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Venerdì scorso in giro per la piana de l’Aquila, in questa primavera di nuvole grigie e acqua, con Antonio Perrotti, per preparare il convegno del 5 aprile per il quarto anniversario del terremoto. Antonio è uno di quegli strani italiani, come direbbe Erbani, che con la loro testardaggine civile tengono viva la Repubblica, nonostante tutto.
Il centro storico è sempre lì, i soldi sono stati dissipati nelle smanie paternalistiche del progetto C.A.S.E. Nel mentre, gli edifici della città fantasma restano ingabbiati con travi e tiranti, o avvolti nei costosissimi ponteggi della Marcegaglia. Intorno, nel gioiello agricolo della piana, tra le cime innevate, impazza la città fai-da-te, di villette finto provvisorie, in una straniata Casoria di montagna, ugualmente eterna come l’originale.
Quanto visto venerdì a l’Aquila è metafora del Paese. Allo stesso modo a Roma, in carenza di fiducia, leadership e progetto, Napolitano tenta di mettere in sicurezza il quadro istituzionale, concedendo un altro giro a Monti – sempre più armatura vuota, come il cavaliere inesistente di Calvino -, con il puntello dei Violante, Bubbico e Giorgetti, al posto di tiranti e impalcature.
Così inferrettata la città della politica tenta di star su, di prender tempo, sempre più svuotata, disertata,in attesa, mentre la vita pulsa altrove.
E’ uno degli hot spot di biodiversità più importanti della Campania: un’area umida estesa più di cento ettari, nelle terre basse di Villa Literno, miracolosamente incastrata tra la città abusiva del litorale domizio e il retroterra disordinato dell’agro aversano e giuglianese. Un paesaggio misterioso, con un reticolo capillare di canali e specchi d’acqua che lambiscono campi erbosi di argilla e torba nera, a ridosso della duna massacrata dall’abusivismo. Terra e acqua, e silenzio. Bidognetti ne aveva fatto un’area protetta: l’aveva requisita ai proprietari, interdetta, attrezzata con bunker in cemento, al riparo dei quali i suoi scagnozzi si dilettavano a sparare ai migratori di passo, rari Cavalieri d’Italia, Pernici di mare e Gallinelle d’acqua, che a questi stagni si posavano affranti dal lungo viaggio d’Africa.
Su queste paludi, la cui bonifica millenaria è stata completata nella prima metà del ‘900, era in antico la tremenda Silva gallinaria, che da Cuma si prolungava lungo costa sino al Circeo, bosco mortifero di febbri e predoni. A Liternum, ai bordi della selva, era la masseria di Publio Cornelio Scipione, vincitore di Annibale, che scelse queste terre difficili per il suo ritiro sdegnoso, giurando che la Repubblica non avrebbe avuto nemmeno le sue ossa.
Dopo le indagini della magistratura e il sequestro Soglitelle è stata espropriata, diventerà una riserva naturale regionale, c’è già un finanziamento ministeriale e un progetto. Speriamo.
Se nel ventennio berlusconiano il paese non ha avuto prima una sua deriva peronista è stato grazie ai tre presidenti. Che non erano tutti di sinistra: cattolico democratico il primo, laico-azionista il secondo, post-comunista il terzo, seppur da sempre su posizioni moderate. Quello che il satrapo col cerone non riesce proprio a digerire è un tratto che ha accomunato le tre figure: la fedeltà alla Costituzione del ’48 vissuta come progetto indefettibile, come religione civile.
E’ facile vedere allora come l’elezione di un presidente alle vongole, post-costituzionale, alla Pera o Letta, per tacer di Schifani, priverebbe il paese di un bilanciamento essenziale. Perché il peso elettorale delle forze riconducibili all’arco costituzionale vale oramai solo un terzo del totale, e la tendenza è verso un ulteriore raggrinzimento. Il resto è una congerie di populismi assortiti, che nella primordiale assenza di responsabilità e senso istituzionale, gioiosamente trovano motivi di vitalità, inafferrabilità, forza.
Anche chi come il sottoscritto non conosce bene il fenomeno, sta rapidamente apprendendo che il tono della comunicazione grillina rimane costantemente sintonizzato sul Vaffa-day, tra l’irrisione, l’insulto, la minaccia. La scelta non è nuova, abbiamo già ascoltato in passato personaggi come Craxi e Bossi , ma anche rodomonti di scala minore, come Renato Brunetta e Luigi de Magistris.
Una certa umiltà o prudenza, quando governi, ti vengono dalla durezza dei fatti, ed in effetti i toni del povero neosindaco 5 Stelle di Parma sembrano ora molto più dialoganti e pacati.
Ad ogni modo, la burbanza grillina è certamente corroborata dal buon vento elettorale, ma in democrazia il numero dei voti serve a stabilire chi decide, non chi ha ragione. Per quest’ultima cosa rimane necessario il dibattito pubblico, che presuppone un minimo di urbanità, di capacità di argomentazione, immedesimazione, ascolto.
E di pazienza, anche e soprattutto con i troll.
“E’ l’ultimo atto ufficiale che compio, sono felice che sia qui” ha detto Napolitano commentando a caldo la commemorazione assieme al presidente tedesco Gauk delle vittime della strage nazista di S. Anna di Stazzema. Alla fine i due anziani leader si sino abbracciati a lungo, in modo irrituale, rimanendo avvinghiati l’un l’altro, ed è in quell’abbraccio il testamento politico di Giorgio Napolitano.
Difficile non provare rispetto, nonostante tutte le perplessità, per il vecchio presidente. E’ lui il grande sconfitto delle ultime elezioni, il suo disegno è andato in frantumi. Il governo tecnico ha certamente evitato il baratro, ma ha fornito a un Berlusconi spacciato l’occasione di riciclarsi ancora una volta, a Grillo materiali robusti per la sua affermazione, a un Pd frastornato ulteriori motivi di logorio e sfibramento.
Nel corso di quest’anno abbiamo definitivamente compreso, ove ce ne fosse stato mai bisogno, che Monti non è Ciampi, né Prodi, e neanche Padoa-Schioppa. Mentre la Merkel non è Kohl.
La cancelliera farebbe bene a leggere il libricino profetico che rese celebre il giovane Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”, nel quale si scongiuravano i vincitori del primo conflitto mondiale di non vessare la nazione tedesca con condizioni impossibili, perché la sofferenza economica avrebbe comportato lo sfacelo della democrazia. S’è visto poi quanto avesse ragione.
L’esito del progetto del vecchio presidente, il suo dramma personale, sta nel fatto che le elezioni che dovevano tenerci in Europa hanno consegnato il 60% del parlamento italiano a una desolante congerie di populismi anti-europeisti.
In quell’abbraccio tra i vecchi presidenti c’è la consapevolezza tragica della gravità del momento, un’indicazione fragile per il futuro.
In questi giorni incerti di avventure arrischiate, velleità, ostinazioni, furbizie, improvvisazioni, se mi chiedessero di riavvolgere il film, di indicare l’inizio della storia che ci ha condotti sin qui, non avrei alcun dubbio nel tornare al ’98, alla caduta del primo governo Prodi.
Ci dissero che si andava verso equilibri più avanzati, invece avemmo l’osceno crepuscolo del centrodestra, sino alla regressione adolescenziale del grillismo. Fisiologica quest’ultima, magari necessaria, per carità.
Penso sia stato allora che l’ala s’è spezzata. Quel governo magari affrontava il riequilibrio dei conti e le riforme lungo traiettorie socialmente sostenibili. C’era il tempo, la sensibilità, la qualità. Evitandoci lo sprofondo, la macelleria che abbiamo dovuto acriticamente trangugiare.
Certo, continuo a mettermi in fila ogni volta per le primarie. Ma, onestamente, è più un tornare a quella possibilità negata, che l’adesione a un progetto che non c’è.
“Chiamò la sera tardi Daniela, per chiedermi se l’indomani passavo al cantiere di via Diaz. Nello scavo della metropolitana gli archeologi avevano trovato qualcosa. Il fatto è che faccio un lavoro strano: studio i suoli, le terre. Osservando in sezione i diversi strati, analizzandone le caratteristiche minute, cerco di immaginare il paesaggio nel quale il suolo si è formato, il tipo di vegetazione che vi cresceva, come è stato coltivato, la sua storia insomma.
La mattina andai presto al cantiere. Era nella parte alta di via Diaz, all’incrocio con via Toledo: una fossa misteriosa, protetta da una recinzione in lamiera e rete metallica, in mezzo ai palazzi d’affari e alle strade trafficate della city.
Trovai Daniela all’ingresso ad aspettarmi.
La mattina era luminosa. Percorremmo il cantiere sino al fondo dello scavo, ma un’occhiata dall’alto bastò a capire. Alla base del cratere i trowel, le spatole precise e delicate delle archeologhe, avevano ripulito una superficie bruna, piana, segnata da una scacchiera regolare di piccole assolcature.
Nel cuore del centro storico della città, tra i palazzi dello sventramento laurino, i lavori del Metrò avevano riportato in luce il suolo sul quale gli antenati di 4.000 anni fa sperimentarono per la prima volta l’agricoltura. Davanti a noi si presentava in originale l’atto costitutivo di Campania felix.
Io quel suolo l’avevo visto altre volte. A nord, nell’Agro aversano, verso i Regi Lagni, affiora ancora in superficie, non sepolto da eruzioni successive, sedimentazioni, riporti. Su di esso, nei ritagli superstiti dell’urbanizzazione, crescono maestosi i filari di vite maritata al pioppo. Questa terra nera si è formata dalle ceneri dei vulcani flegrei, all’ombra di una foresta che copriva a perdita d’occhio l’intera piana campana.
I nostri antenati neolitici l’abitavano, un po’ come oggi gli Indios la giungla amazzonica: diboscavano piccole superfici, dove costruivano villaggi di capanne e, oltre a raccogliere e cacciare, imparavano a coltivare. è proprio l’humus di quel bosco preistorico a dare al suolo la sua tinta scura, insieme alla fertilità che ancora oggi alimenta i filari rigogliosi di asprinio.
Quella mattina, se chiudevo gli occhi nel cantiere di via Diaz, immaginavo l’antico suolo, testimone silenzioso delle origini, elemento fondativo di una civiltà, stendersi in continuità sotto i palazzi la città le strade le automobili le persone affaccendate, per riemergere a respirare molti chilometri a nord, all’ombra di festoni di tralci che tremano nel vento.”
(da “La terra lasciata”, di Antonio di Gennaro, Clean edizioni)
I solchi venuti alla luce sull’antico suolo neolitico, nel cantiere della metropolitana di via Diaz, primordi agricoli di 4.000 anni fa.
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