più impressionante – pozzi asciutti di gas, dove il flusso venefico lo avverti dal sibilo tra le rocce, l’aria che vibra, l’odore e la desolazione nuda che c’è intorno.
E’ il momento di tirare le fila, spontaneamente all’ombra di una farnia ci disponiamo in circolo, oltre a Peter, Marzia e gli amici di “Mefitis” sono con noi Alessandro Di Muro, docente di Storia medievale all’Università della Basilicata che studia questi territori da anni, e il presidente dell’Oasi Regionale “Foce Sele e Tanagro”, Antonio Brescione.
La domanda è una sola: come può un progetto come quello di Marzia e “Mefitis” crescere e svilupparsi, diventare elemento di un’offerta turistica stabile e strutturata? Nella discussione sotto gli alberi i diversi elementi di una possibile risposta iniziano a emergere con una certa chiarezza.
Alla base di tutto, l’investimento principale riguarda il capitale umano, la formazione di attori consapevoli e qualificati, ed è il lavoro che Marzia e l’associazione “Mefitis” cocciutamente conducono da anni. Per far questo, anche lo studio e la conoscenza dei luoghi, che la ricerca geologica, storica, sociale costruisce nel tempo, è un carburante che deve uscire dai libri, e alimentare il più diffusamente possibile le menti e i discorsi delle persone
Così come è importante il sostegno convinto, non episodico dei poteri pubblici. Marzia e “Mefitis” pensano alla creazione di un Parco delle mofete, e guardano anche al “Contratto di fiume” che Antonio Brescione con l’Oasi Sele-Tanagro sta promuovendo, il tentativo di cucire insieme le esperienze innovative lungo l’intero corridoio fluviale, dalla sorgente alla foce, cercando di superare in questo modo egoismi e chiusure municipali, che pure esistono.
Poi ci sono le cose che Peter Hoogstaden sostiene e pratica da anni. Il turismo – e quello che lui ha in mente è sempre un’attività rispettosa, attenta a non consumare la qualità sociale, le risorse dell’ambiente e del paesaggio – è una cosa che riguarda gli abitanti, prima che i turisti: la consapevolezza e la cultura dei luoghi di vita, prima ancora dei flussi di presenze e dei fatturati.
Insomma, un tour operator può certamente aiutare a far nascere quelle che Riccardo D’Acunto – l’economista già docente di Sociologia del turismo alla Sapienza di Roma, che accompagna Marzia e “Mefitis” nel loro percorso – chiama le “micro-reti” di servizi che servono per il trasporto, l’accoglienza, il ristoro, la guida e l’intrattenimento degli ospiti, ma l’energia, la passione e la perseveranza deve mettercele il territorio, con la sua comunità, i suoi amministratori.
Una conclusione, all’ombra della grande quercia, la trova alla fine Umberto, avvocato, e socio di “Mefitis”: c’è una parola, dice lui, che racchiude le cose che abbiamo detto e ascoltato nel viaggio di stamattina. Questa parola è “insieme”, che è poi l’unica strada per uscire dalla crisi.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 11 gennaio 2020
Dove venivano le troupe di mezzo mondo a documentare l’orrore, ora volano gli aquiloni. Li hanno dipinti gli studenti del Liceo artistico di Napoli, con i loro docenti, per festeggiare il completamento dei lavori di messa in sicurezza della Resit, la madre di tutte le discariche, spersa nelle campagne di Giugliano. Il commissario Mario De Biase ha chiuso il suo mandato, deve consegnare le chiavi del parco verde di sei ettari sorto al posto della discarica, ora completamente in sicurezza, il problema è che non sa ancora a chi.
Sono venuti un sabato mattina d’azzurro i ragazzi dell’Artistico, hanno lavorato come matti, e ora montano le loro creature. Giovanna, Camilla e Alessia, pensando alle linee di Nazca del deserto del Perù, che si vedono solo dal cielo, hanno disegnato su grandi teli bianchi coloratissimi disegni di libellule, creature mitologiche e divinità egizie. Ora li dispiegano sui versanti verdi d’erba, fissandoli coi picchetti.
Sul colle difronte, un gruppo di studenti sta montando una statua di Nike alta più di due metri, simboleggia “la vittoria della terra”, è stata realizzata con materiali di riciclo, ma il risultato è di un’eleganza assoluta. Silvana, la docente che li ha seguiti, mentre acconcia il velo della dea, mi spiega che l’installazione rimarrà qui in cima, a proteggere il parco sfidando vento pioggia e meteore.
Lorella Starita insegna storia dell’arte all’Accademia, ha ideato e coordinato il progetto per ornare il parco verde della Resit con opere di land art. L’iniziativa ha un titolo suggestivo, in latino: “Res Nature Sit”, c’è dentro il nome della discarica, ma significa la natura che torna, sulle terre della desolazione; assieme lei, grazie a questi studenti, tornano in questi luoghi sfortunati l’arte, la cultura, un umanesimo gioioso. “I ragazzi si sono appassionati, hanno lavorato sodo, anche nei giorni che la scuola era in autogestione. Oggi per loro era festa, ma sono corsi qui, con i loro genitori.”
Al progetto di land art hanno collaborato i docenti delle diverse discipline: architettura (Luisa Maglio), pittura (Luigi Pagano e Michelangelo Riemma), scultura (Silvana Sferza, Fortuna Mirana, Angelo Montefusco). Il gruppo di architettura ha realizzato dei rendering molto belli, con idee per l’utilizzo futuro dell’area, sono esposti nella minuscola palazzina restaurata, in sottofondo si sente un guaito, in quello che era il deposito della legna Nana, uno dei grandi meticci che vegliano sul parco, ha partorito da poche ore il suo cucciolo.
Ora è la volta degli aquiloni, fluttuano per il parco coi loro autori, sopra c’è scritto: “La mafia uccide, il silenzio pure”, “Rinascimento”. Con le loro opere d’arte, il messaggio di questi ragazzi è che gli scarti esistono solo nella nostra mente: le persone, i luoghi e i materiali hanno la possibilità di una nuova vita, c’è sempre tempo per ricominciare, la dignità non si cancella.
Mario De Biase è l’artefice del riscatto, guarda i ragazzi lavorare, è commosso, gli chiedo cosa succederà ora. “Non lo so, nessuno mi ha comunicato niente. Ho riconsegnato le chiavi, con le planimetrie degli uffici. La piccola squadra si scioglie, i miei quattro collaboratori torneranno agli enti di provenienza. Spero solo che ci sarà qualcuno a prendersi cura del parco, di Nike, dei murales di Jorit”. Sembra una scena di quel piccolo grande film che è “Monuments man”: l’amore per l’arte e la bellezza che salva una civiltà allo sbando.
Il fatto è che la nomina di De Biase è governativa, con un’ordinanza della Protezione civile nazionale, ma le cose si sono ingarbugliate al momento del passaggio di consegne tra Stato centrale e Regione, con uno scambio di accuse reciproche. L’assessore regionale all’Ambiente Fulvio Bonavitacola con un comunicato ha precisato di aver sollecitato a più riprese il governo a prorogare almeno sino a tutto il 2020 l’incarico a De Biase, scaduto lo scorso dicembre. La risposta del ministro all’Ambiente Sergio Costa, sempre via comunicato, ribalta sulla Regione la responsabilità della mancata presa in consegna dei siti. Il risultato è lo stallo burocratico, l’incapacità delle istituzioni di dialogare e cooperare per mettere in salvo questa esperienza, che pure è l’unica che ha dato risultati concreti, con la restituzione ai cittadini di uno dei siti più degradati della Piana campana, quella che ora tutti chiamano Terra dei fuochi.
Nel frattempo, a meno di mezzo chilometro dalla Resit, la cittadella Gesen, dov’erano gli uffici del Commissariato e gli impianti per produrre energia dal biogas, è stata a più riprese incendiata e vandalizzata dalla criminalità. Inutile stupirsi: senza un presidio, una presenza forte e chiara della Repubblica in tutte le sue articolazioni, dallo Stato ai Comuni, mettendo da parte le polemiche, ogni cosa da queste parti è tremendamente a rischio.
Nel disgraziato arcipelago di discariche ravvicinate che si chiama “area vasta di Giugliano”, completati i lavori alla Resit, sono iniziati quelli per la messa in sicurezza di Masseria del Pozzo, poi dovrebbe toccare a Novambiente, la discarica sequestrata ai Vassallo. Nel quadro di incertezza che si è creato, ci si chiede se e in che modo questi lavori proseguiranno. Per ora di certo c’è la revisione dei progetti decisa da Sogesid, la società appaltante interamente partecipata dal Ministero dell’Ambiente: la sistemazione vegetazionale è stata cancellata, scaduto De Biase si torna all’impostazione vecchia maniera, senza verde e senza alberi, solo impianti tecnologici, buoni certamente a produrre “non luoghi” senz’anima e senza futuro. E comunque la domanda è: che senso ha recuperare questi luoghi, se poi non riusciamo a curarli e custodirli nel tempo?
Insomma, il parco verde della Resit per ora non fa scuola, e invece è un piccolo gioiello, e ha pure funzionato, il flusso di gas e percolato è cessato, questo posto ha smesso di far male. E’ un nucleo di bellezza attorno al quale il territorio sofferente può ritrovarsi, a poco a poco ricomporsi. I ragazzi dell’Artistico vanno via, si chiudono i cancelli. Dietro i pioppi spogliati d’inverno, il murales di Jorit col volto di Giancarlo Siani che sorride. Difronte, sulla collina verde, il velo di Nike trema nel vento. Non le istituzioni, per ora: c’è solo la bellezza fragile a proteggere questa terra riconquistata, troppo presto smarrita.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 9 settembre 2019
Finisce a Bagnoli il viaggio nei quartieri esterni di Napoli, non poteva che essere così, ed è la tappa più difficile, in quelle precedenti si raccontavano pezzi di città – da San Giovanni a Teduccio a Pianura – ai margini del dibattito pubblico, qui al contrario tutto è stato detto e scritto, l’area è un simbolo, che il carico di significati, connotazioni, aspettative bruciate rischia di far deflagrare, dissolvere. L’unica è tornare alla lezione di Rossi-Doria: camminare il territorio, che è il libro più grande; parlare con le persone; sentire attraverso la suola delle scarpe come cambia la terra, e lo spirito dei luoghi.
Con Massimo Di Dato che mi accompagna ci infiliamo nel sottopasso della Cumana, tutto affrescato di murales, ed è una specie di macchina del tempo, in un attimo riemergiamo su viale Campi Flegrei, il boulevard più suggestivo di Napoli, con i lecci e le palme, l’atmosfera fin de siècle e le palazzine liberty. Massimo è uno degli animatori dell’Assise per Bagnoli, una delle poche esperienze che un ragionamento collettivo sul quartiere ha cercato di tenerlo vivo in tutti questi anni. Stamattina abbiamo appuntamento con Aldo Velo, leader storico dei caschi gialli Italsider. “Ci vediamo alla Fonte del Gelo alle dieci” mi ha detto Aldo al telefono, poco importa se il bar ha cambiato nome da anni, ci intendiamo lo stesso.
Gli ex ragazzi del quartiere e della fabbrica li troviamo sul viale, coi capelli d’argento, occupano a gruppi le panchine. Quando Velo arriva, scattante nella polo rossa, è tutto un animarsi, un riconoscersi. Uno ci passa accanto: “Aldo” grida sorridendo ma senza fermarsi “vado di fretta, oggi nun teng o’ tiemp e’ litigà ’cu tè”. Ci fermiamo accanto all’edicola, attorno si forma un capannello, chiedo loro com’è adesso la vita nel quartiere, a dispetto della solarità dei luoghi le risposte sono amare.
Ci sono Antonio, Vincenzo, Gabriele, Mario, Alberico, Luigi, ed è un racconto prevalente di contrasti irrisolti, e di declino: l’aumento della micro-criminalità, coi furti di batterie e i vandalismi alle auto, tutte cose un tempo sconosciute da queste parti; gli sfollati nelle case occupate; il clamore notturno della movida, che ti nega il riposo; l’ospedale di riferimento, il San Paolo, che s’è svuotato, ridotto a poco più di un pronto soccorso. Sullo sfondo, i movimenti tellurici della demografia, coi bagnolesi che lasciano il quartiere, e i nuovi abitanti “che qui vengono solo per dormire”. E poi il lavoro che non c’è più, i figli che vivono lontano, dei quattro ragazzi di Aldo Velo, due lavorano in Emilia, uno in Norvegia.
I numeri parlano chiaro. Dal 1961 gli abitanti di Bagnoli sono diminuiti del 30%, 9.000 persone in meno, oggi sono poco più di 23.000. “Nel periodo immediatamente successivo la chiusura della fabbrica, all’inizio degli anni ‘90” mi spiega Di Dato “il patrimonio immobiliare del quartiere ebbe una rivalutazione istantanea, molti scelsero di beneficiarne vendendo e trasferendosi altrove. Anche i canoni di fitto crebbero, obbligando molti abitanti storici a lasciare il quartiere.”
Ai miei interlocutori chiedo se, al punto in cui siamo, il destino del quartiere debba oramai prescindere dal recupero dell’area industriale: in fondo quello che è successo in questi trent’anni è che Bagnoli si è trasformata da luogo della produzione a quartiere residenziale, come altri. E’ a questo punto che gli sguardi diventano freddi, la voglia di parlare passa di colpo. Il fallimento della riconversione è ancora vissuto come il più doloroso dei tradimenti. Gli operai che ho davanti avevano contrattato l’uscita dalla fabbrica – uno stabilimento appena ammodernato e in piena capacità produttiva – in cambio della promessa di un quartiere rigenerato e una nuova economia. Il risultato, a distanza di trent’anni, è il vuoto, al posto del lavoro antico non è arrivato proprio niente, solo l’inesorabile corrodersi dei legami e delle forme quotidiane di convivenza. Molti di loro non votano più. Il discorso cade sulle navi dei migranti, la chiusura dei porti, e i ragionamenti che ascolto, inaspettatamente, non sono tutti favorevoli a Capitan Carola e al lavoro umanitario delle ONG.
Ragioniamo di tutte queste cose con Aldo Velo. “Bagnoli è diversa da Taranto. Fino a che c’è stata la fabbrica, gli operai, il quartiere, il movimento delle donne e quello degli studenti sono stati una cosa sola, e la scelta non è mai stata tra lavoro e ambiente. Attorno al lavoro si era creato un soggetto collettivo che aveva un peso sulle decisioni della città, sulle questioni di interesse generale. Ora che tutto questo si è rotto, ognuno è rimasto solo con le sue incertezze e le sue paure, e trovano spazio posizioni difensive, impensabili un tempo.”
La discussione sull’ex acciaieria poi, ha assunto toni metafisici. Qui non è come a San Giovanni a Teduccio, dove i cadaveri delle fabbriche sono ancora visibili e presenti, disseminati in mezzo alle case. A Bagnoli invece la spianata dell’acciaieria è interdetta e murata da trent’anni, non è più oggetto di esperienza diretta, sensibile: per i più anziani che ci lavoravano è un ricordo, per chi è nato dopo, una sorta di vuoto geografico, che le parole e i rendering dei piani urbanistici non riescono proprio a colmare.
Tutta Bagnoli a pensarci è ancora organizzata per recinti chiusi: il quartiere è una cittadella prigioniera tra i due rami di ferrovia, Metropolitana e Cumana, i varchi con l’esterno si contano sulle dita di una mano, una situazione rischiosa, visto che siamo in piena zona rossa dei Campi Flegrei. Come sono luoghi confinati l’area industriale dismessa, le rovine del Parco dello Sport, il Collegio Ciano, per non parlare di Nisida e del litorale.
Il Collegio Ciano fu costruito dal regime alla fine degli anni ’30, demolendo il casale medioevale sulla collina di San Laise, una comunità rurale di una cinquantina di famiglie. Doveva diventare la cittadella dell’infanzia abbandonata, i Figli del Popolo, ma la sorte fu la stessa della Mostra d’Oltremare, dopo l’inaugurazione scoppiò la guerra, e il complesso non entrò mai in funzione. Fu occupato dai tedeschi, poi dagli Alleati, quindi divenne campo profughi, alla fine saccheggiato. Dal 1954, per più di mezzo secolo, ha ospitato il Comando supremo della Nato.
Dell’antica agricoltura che c’era prima rimangono oggi una dozzina di ettari, tra il Collegio e la Domiziana, ed è l’ecomuseo agricolo più importante della città. Lo cura Gianni Grasso, coi ragazzi di Legambiente. Gianni è medico, una vita dedicata ai migranti e alla lotta alle dipendenze, i nonni erano coloni qui a San Laise, la salvezza di questo frammento miracoloso di agricoltura urbana e di memoria è l’altra missione della sua vita.
L’ingresso al parco agricolo è in fondo a Viale della Liberazione, tra l’area ex Nato e il binario della metropolitana, con Gianni sono ad attendermi Maria, studentessa in legge, ha occhi chiari silenziosi e attenti; Gennaro che fa l’informatico, e Federico che studia il cinese. Il muro di cinta dell’ex base militare è ancora armato di filo spinato e garitte, residui incongrui di Guerra Fredda in mezzo agli orti e gli alberi da frutto. Ai bordi del sentiero Grasso mi indica un grande masso bianco, è il basamento della statua del conte Ciano, abbattuta nei giorni della Liberazione.
L’area è di una bellezza e suggestione assolute, Legambiente l’ha in fitto dalla Fondazione Banco Napoli, l’altra parte è di un’immobiliare milanese, l’ha acquistata dall’antica proprietà, la contessa di Corigliano, per ora sta mandando via a uno a uno i coloni superstiti, in attesa di chi sa quali sviluppi.
Gianni coi suoi ragazzi ha ripulito l’area, ripreso i sentieri e le percorrenze, e la gestisce con rigore filologico, rispettando gli elementi minuti di questo paesaggio mozzafiato, l’arboreto, le vigne, gli orti, le siepi, i piccoli fabbricati rurali, soprattutto assecondando un equilibrio tra gli spazi coltivati, e quelli riconquistati dalla vegetazione spontanea.
Il risultato è un luogo che ha aspetti favolosi, subtropicali, dove accanto alle piante da frutto nostrane, puoi trovare un boschetto silenzioso di bambù, e una dracena gigantesca, dalle foglie acute: una natura primitiva, all’inizio del tempo, sembra di stare in un quadro di Henri Rousseau.
Il parco agricolo è aperto al pubblico, l’unica avvertenza è quella di rispettare il silenzio, la pulizia e la grazia dei luoghi. In attesa dell’altro grande parco, quello dell’acciaieria, se e quando verrà, quest’area è già adesso, grazie al lavoro di questi ragazzi, un polmone verde, testimonianza preziosa della storia rurale del quartiere, prima dello sviluppo turistico inseguito dal marchese Giusso e Lamont Young alla fine dell’800, e dello sconquasso che è seguito poi, nel secolo breve dell’acciaieria.
Resta il fatto che Bagnoli è oggi la somma di luoghi notevoli, che non dialogano tra loro, e la cosa da fare, assai semplice, sarebbe iniziare a spezzare i recinti, a partire dal muro della fabbrica, restituendo subito alla città il “terzo paesaggio”, la trama verde di erbe alberi e arbusti cresciuta in silenzio sulle loppe d’altoforno, senza chiedere permesso a nessuno, mentre noi perdevamo tempo con la burocrazia malata, e una bonifica senza fine.
Passiamo ancora i binari, siamo di nuovo sul boulevard ridente, c’è aria d’estate, macchie d’ombra e di sole. Mentre ci salutiamo Velo mi affida l’ultimo ricordo di quando ragazzi, seduti su queste panchine, aspettavano il passaggio degli operai lungo il viale, alle tre del pomeriggio venivano giù dalla stazione della metropolitana, per l’inizio del turno. Poi gli operai sono diventati loro, e ora il cerchio s’è chiuso, sono tornati sulle panchine, ma di qui non passa più nessuno.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 27 luglio 2019
L’appuntamento coi ragazzi è alle diciassette alla Resit, la discarica simbolo sperduta nella campagna immensa di Giugliano; lungo il vialone la striscia di monnezza t’ammorba l’anima, poi finalmente s’arresta e inizia l’erba, e anche il muro è diverso, Jorit l’ha tutto dipinto coi colori dell’iride; dietro, giovani pioppi tremano nel vento, e la collina è verde.
I ragazzi sono già dentro ad aspettarci coi loro decenti, è un gruppo di studenti dell’istituto superiore di cinematografia “Roberto Rossellini” di Roma, la sede della scuola è negli ex stabilimenti Ponti-De Laurentiis, un pezzo di storia del cinema italiano.
L’istituto, nato nel 1961, fino a pochi anni fa è stato l’unico liceo in Italia interamente dedicato alle arti visive, ora la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha commissionato un corto sulla Terra dei fuochi, loro l’hanno immaginato come il viaggio di due ragazzi alla scoperta della piana campana, e la cosa che mi ha sorpreso, leggendo la sceneggiatura, è la scelta coraggiosa: quella di parlare di soluzioni, oltre che dei problemi.
Per questo sono venuti nella discarica più famosa, finalmente messa in sicurezza, ora è un parco pubblico col prato e gli alberi, ed è una bella storia di riscatto, lunedì prossimo verranno a inaugurarla il ministro dell’Ambiente Sergio Costa e il presidente della Campania, Vincenzo De Luca.
In pochi minuti la troupe è pronta, sotto lo sguardo vigile di Massimo Franchi, il docente-regista. Alle macchine da presa sono Gabriele, un tipo riflessivo, e Benedetta sicura di sé, in jeans corti e top; Jacopo il fonico è alto e magro, porta la cuffia attorno al collo; il microfonista è Alessio, Joy il fotografo di scena; Alice la brunetta piccolina tiene a bada tutti, è la segretaria di produzione.
I ragazzi hanno tra i sedici e i diciott’anni, le attrezzature sono proprio quelle professionali, si fa sul serio. Alessio e Simona, 16 e 17 anni, sono gli attori protagonisti, due scriccioli tutt’ossa, occhi grandi, spauriti e spavaldi; lei riordina distrattamente un ciuffo ribelle, la camicetta leggera di cotone, ciak, si gira.
Nella scena i ragazzi sono al cancello della discarica, dentro c’è Jorit incappucciato su un’impalcatura, con la bomboletta sta completando un murales, i due gli chiedono cosa stia facendo, lui va loro incontro, si scopre il capo, dietro ha il grande volto sorridente di Giancarlo Siani.
L’artista-ragazzo chiede ai due cuccioli se sanno chi era, racconta la storia del cronista coraggioso, impegnato a svelare gli affari di criminalità e malapolitica, a danno delle persone e del territorio. “Ma non è l’unico aspetto” continua Jorit “Rileggendo gli scritti di Giancarlo la parola più frequente è proprio ‘lavoro’. Lui è morto anche per questo, per rivendicare la dignità del suo lavoro precario, ed è il lavoro ciò di cui abbiamo più bisogno per riscattare questi luoghi. Per questo abbiamo scelto il suo volto per il nuovo parco”
Ora i ragazzi incontrano l’artefice del miracolo, Mario De Biase, per otto anni è stato prima commissario governativo, poi funzionario delegato alle discariche di Giugliano. Alessio gli chiede con sfrontatezza innocente cosa ne è stato dei rifiuti della discarica, Mario sorride, gli risponde che sono ancora sotto i loro piedi, i ragazzi sono perplessi, se è così il problema c’è ancora, non è cambiato niente.
“I rifiuti vanno giù per 27 metri” risponde paziente De Biase “un milione di tonnellate, il costo della rimozione vale una finanziaria, e poi dove li porti? Invece noi abbiamo impermeabilizzato tutto: il biogas prodotto – l’equivalente ogni giorno degli scarichi di quattromila autovetture col motore sempre acceso – è captato e bruciato dalle torce. Anche il percolato è raccolto, ma la sua produzione, grazie alla copertura s’è arrestata. La discarica certo rimane qui, ma ha smesso di fare del male, la profezia del super-perito Balestri, che aveva previsto per il 2067 il disastro ecologico e l’inquinamento definitivo della falda, se l’avanzata dei liquami non fosse stata arrestata, è stata scongiurata. Al di sopra della complessa serie di strati tecnici che garantiscono l’isolamento dei rifiuti, alla fine abbiamo riportato suolo buono, per lo spessore di un metro, ed abbiamo piantato sei ettari di prato, con cinquecento alberi e ottomila arbusti.”
A progettare il parco ci ha pensato il paesaggista Fabrizio Cembalo Sambiase, s’è fatto dire dagli scienziati le specie che meglio riuscivano a tenere a bada gli inquinanti, che poi sono quelle dei nostri boschi, i pioppi, gli aceri, gli olmi, i frassini, e ha trasformato la discarica in una verde collina arborata, una morfologia nuova, che prima non c’era: un monumento perenne all’umana inadeguatezza, che però consente di spaziare a perdita d’occhio sulla piana agricola millenaria, un paesaggio ancora emozionante.
Proseguendo il loro viaggio, accanto alla Resit i due ragazzi s’inoltrano in un bosco fitto di pioppi. Ad aspettarli c’è un Virgilio robusto, è Massimo Fagnano, docente di agronomia della Federico II, li accompagna tra i filari ombrosi, l’intera troupe del “Rossellini” si dispone tra gli alberi. “Qui nel podere di San Giuseppiello, i Vassallo non hanno interrato rifiuti, ma i fanghi industriali delle concerie toscane. E’ un crimine orrendo, sulla terra più fertile della galassia, un tesoro che ha quindicimila anni di storia. Questo suolo straordinario ci ha salvato” racconta ancora Fagnano ai ragazzi “Ha bloccato i contaminanti – cromo soprattutto – in forme insolubili, che i microrganismi e le piante non possono assorbire, salvando così anche la falda. Un discorso a parte riguarda il cadmio, che è più pericoloso, è presente in un’area di tremila metri quadri, e può essere assorbito dalle piante. Il compito di questi ventimila pioppi è proprio quello di portar via la frazione solubile degli elementi tossici, pulendo poco alla volta il suolo. Così, piantando un bosco, abbiamo salvato la terra, l’alternativa era sbancarla e portarla a discarica, come fosse un rifiuto, lasciando qui un cratere. Oppure, come hanno fatto per l’area dell’EXPO, isolarla con una lastra di cemento. In questo modo, invece” conclude il professore mentre esce coi ragazzi dal bosco “dov’era il degrado abbiamo ricostruito un paesaggio ordinato: un laboratorio verde, dove migliaia di studenti delle scuole pubbliche della Campania sono già venuti a imparare come si cura e si ricostruisce un ecosistema ferito”.
I ragazzi dall’alto della collina della Resit filmano il tramonto sul mare, oltre la piana; la sfera rossa si nasconde in un canneto, anche Jorit è rapito, posta la foto sulla pagina facebook. La giornata è stata torrida, s’alza finalmente la brezza, scattano gli irrigatori automatici del nuovo parco, l’aria si raffresca, il frinire delle cicale è assordante, anche Hulk, il meticcio pelliccioso enorme e mite che vegliava sulla discarica avverte l’atmosfera, s’accosta timoroso per una carezza.
La luce del tramonto illumina l’altro grande murales del parco: di fronte a quello sorridente di Giancarlo, c’è il volto di Peppino Impastato, l’espressione dolente si fa viva nell’ombra tremante dei pioppi. “Giancarlo e Peppino erano ragazzi come voi”. Mario De Biase è ancora con Simona e Alessio, sulla collina verde “Due ragazzi che hanno dato la vita per la libertà, la bellezza, la giustizia. Hanno continuato a ispirarci e darci forza quando questo lavoro sembrava impossibile. Perché le leggi italiane sembrano fatte apposta per impedire di risolvere i problemi. Soprattutto quando interpretate da una burocrazia che pensa solo a tutelare se stessa, mantenendo tutto com’è. Per la Resit ci sono voluti anni, alla fine ce l’abbiamo fatta, e agli inquinatori abbiamo pure presentato il conto. Proprio in questi giorni la Guardia di Finanza ha notificato ai Vassallo la parcella per la messa in sicurezza di San Giuseppiello: un milione di euro, che loro dovranno risarcire allo Stato. ‘Chi inquina paga’ non è uno slogan astratto, ma un principio di legge.”.
Hanno ragione i ragazzi del “Rossellini”, quella del recupero della Resit e di San Giuseppiello è una pagina chiara nella storia della Terra dei Fuochi, ma i problemi non sono finiti. L’incarico che la Protezione civile nazionale ha assegnato a De Biase scade il 30 luglio. Dopo, rischia di esserci il vuoto, di andare dispersa la piccola efficiente struttura, con Aniello Sansone, Giampiero Matarazzo, Mario Mancuso, un pugno di funzionari competenti e appassionati che ha coadiuvato De Biase nell’impresa. Per l’area di San Giuseppiello, il custode giudiziario è coraggiosamente riuscito ad affidare alla Federico II il compito di continuare a curare il grande bosco di pioppi. Per il parco della Resit invece, sei ettari di nuovo verde pubblico, in un’area metropolitana dove queste cose mancano, nessuna istituzione si è ancora fatta avanti, e De Biase semplicemente non sa ancora a chi consegnare le chiavi, i contratti, gli archivi. Negli ultimi istanti utili si sta lavorando a una proroga del suo incarico, ma è un’impresa complicata.
C’è anche Paola Adamo, la presidente della Società italiana di scienza del suolo, ed è preoccupata. E’ lei che ha studiato i suoli dell’area per capire l’effettiva mobilità dei contaminanti. Tutte cose che sono finite nel nuovo decreto nazionale sulla bonifica dei suoli agricoli, insieme alle tecniche di fitorisanamento messe a punto dal gruppo di Massimo Fagnano. “La cosa assolutamente decisiva” mi dice Paola “è prendersi ora cura di questi nuovi spazi restaurati. Basta davvero poco per tornare indietro, vanificare il lavoro fatto, riconsegnando queste aree alla desolazione e al degrado.”
Stasera, sulla collina delle Resit, si aggira una singolare comunità, fatta di artisti, scienziati, fotografi, pubblici funzionari. A pensarci, è grazie alla cooperazione di scienza, arti pittoriche, progettazione del paesaggio, cinema, buona amministrazione, che questi luoghi perduti stanno riacquistando una dignità, un senso.
Ne discuto con Giuseppe Leone, è il presidente della “Street Art Jorit”, la fondazione con finalità sociali che supporta l’attività del giovane artista, del quale è stato professore e maestro al tempo dell’Accademia. “Scienza e arte, per vie diverse, hanno lo stesso obiettivo, quello di esprimere l’uomo per quello che è, attraverso una ricerca e un’innovazione continua. Il paesaggio poi è la nostra pelle, la sua bellezza richiede una cura costante. Arte, scienza e cultura possono aiutarci a curare le ferite del mondo”. E’ l’idea che Mario De Biase ha inseguito per quasi un decennio, i ragazzi del “Rossellini” l’hanno capita, la battuta finale del corto è “Ma allora si può fare!”, buona la prima, alla prossima.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 26 aprile 2019
Secondo i giudici del Vinitaly 2019 il bianco più buono d’Italia si produce proprio qui, sui vigneti di scogliera di Punta del Lume, in faccia al mare, con davanti il più straordinario allineamento di vulcani, la cupola magmatica del Castello Aragonese, poi Vivara, Capo Miseno, Trentaremi, e a chiudere lo skyline azzurro del Somma-Vesuvio.
Le colline a oriente dell’Epomeo, attorno al borgo di Campagnano, restano tra le parti meno frequentate dell’isola. Le strade sono asfaltate da non molto, una rete di sterrate strette, mozzafiato, da un terrazzamento all’altro, lungo la serie di forre, promontori, case rurali che da Ischia Ponte arriva fino a San Pancrazio. E’ come il Sentiero degli Dei, una balconata sul cielo, solo che invece dei calcari attraversi terre arse di sabbie vulcaniche, pomici, vetri scuri di ossidiana, e tutto è verde e fiorito sull’isola, in questo giorno fresco e sereno di metà aprile. Mentre procediamo, incrociamo un gruppo di escursionisti inglesi, felici e stremati da questa overdose di paesaggio.
Camminiamo, e vorresti parlare con Nicola Mazzella dei suoi vini, del massimo riconoscimento che da due anni ormai viene attribuito al suo “Vigna del Lume”, con in più, quest’anno addirittura il titolo di “miglior cantina d’Italia”, che è davvero come se il Chievo vincesse la Coppa dei Campioni. Nicola è un ragazzo di quarantatré anni, buono e ostinato, quando passiamo gli agricoltori lo salutano, mentre rincalzano le barbatelle, con sorrisi pieni di affetto e riconoscenza, sentono dentro di loro che la sua affermazione, sotto tutti gli aspetti, è anche la loro, assieme a questo angolo dimenticato di terra.
Vorresti parlare dei suoi vini, e invece lui ti racconta dell’isola e del paesaggio. L’agricoltura di Ischia sta sparendo. C’erano mille ettari di vigneto nel 1980, con 3.400 aziende. Nell’arco di soli trent’anni gli ettari si sono ridotti a 240, mentre le aziende sono oramai poco più di 500. E si tratta oramai di frammenti: lo spezzettamento ereditario ha ridotto le aziende, che furono riscattate 70 anni fa dai coloni, in unità produttive troppo piccole e precarie. Il destino inevitabile è l’abbandono: sugli antichi terrazzamenti medioevali, a picco sul mare, la boscaglia avanza inesorabile, cancellando nel suo indifferente oblio vegetale la civiltà agricola secolare che è alla fine, assai più del mare la pesca e la navigazione, la matrice vera dell’isola.
Nicola è un sognatore, ma con molto senso pratico. “Se vogliamo dare futuro a tutta questa bellezza” mi dice “dobbiamo renderla remunerativa. Non è possibile che queste uve straordinarie siano pagate dai commercianti cinquanta centesimi il chilo. Io le pago un euro e sessanta, ma il mio obiettivo è di arrivare a tre euro. Dobbiamo dare ai vignaiuoli eroici dei terrazzamenti, la possibilità di remunerare degnamente il proprio lavoro. Altrimenti l’abbandono proseguirà. Poi certo” conclude il suo ragionamento “dobbiamo essere bravi, per rientrare nei conti, a spuntare un euro in più su ogni bottiglia, ma non c’è alternativa.”
A poco a poco, mentre percorriamo l’isola, scopro che Nicola Mazzella, prima che giovane grande imprenditore del vino, è un leader silenzioso, un restauratore di paesaggi. Per reperire le uve ha iniziato dal clan familiare, raccogliendo da zii e parenti tutta la produzione che eccedeva le esigenze di auto-approvvigionamento. Poi è andato oltre, coinvolgendo nella sua rete i piccoli produttori superstiti di questo lembo d’isola, incoraggiandoli, consigliandoli, ma soprattutto impegnandosi a rilevare le loro produzioni a prezzi congrui, rispettosi delle fatiche spese. In questo modo Nicola, oltre a vincere il primo premio al Vinitaly, tiene vivo ancora il paesaggio, lavora per frenare il declino dell’agricoltura tradizionale dell’isola.
All’inizio non doveva andare così. La passione di Nicola da ragazzo era la pesca subacquea, a livello agonistico, era una promessa nel panorama nazionale. Con l’età della ragione, invece, la scelta di continuare l’azienda di famiglia, fondata dal nonno Nicola nel 1940, col commercio di vino sfuso. Poi era stato il papà Antonio, un piccolo grande uomo che forse non ha studiato ma ragiona con la lucidità di uno statista, a fare l’indispensabile passo avanti, con l’imbottigliamento. “Lavoravamo per ottenere un buon prodotto” mi racconta Antonio “ma i grandi commercianti ci umiliavano, pretendevano di acquistare lo sfuso per quattro soldi, per noi l’unica speranza di sopravvivenza rimaneva imbottigliare e commercializzare in prima persona”.
Infine, con Nicola, il salto verso l’eccellenza nazionale e mondiale. Consigliato all’inizio dai migliori enologi del Sannio, Nicola inizia a investire per le attrezzature, adotta processi innovativi. Per produrre il bianco che ha spopolato al Vinitaly, il “Vigna del Lume”, le uve biancolella sono sottoposte a crio-macerazione: col freddo gli aromi contenuti nella buccia si solubilizzano, poi tutto il processo procede in assenza di ossigeno, per evitare ogni minima ossidazione che possa minacciare la sopravvivenza delle preziose molecole.
Si ripete con Nicola un qualcosa che accomuna molti grandi imprenditori agricoli che stanno tenendo a galla la reputazione della Campania: per tutti loro la tradizione non è un qualcosa di statico, che sta là ferma, ma va reinventata, reinterpretata e fatta vivere attraverso un’innovazione continua. Gli imprenditori come Nicola sono innanzitutto grandi innovatori, nel campo agronomico, tecnologico, sociale; è gente che ha una visione, e che rischia i suoi soldi e il suo lavoro per concretizzarla, metterla in pratica.
“La grandezza, il valore di queste uve deriva dalla fertilità di questo suolo vulcanico” mentre racconta Nicola prende una manciata di pomici, che luccicano al sole. “Per ottenere un vino di qualità il mio lavoro è innanzitutto quello di difendere questo suolo, questo paesaggio. E’ lo sforzo principale. Salvato il paesaggio, il vino è solo una conseguenza.” Così, col lavoro di Nicola, la viti-vinicoltura finisce per essere una delle strategie più concrete di promozione dei territori e delle comunità.
“Il prossimo passo è quello di restaurare la nostra cantina, è del ‘600, con gli archi e la volta a botte. Ci metteremo le barrique – le piccole botti di legno pregiato per l’affinamento dei vini – e un locale per la degustazione, in collaborazione con i migliori chef dell’isola. Vino, gastronomia, turismo, cultura: è la strada che con la mia cantina intendo percorrere. Penso sia il solo futuro possibile per Ischia. In questo momento abbiamo un eccesso di ricettività, che si tenta di salvare inseguendo il turismo mordi e fuggi. Sono cose che non aiutano l’isola, che finiscono col consumare il paesaggio e il capitale naturale.”
Nicola si ferma solo un attimo “Per questo, vorrei realizzare un itinerario, un percorso che collega tutti i nostri piccoli vigneti, dal Castello Aragonese a San Pancrazio. Ai nostri ospiti vorremmo offrire, assieme al vino, un’esperienza di vita impossibile da dimenticare”.
Torniamo in cantina, un sorso di “Vigna del Lume”, e capisco finalmente perché ha vinto: una freschezza, un’eleganza, una sinfonia di aromi inarrivabile. Gianni e Paola Mura quando l’hanno assaggiato hanno subito contattato Nicola, sono corsi a trovarlo, qui a Campagnano, per capire da dove provenisse tanta bontà. Lui mi racconta tutte queste cose, senza un’ombra di compiacimento, sta già pensando oltre, all’isola che non c’è ancora, che comunque arriverà.
Archeologia, paesaggio, natura: una nuova strategia per il Parco Archeologico dei Campi Flegrei
Museo Archeologico di Napoli, Mercoledì 16 gennaio, ore 15.00
Con l’istituzione del Parco archeologico dei Campi Flegrei per la prima volta l’intero patrimonio archeologico di quest’area unica al mondo sarà gestito in maniera unitaria, dando vita ad un polo archeologico di importanza pari a Pompei e Ercolano. Per tutelare e promuovere questo straordinario patrimonio il nuovo Parco Archeologico sta lavorando, in collaborazione con il Dipartimento di Agraria della Federico II, a una strategia integrata, per tenere insieme, in un racconto unitario, i valori unici dell’area – ecologici, vulcanologici, agrari, archeologici – dando vita a una rete di itinerari affascinanti nella natura, nel paesaggio, nella storia.
Interventi
Maria Rosaria de Divitiis, Presidente Fai Campania
Paolo Giulierini, Direttore del Parco Archeologico dei Campi Flegrei
Riccardo Motti, Dipartimento di Agraria, Univ. Federico II
Antonello Migliozzi, Dipartimento di Agraria, Univ. Federico II
Antonio di Gennaro, Delegato Ambiente Fai Campania
Un progetto green dell’Università Federico II bonifica i terreni agricoli in cui la camorra scaricava liquindi inquinanti e rifiuti. I nuovi alberi piantati assorbono o metali nocivi. L’ideatore: “Insegniamo ai giovani a interrompere la catena dell’illegalità”
Filippo Femia, La Stampa, 21 dicembre 2018
Migliaia di pioppi corrono paralleli, in file ordinate. Il sole illumina i tronchi, ancora esili. Guardando questo bosco di Giugliano (Napoli) sembra impossibile che la camorra sversasse qui liquidi inquinanti delle concerie: le analisi hanno rilevato la presenza di cromo, zinco e cadmio, un metallo pesante altamente tossico per l’uomo, anche in concentrazioni minime. La zona sfregiata per decenni dai clan, nel cuore della Terra dei fuochi, è tornata a vivere grazie a un progetto di ricerca rivoluzionario dell’Università Federico II di Napoli. Si chiama Ecoremed, è made in Campania e finanziato dalla commissione europea. E’ nato nel 2012 come risposta a un vuoto legislativo. Il decreto 152 del 2006, che norma la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinati, escludeva i terreni agricoli, per i quali si rimandava a un successivo regolamento (arrivato a fine 2017 e mai entrato in vigore).
La mente del progetto è Massimo Fagnano, professore di Agraria della Federico II. Era alla ricerca di tecniche di risanamento eco-compatibili dei terreni inquinati, come le discariche abusive della piana campana. In pochi mesi la suq équipe di cento ricercatori medici, geologi, ingegneri, biologi e chimici – ha messo a punto una nuova bonifica con la tecnica del fitorisanamento. Vengono piantati alberi, principalmente pioppi ed eucalipti, che neutralizzano i metalli pesanti. Li assorbono, fissandoli nel legno del tronco e le radici impediscono agli agenti contaminanti di raggiungere la falda acquifera. Una tecnica, senza sostanze chimiche, che innesca anche un’economia circolare. Il legno può essere poi usato come biomassa per produrre energia.
La scelta sostenibile
In passato venivano usate due tecniche per le bonifiche. Veniva rimosso il suolo, per lo spessore interessato dalla contaminazione, e portato in discarica come rifiuto speciale. I costi? Elevatissimi. L’altra opzioni era la messa in sicurezza del luogo, con una sorta di gabbia di cemento che fermasse il passaggio degli agenti inquinanti nel terreno, per poi costruire sopra. Anche in questo caso la spesa era di diversi milioni ogni ettaro. “La soluzione di Ecoeremed fornisce un’alternativa sostenibile, low cost e green, senza distruggere il suolo. E mette a disposizione delle popolazioni nuovi ecosistemi”, spiega il professor Fagnano.
Tecnica low cost
I costi vengono abbattuti: sono dieci volte inferiori rispetto alle tecniche tradizionali, con risparmi di diversi milioni su larga scala. “Ma qui il profitto non c’entra – dice Antonio di Gennaro, agronomo coinvolto nel progetto – Il manuale di applicazione del protocollo è gratis e scaricabile dal sito. Speriamo che venga applicato anche dal altri”.
Il nuovo approccio, poi, riguarda la diagnosi. Analizzando i risultati dei diversi campionamenti, è emerso che i suoli agricoli non erano contaminati come si credeva. Su 50.000 ettari della Terra dei fuochi, infatti, ne sono stati interdetti solo 33, una percentuale prossima allo zero.
All’inizio molti guardavano con scetticismo alla squadra di Massimo Fagnano. Poi Ecoremed è diventato un esempio virtuoso nella regione. Un laboratorio verde che ha una missione anche sociale e culturale. Molte scolaresche, infatti, vanno in gita a visitare i siti bonificati, Doce c’era degrado e un ecosistema ferito, ora c’è un presidio di legalità. “Dimostriamo loro che la popolazione può riappropriarsi di territori saccheggiati dalla camorra, interrompendo la catena di illegalità su terreni agricoli dimenticati”, spiega Fagnano.
Il riscatto di una regione
Altri progetti legati a Ecoremed hanno trasformato alcune discariche abusive in parchi o campi da calcio, , spazi verdi troppo spesso cancellati dall’abusivismo edilizio. Un messaggio di speranza per le generazioni future. “Le ferite che il nostro territorio ha subito nel tempo non sono maledizioni senza rimedio – dice Di Gennaro -. Si possono curare con competenza, cultura e civiltà. Per non permettere più che queste cose si ripetano. E’ questa la lezione per i nostri ragazzi”.
Ecoremed ha coinvolto anche l’assessorato all’agricoltura della regione Campania, Arpac, e Risorsa, una piccola società di ricerca. Poi, nello scorso maggio, è arrivato un premio della commissione europea: è stati inserito tra i nove migliori progetti (su quasi 500) del biennio. Ora si sta definendo un protocollo d’intesa con il commissariato campanoalle bonifiche per estendere il modello all’intera regione.
Antonio di Gennaro, 16 gennaio 2018
Poi c’è la storia del bosco che salvò una scuola, in mezzo alle campagne di Licola, e dei giovani reporter, con la loro professoressa Loredana; di un pugno di ricercatori che voleva capire se la terra era veramente perduta; e di un funzionario pubblico che ci credeva, e il bosco lo piantò davvero, per curare i suoli che erano feriti.
La “Don Salvatore Vitale”, è la scuola media di Licola, in via Madonna del Pantano, in mezzo ai polders bonificati negli anni ’30, una campagna verde strepitosa di canali, macchie ombrose di bosco e canneti, che sembrano i paesaggi del “Cucciolo” della Rawlings. La scuola è un piccolo campus ordinato, di palazzine basse color zolfo, uno dei pochi pezzi di Stato nella città dispersa del litorale; qui si spengono i fasti balneari della marina di Varcaturo, con la selva anarchica di insegne e villette, resta solo il frinire delle cicale.
Siamo a Giugliano, il comune diventato in meno di un trentennio, senza che alcun piano lo prevedesse, la terza città della Campania, la trentatreesima d’Italia; stando al rapporto sull’infanzia di Save the Children, una delle città più giovani del paese. Nella primavera 2014 il comune è commissariato, la rimozione dei rifiuti va in tilt, e via Madonna del Pantano diventa uno sversatorio. Ai bordi della strada di campagna, i cumuli di immondizia ogni giorno prendono fuoco, assieme agli alberi e gli sterpi, il fumo ammorba l’aria, invade le classi. Per protesta le famiglie ritirano i ragazzi, per una settimana la scuola resta deserta, poi l’emergenza in qualche modo rientra, ma la ferita rimane. Nel frattempo va in onda l’intervista di Carmine Schiavone a SkyTg24, il racconto di una terra avvelenata, la gente ora ha davvero paura, c’è tensione e rabbia, fare scuola qui è diventata una cosa davvero difficile.
Loredana Moio insegna lettere alla Vitale, è una di quelle donne serie e appassionate, che nella scuola pubblica credono ancora. E’ avvilita, non sa che fare, poi le viene un’idea. Orientarsi nel flusso impazzito di informazioni è difficile per un adulto, figurarsi per un adolescente o un bambino: senza una qualche comprensione, rimane solo la paura che paralizza, la manipolazione facile, la nevrosi. Per quanto difficile e faticoso, è necessario aiutare i ragazzi a ragionare, a sottoporre le notizie a un esame critico, e la strada che Loredana sceglie è quella del giornalismo, l’inchiesta sul campo: parte così il progetto “Giovani reporter”, Loredana lo presenta alla dirigente scolastica, che la incoraggia ad andare avanti. Così, i maggiori esperti in materia ambientale vengono invitati alla Don Salvatore Vitale, si sottopongono alle interviste scrupolose dei ragazzi, che poi scrivono in gruppo gli articoli, e montano i servizi filmati per You Tube.
Un incontro in particolare lascia il segno, è quello con l’agronomo Massimo Fagnano, docente alla Federico II, che dirige un progetto di ricerca europeo per fare il check-up della pianura campana, e capire se veramente la terra è ammalata. “Quello che ha colpito i ragazzi” mi dice Loredana “è la franchezza che Massimo ha avuto sin dal primo momento, precisando che lui avrebbe parlato solo delle cose che conosce, cioè di agricoltura. Esortando i ragazzi a pretendere da ciascuno le risposte giuste, perché sulla Terra dei fuochi tutti si improvvisano esperti, soprattutto di cose che non sanno, con i sacerdoti che parlano di salute e di prodotti agricoli, i medici di contaminazione dei suoli, gli scrittori un po’ di tutto.”
Massimo spiega ai ragazzi che i risultati del progetto, al quale lavorano un’ottantina di ricercatori, dicono che gli ecosistemi agricoli sono a posto, i prodotti agricoli, anche quelli delle campagne di Licola, sono sicuri; che è necessario profondere ogni energia nel combattere i roghi, mettere in sicurezza le discariche, ma la terra è sana, nonostante le speculazioni, le offese e la sciatteria. Insomma, i timori e le preoccupazioni vanno incanalati verso gli obiettivi giusti, ma non bisogna aver paura di tutto.
Per i suoli agricoli poi, che effettivamente i criminali hanno sporcato – una trentina di ettari accertati sino ad ora – il progetto europeo propone l’impiego di piante e microrganismi per risanare e fare pulizia. Insomma, al posto di bonifiche costose, la soluzione è quella di piantare nuovi boschi, il primo sta crescendo proprio a Giugliano, vicino alla discarica Resit, a pochi chilometri dalla scuola San Salvatore Vitale, i giovani reporter sono invitati.
Ci sono anch’io il giorno della visita, ed è una cosa emozionante. I ragazzi arrivano in pullman, a fare gli onori di casa, assieme a Massimo e ai sui colleghi, c’e Mario De Biase, commissario alle bonifiche delle discariche di Giugliano. Mario è figlio di agricoltori, il padre coltivava ciliegi tra Marano e Carinola. E’ stato il primo, nel 2011, in largo anticipo sulla grande paura, a far analizzare dall’Istituto Superiore di Sanità le pesche, le fragole, i friarielli e gli altri prodotti coltivati nell’area attorno alle discariche. Nel report dell’Istituto superiore risultò chiaramente che nessun campione risultava fuori norma o contaminato, fu pubblicato anche in rete, ma nessuno volle crederci.
C’è però un podere, in località San Giuseppiello, dove i camorristi, a cavallo degli anni ’90, sversarono fanghi di conceria provenienti dalla Toscana, sei ettari stupendi di frutteto, che sono ora sporchi di zinco, cromo e idrocarburi. Mario ha saputo del progetto europeo, vuole curare i suoli oltraggiati impiegando i nuovi metodi. “Le tecniche tradizionali di bonifica, finiscono col distruggere il suolo agricolo, che viene scavato e portato via, oppure sigillato sotto un lastrone di cemento, come è successo all’Expo di Milano. E poi costano molto, e sono soldi che in questo momento lo Stato non ha. Ad ogni modo, la fertilità è persa per sempre, il risultato, alla fine, è l’urbanizzazione. Parliamo tanto di consumo di suolo, poi non facciamo niente per evitarlo”.
Detto fatto. Al posto del frutteto, i ricercatori dell’università, dopo aver analizzato il suolo palmo a palmo, impiantano a San Giuseppiello una fabbrica verde, fatta di ventimila pioppi, assieme ad erbe e microrganismi, che lavora instancabilmente a ripulire la terra, e tenere in sicurezza il sito. Durante tutto il processo, l’intero ecosistema è monitorato, in un esperimento a cielo aperto su un’area grande come dieci campi di calcio.
Ora i giovani reporter camminano tra i filari del pioppeto, è una mattina di sole, hanno preparato per Massimo e Mario una raffica serrata di domande, vogliono sapere come funziona, quali sono gli obiettivi e le difficoltà, filmano e registrano tutto, nell’intrico di foglie lucenti che tremano nel vento. “I ragazzi” mi dice Loredana “hanno il diritto sacrosanto di capire, altrimenti rimarranno disadattati a vita. Questo bosco è per loro l’esempio che i problemi ci sono, ma possono essere compresi e affrontati. Il lavoro da fare ora è con le famiglie, i genitori, che ancora incontrano difficoltà ad orientarsi, a recuperare un rapporto col territorio, a capire cosa è giusto fare”.
Dovremmo tutti, prima o poi, visitare il bosco nuovo di San Giuseppiello, un’area verde che non sarà espressione della grande storia, come Capodimonte o i Camaldoli, ma della cronaca amara dei nostri anni difficili. Dovremmo visitarlo prima o poi questo parco di sei ettari dove, mentre i suoli si rigenerano, un piccolo miracolo è comunque già avvenuto, con il paesaggio che ritorna al posto dello squallore, lo Stato si riappropria di un pezzo di territorio, i ragazzi della loro scuola, una terra impaurita sceglie di guardarsi in faccia, e riprendere finalmente il cammino.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 2 febbraio 2018
Stando ai dati del ministero per i Beni culturali, la Campania è risultata nel 2017 seconda solo alla Toscana per numero di visitatori dei musei e dei siti monumentali. Eppure, scorrendo la graduatoria dei siti regionali che hanno contribuito al successo, si scoprono presenze inattese e storie da raccontare.
Dopo le superstar – Pompei, Ercolano, Reggia di Caserta, Museo Archeologico, Paestum, Capodimonte – a sorpresa compaiono infatti in classifica le Grotte di Pertosa-Auletta, con 61mila visitatori paganti, con una crescita del 30% negli ultimi due anni, ed è un po’ come il Leichester che vince il campionato inglese, la matricola che a sorpresa entra con autorevolezza nel giro delle grandi.
I motivi di curiosità sono molteplici, a partire dal fatto che il sito di Pertosa-Auletta è tra i primi in graduatoria a non avere alle spalle una gestione statale.
Qui non troviamo il ministero e la soprintendenza, e neppure investimenti milionari, ma due piccole comunità, poco più di tremila persone in tutto: due minuscoli centri alle spalle degli Alburni, tra un mare di olivi e boschi, nel paesaggio ordinato di quella terra di mezzo che è il Cilento interno, tra la Campania e la Basilicata. Auletta e Pertosa hanno saggiamente deciso di non farsi la guerra, e gestiscono insieme le grotte, attraverso una fondazione che si chiama Mida (Musei integrati dell’ambiente), nata nel 2004, che ha tra i soci fondatori, oltre ai due comuni, la Provincia di Salerno e la Regione. Quello di Pertosa-Auletta è quindi un modello di gestione dei beni culturali e ambientali “dal basso”, diverso e complementare rispetto a quello “ministeriale” dei siti più blasonati.
L’altro motivo di interesse è che dietro il successo non ci sono solo le grotte, ma tutto un sistema di musei, e una rete di attività di promozione e ricerca, che hanno trasformato l’intero paesaggio dei due comuni in un grande museo del territorio, e fatto della fondazione Mida una delle principali aziende culturali della Campania.
Di queste cose parlo con Francescantonio D’Orilia, il presidente della fondazione, passeggiando il lungo fiume, un corridoio ombroso di alberi, davanti all’ultima creatura Mida, il Museo del suolo di Pertosa. Franco è una delle persone che queste cose ha cominciato a immaginarle e vederle una quarantina d’anni fa, da ragazzo con la cooperativa “Carlo Levi” già lavorava per il riscatto di queste terre, ha vissuto le ultime lotte contadine degli anni ‘70, poi il terremoto del 1980, che poteva essere la fine di tutto, e invece è stato l’inizio.
«Fu allora che capimmo che bisognava giocare d’attacco, smetterla di piangerci addosso, e costruire un presidio attivo delle nostre terre. La chiave che individuammo è quella della conoscenza: per contrastare il declino e lo spopolamento, e cambiare l’inerzia delle cose, dovevamo studiare gli equilibri che il terremoto aveva sconvolto – economici, agricoli, insediativi, sociali. E soprattutto essere consapevoli del capitale naturale sul quale potevano contare. Non solo le grotte quindi, ma l’archeologia, l’agricoltura, il paesaggio. Dovevamo andare oltre la visita rapida delle scolaresche e dei turisti di paesaggio. È così che abbiamo scoperto, anzi ri-scoperto molte cose fondamentali. A Pertosa-Auletta c’è un raro esempio di cultura palafitticola in grotta, che risale all’età del bronzo, 1500 anni prima di Cristo. Le palafitte, sommerse dall’acqua del fiume che scorre lungo i tre chilometri di caverne, si sono miracolosamente conservate fino ad oggi. La scoperta è di fine ‘800, ma gli studi più recenti hanno accertato che le grotte sono state frequentate come luoghi di culto in età greco-romana, fino al medioevo, quando erano dedicate all’Arcangelo Michele».
I reperti archeologici che raccontano questa storia lunga tremila anni sono conservati nei musei di Napoli, Salerno e Roma, ma la fondazione Mida ha pensato che occorresse allestire qui, sul territorio, un luogo per raccontarla, e così è nato il Museo speleo-archeologico, un edificio di architettura moderna ben inserito nel contesto, la piazza di Pertosa bella e aggraziata, con le facciate del centro storico dipinte di suggestivi colori pastello. Nelle sale del museo, le ricostruzioni accurate della vita quotidiana di quei nostri lontani progenitori.
L’ultima realizzazione, sempre a Pertosa, è il Museo del suolo, il primo in Italia, uno dei pochi al mondo con quelli di Wageningen e Washington. L’ha pensato la direttrice scientifica della Fondazione, la professoressa Mariana Amato dell’Università della Basilicata. «La nostra idea», mi dice Mariana, «è che le grotte, con la loro suggestione e bellezza, sono il nostro primo museo, perché è proprio in questo mondo segreto, che puoi veramente capire come le acque le rocce e la terra lavorano per dare vita ai paesaggi visibili, quelli nei quali viviamo, e che ricadono sotto la nostra percezione». Il Museo del suolo si è rivelato subito un successo, con più di diecimila visitatori nell’ultimo anno e mezzo.
All’interno sono esposti monoliti dei più importanti suoli della Campania, con presentazioni multimediali che spiegano i meccanismi della fertilità e della produzione agricola, ma anche i processi di autodepurazione, che fanno del suolo il principale filtro dell’ecosistema, a protezione della nostra salute.
Sempre in tema di agricoltura, la fondazione Mida ha realizzato un questi anni un progetto di ricerca per salvare la preziosa varietà locale di carciofo, il bianco di Pertosa, tradizionalmente coltivato sui terrazzi fertili lungo il Tanagro, che rischiava di scomparire, insieme agli agricoltori e ai paesaggi agrari tradizionali. Ora è nato un presidio Slow Food, i ricercatori dell’Università di Salerno hanno studiato le particolari proprietà di questa pianta, e l’antico carciofo ha riportato un buon successo all’ultimo Terra Madre di Torino.
«Quello che è chiaro», mi spiega D’Orilia «è che tutte queste attività non possono reggersi sul volontariato. La Fondazione ha quindici dipendenti, giovani del luogo, che hanno dovuto studiare e migliorarsi per costruire una loro professionalità, ed ora fanno le guide ai musei e alle grotte, conoscono le lingue, si occupano della promozione, dei rapporti con gli enti di ricerca e con la stampa, dell’accoglienza ai dei turisti. C’è poi una rete di collaboratori esterni, docenti universitari, giornalisti, economisti, che ci aiutano a ideare e promuovere i progetti di ricerca. Tutto questo lavoro evidentemente deve essere remunerato, e noi ci riusciamo con la vendita dei biglietti, 604mila euro nel 2017, stando alle tabelle del ministero è un incasso superiore a quello del Museo di Capodimonte.
L’introito medio è di 10 euro, e per giustificare questo esborso dobbiamo garantire una qualità elevata, e rinnovare continuamente l’offerta. Quindi, non solo le grotte, ma i musei, le gite in canoa sul Tanagro e il rafting per i più ardimentosi, i laboratori didattici per le scuole, ma anche la sagra del carciofo. Dobbiamo invogliare i nostri visitatori a programmare una permanenza più lunga, che comprenda magari anche la visita agli altri gioielli del Cilento, come la Certosa di Padula o il centro storico di Teggiano».
Assistiamo così al ripetersi, in questo paesaggio integro e appartato, a un’ora appena di autostrada dalla città, di un modello di rinascita del territorio, assai simile a quello che sta restituendo speranza ai quartieri storici di Napoli, a partire dalla Sanità, e colpiscono soprattutto le similitudini: il puntare sui giovani, la conoscenza e la formazione; sulla sostenibilità economica di esperienze che devono essere in grado di reggersi da sole, al di là dei finanziamenti pubblici. Sono i semi di una nuova economia cooperativa, dal basso, e la scommessa è ora quella di passare da una graduatoria arida di siti e musei, per quanto lusinghiera, a un sistema, una rete di territori che tenga finalmente insieme tutte queste cose.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 2 gennaio 2018
Il viaggio alla città senza più suolo l’ho fatto in metro, superato il canyon verde del Vallone San Rocco il treno procede in superficie, sulla distesa di case; l’ultima fermata di Piscinola-Scampia non è una stazione, ma una muraglia alta, che separa la periferia di Napoli da qualcosa di diverso ancora, la periferia della periferia.
Trovo ad aspettarmi Alessandro Visalli, ho sempre pensato fosse tra le menti più attrezzate della nostra generazione, un gentlemen che non alza mai la voce. Sono venuto per capire cosa lo ha convinto ad accettare una missione impossibile, quella di fare l’assessore all’urbanistica del comune di Arzano. Secondo l’ultimo rapporto ISPRA sul consumo di suolo, Arzano è la città d’Italia col più elevato grado di urbanizzazione (83%), seconda solo a Casavatore (90%), e seguita da Melito (81%), tutte e tre sono qua, in un fazzoletto di terra, patologie tanto estreme, da frustrare sul nascere ogni velleità di rimedio, controllo, governo.
“Qui è proprio sull’urbanistica che si sono schiantate le forze politiche e le istituzioni” mi spiega Alessandro, mentre ci dirigiamo in auto verso il Municipio. “Negli ultimi dieci anni il comune è stato sciolto due volte per infiltrazioni camorristiche, la prima volta c’era il centrosinistra, la seconda il centrodestra. Si andava avanti con un vecchio programma di fabbricazione degli anni ’70, in teoria avrebbe dovuto funzionare come norma transitoria di salvaguardia, in attesa di un piano regolatore che in quarant’anni non è arrivato mai. Nel vuoto delle regole, col malaffare istituzionalizzato la città si è moltiplicata per dieci, dopo il terremoto del 1980 non si è capito più niente, il casale agricolo si è saldato col capoluogo e i comuni confinanti, al posto della canapa e dei frutteti ora c’è una distesa abusiva, informe di case e condomini.”
E’ su queste macerie che è nata la nuova amministrazione, le elezioni di giugno le ha vinte Fiorella Esposito, una vita nella scuola pubblica e nel sindacato, a sorpresa ma non tanto si è aggiudicata il ballottaggio, con il sostegno di Dema, Rifondazione e di due liste civiche, espressione di un tessuto di associazioni e di volontariato che ad Arzano, nel deserto della politica, rimane prodigiosamente vivo e vitale. Fiorella aveva bisogno di un urbanista bravo, fuori dai giochi, e ha chiamato Alessandro.
“Non si è perso tempo” mi dice Visalli “Subito abbiamo messo mano al nuovo regolamento edilizio. E’ lo strumento che regola le piccole trasformazioni, adeguamenti, cambi di destinazione del patrimonio esistente, l’uso degli spazi pubblici. Sembra niente, ma ad Arzano è una rivoluzione, perché in una situazione così congestionata, è la somma degli innumerevoli, minuti cambiamenti quotidiani che finisce col definire il volto della città.” Così, dopo quarant’anni la città torna a darsi regole certe, con le decisioni che si prendono al di sopra del tavolo, in piena luce, con procedure trasparenti.
La novità riguarda proprio la terra, perché il regolamento edilizio, oltre a bloccarne l’ulteriore consumo, condiziona il rilascio delle autorizzazioni alla produzione di nuovo suolo: chi intende fare mutamenti deve impegnarsi a de-impermeabilizzare le superfici asfaltate, a dare respiro alla terra, consentendo all’acqua e all’aria nuovamente di infiltrarsi, alle piante di crescere, all’ecosistema di ripartire, nella forma di un albero, un filare, una semplice aiuola. L’obiettivo, è di fare in modo che le corti del centro storico possano rinverdire, tornare ad essere gli orti e gli arboreti interclusi di quarant’anni fa. E’ un’idea semplice ma rivoluzionaria, quella di far girare al contrario il contatore del consumo di suolo; in ogni caso la sola possibilità di riequilibrio che rimane, quando la terra l’hai già consumata quasi tutta.
Piazza Cimmino, dov’è il municipio, sarebbe anche bella con la corona di lecci, la torre civica e il campanile; nel frattempo il sindaco è arrivato, ci riceve in sala giunta. Fiorella Esposito ha grandi occhi, il volto aperto che dice cocciutaggine ed energia. Lo slogan della sua campagna era “Arzano è un’isola”, voleva dire che la città soffre perché chiusa in un recinto, un pezzo di area metropolitana non connesso con niente, mortificato da assi mediani e superstrade che dividono più che unire.
“Arzano” mi spiega Fiorella “è una città contro. Contro i bambini, gli anziani, i deboli, le giovani famiglie. Senza servizi e spazi pubblici. Il trasporto pubblico si arresta a Napoli, alla stazione di Piscinola: nel progetto di metropolitana regionale a suo tempo immaginato dall’assessore Cascetta era prevista una stazione vicino l’area ASI, poi non se ne è fatto più niente. Abbiamo chiesto al capoluogo e alla città metropolitana di escogitare insieme forme di integrazione del servizio, ma il dialogo è difficile. Solo connettendosi Arzano può tornare a vivere. In questo isolamento, a parte l’area ASI, che pure dà segni di ripresa, tutte le attività economiche sono in sofferenza, i negozi chiudono, il tessuto sociale ferito dalla lunga crisi non ha la forza di riprendersi”.
Già, l’area ASI si estende su quasi il 40% del territorio comunale, Arzano rimane una delle città industriali più importanti della Campania e del Mezzogiorno; sino ad oggi l’area produttiva ha goduto di un regime di sostanziale extraterritorialità. “Quando vengono le delegazioni dalla Cina o dal Giappone, l’ASI provvede in proprio a riasfaltare le strade lungo il percorso, e ogni volta ripeto loro che se gli asiatici sbagliano strada, finiscono comunque per smarrirsi nello sgarrupo, sarebbe quindi meglio lavorare insieme”. Un primo risultato Fiorella l’ha ottenuto, l’ASI ha accettato di condividere il nuovo regolamento edilizio, è possibile a questo punto immaginare un percorso unitario di governo del territorio comunale, amministrazione ed imprese, all’insegna dell’interesse pubblico.
Nel pomeriggio breve di dicembre la piazza già imbrunisce dietro i vetri, gli uccelli chiasseggiano sui lecci, è il momento per una passeggiata in centro storico, il luogo dell’identità e della memoria, che ad Arzano, come in tutti gli altri casali, sono vive, nonostante tutto. Nello stemma della città figurano, stilizzate, le foglie di lino e di canapa, le colture che fino al 1960 fecero la prosperità dell’agrotown. Per Fiorella la memoria rimane la risorsa essenziale per provare a ricostruire qualcosa.
Ci accompagna Antonio Risi, dalla Regione, dove è stato a lungo responsabile dell’Autorità ambientale, ha deciso di trasferirsi qui, in frontiera, per dirigere l’ufficio urbanistica e condividere l’avventura. Nel crepuscolo percorriamo in silenzio le vie tortuose, le corti che si aprono una nell’altra, l’atmosfera è suggestiva, l’impianto originario ha miracolosamente resistito. In centro storico sono rimasti a vivere gli anziani, i meno abbienti, gli immigrati, ma Fiorella sogna si possa ripetere, in piccolo, qualcosa dell’esperienza napoletana, con forme di riscoperta e rivitalizzazione del borgo antico.
A sera, lungo la strada del ritorno, ripenso alle cose viste e ascoltate. Chi avrebbe immaginato di trovare, proprio in uno dei segmenti più scombinati e sofferenti del sistema metropolitano, tentativi così seri di rinascita e riscatto. “Arzano è un’isola” dice Fiorella, ma anche la Sanità in fondo lo è, il fatto nuovo sono i Robinson, le persone di qualità che su queste isole hanno deciso di costruire ponti e barche, che stanno lottando per la vita, mettendosi in gioco: è la sola energia autentica in circolazione, non importa come andrà a finire, ci sono idee che tornano buone per l’intera area metropolitana, è il caso di prestare ascolto, farle crescere, di dare una mano.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 16 novembre 2017
Dopo i polmoni verdi della città – Capodimonte, Camaldoli, Ponticelli – resta da raccontare il parco che verrà, quello promesso di Bagnoli, e avremmo voluto camminarci, percorrerlo per vedere come stanno le cose, ma la richiesta di accesso non ha avuto risposta, non ci resta allora che guardarlo dall’alto, in questa mattina dolce di inizio novembre, e girarci ancora intorno, come solo, da vent’anni a questa parte, è possibile fare. Mi accompagna nel viaggio Massimo Di Dato, animatore dell’Assise di Bagnoli, lui questa storia l’ha vissuta tutta, da quand’era studente con serietà e competenza ha continuato a lavorare per tenere viva la fiamma della discussione e della partecipazione civica, nel frattempo la chioma fulva s’è tutta screziata d’argento.
Davanti Città della Scienza troviamo facce amiche, ci accompagnano attraverso i padiglioni semibui, per la fondazione è un’altra giornata difficile, c’è assemblea dei lavoratori, i volti sono scuri, chiediamo di affacciarci un attimo alla terrazza più alta, ed eccola infine la distesa deserta del parco, c’è solo l’auto della vigilanza che si aggira minuscola intorno alla cattedrale rossa dell’acciaieria, le giraffe arrugginite dei nastri trasportatori; la sorveglianza del vuoto deve essere un formidabile esercizio zen.
Già, il vuoto. E’ l’ossessione, il sentimento di privazione irreversibile che attraversa tutto il libro di Ermanno Rea, lo sgomento per la “desolata radura, piena di ferite”, lo “sterminato vuoto” che rimane dopo lo smontaggio e la demolizione di Ferropoli, com’era chiamata la fabbrica, “… fumifera città rossa e nera … sovrastata da un cielo incandescente, pieno di lampi: si srotolava per chilometri tra strutture verticali e orizzontali, spiazzi, fasci di binari, carriponte lunghi sino a ottanta metri e oltre, neri cumuli di residui minerali, strade, colmate a mare, pontili, navi, lampioni, camion, gru alte come palazzi”.
Ora è silenzio, questo vuoto sconfitto, pieno di ferite lo abbiamo davanti, ma è chiaro che non è così. La storia dei paesaggi e degli ecosistemi non ammette lacune, c’è una storia che continua al di là delle intenzioni degli uomini, bisogna saperla leggere. Lungo tutto il Novecento, l’acciaieria voluta da Nitti per dare lavoro alla città, come tutti gli impianti simili al mondo, ha colmato il paesaggio che aveva intorno dei suoi residui e sottoprodotti. I suoli fertili dell’antica piccola pianura costiera sono stati sepolti da una coltre di scorie, loppe e minerali ferrosi, profonda da pochi decimetri, fino a più di sei metri. Nell’arco di un secolo si è creato un nuovo ecosistema, e con questo dobbiamo ora fare i conti, perché il vuoto in natura non esiste, né è possibile riavvolgere il nastro degli eventi.
Il fatto curioso è che le loppe d’acciaieria, le rocce vetrose prodotte assieme all’acciaio da quel vulcano tecnico che è l’altoforno, hanno proprietà pozzolaniche, proprio come le ceneri prodotte dai vulcani naturali. Quelle rocce artificiali ora la natura va trasformando in nuovi suoli, e a guardarla bene la radura sì è già riempita di un suo particolare mosaico vegetale, con brughiere di cespugli bassi su cui ora volteggiano uccellini, ballerine gialle; boschetti di pioppo, macchie di roverella e ginestra, oltre naturalmente agli eucalipti e ai pini che abbiamo piantato noi. E’ il trionfo del “terzo paesaggio” descritto da Gilles Clément, la natura instancabile che si riprende, trasformandoli, gli spazi vuoti della civiltà umana, costruendo reti verdi, inaspettate e impreviste, di biodiversità.
Ed infatti, subito una coppia di poiane che abita l’area si stacca in volo dai lecci di Coroglio, incuriosita dal piccolo drone sibilante che Riccardo Siano sta pilotando sui sentieri del parco in auto-costruzione, girano intorno al volatile meccanico che ha osato irrompere nel loto territorio, speriamo che non sferrino l’attacco.
Davanti allo spettacolo, con Massimo ragioniamo del fatto che a questo punto il parco c’è già, mancano solo le persone, e la sola cosa da fare allora è quella di aprire i cancelli, abbattere il muro, e consentire finalmente ai cittadini di riprendersi l’area, ristabilire un rapporto, iniziando quel percorso assolutamente necessario, descritto da padre Loffredo per il centro storico, di trasformazione degli spazi in luoghi, recuperando tutta la loro storia e identità, ricucendo reti di attività, rapporti e relazioni.
In questi tempi difficili per le finanze pubbliche, non solo da noi, ha preso forza in urbanistica il filone degli “usi temporanei”: se i programmi di recupero urbano sono costosi e richiedono tempo, può essere saggio tenere il vivo il rapporto tra le gente e i luoghi, facendo di necessità virtù, consentendo attività transitorie, che non confliggano con le trasformazioni.
Con l’aeroporto nazista di Tempelhof, a Berlino, quello dal quale Indiana Jones parte in dirigibile assieme a Sean Connery, i tedeschi stanno facendo proprio così, come ha raccontato Federica Dell’Acqua nel suo saggio su un numero recente di Meridiana dedicato alla deindustrializzazione. Quello di cui abbiamo bisogno a Bagnoli, ora, è di aprire subito al pubblico il grande “temporary park” che già c’è, valorizzando il lavoro che la natura ha fatto al posto nostro, mettendo fine a un deserto che è solo nelle nostre menti.
Per fare questo, bisogna uscire dalla trappola della bonifica. Vedrete, le analisi di rischio dimostreranno che per ampie porzioni dell’area non c’è alcun rischio serio che ne impedisca la fruizione. I soldi della chimica allora sarebbe meglio spenderli per le infrastrutture di trasporto, invece che usarli per rimuovere la colmata, che è parte della storia dei luoghi, ed a questo punto è preferibile che resti dov’è. D’altro canto, le analisi dell’ABC hanno dimostrato che l’acqua della falda, a monte della barriera idraulica è pulita, l’arsenico, il ferro e il manganese ce li ha messi il Padreterno, eppure ci ostiniamo a depurarla, spendendo inutilmente, anche qui, un sacco di quattrini preziosi.
Ora il drone si è posato obbediente ai piedi di Riccardo, anche le poiane sono volate via; il paesaggio che abbiamo davanti, tra il mare e la cornice verde dei rilievi flegrei – da Coroglio ai Camaldoli ai versanti esterni d’Agnano – è veramente unico, straordinario, grandioso. Basta solo conoscerne un po’ la metrica, la storia. Lo spavento del vuoto è passato. E’ ora di tornare sulla terra, a riprenderci il parco che c’è già.
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