Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 marzo 2023
Si presenta oggi alle 16, nella sala “Catasti” dell’Archivio di Stato, il libro di Vezio De Lucia “L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana”, DeriveApprodi editore, con gli interventi della direttrice dell’Archivio Candida Carrino, del giornalista Francesco Erbani e di Laura Lieto, assessore all’urbanistica e vicesindaco del comune di Napoli, moderati dalla storica dell’ambiente Gabriella Corona direttrice dell’ISMED- CNR.
Nel libro c’è il racconto agile e denso, 120 pagine che si leggono d’un fiato, del percorso difficile e contrastato lungo il quale la giovane repubblica ha guidato il paese nel passaggio brusco alla modernità: i pochi cruciali decenni, a partire dal secondo dopoguerra, nei quali il volto e l’organizzazione territoriale dell’Italia sono mutati irreversibilmente, dall’assetto rurale millenario, a quello odierno, metropolitano, dell’ottava economia mondiale.
L’importanza del libro sta nel fatto che non si tratta di una ricostruzione asettica, perché all’urbanistica e alle politiche per paesaggio e l’ambiente Vezio De Lucia ha dedicato l’intera vita professionale, amministrativa, politica, spesso con ruoli rilevanti, e allora molto del fascino e del calore che il racconto sprigiona sono proprio legati al carattere di testimonianza diretta, critica, apertamente schierata sulle vicende narrate, con l’obiettivo di tentare un bilancio, ma anche di indicare, nonostante le difficoltà, frustrazioni e battute d’arresto, una direzione futura possibile.
Nel racconto, un ruolo importante lo hanno le figure notevoli che De Lucia ha incontrato, che lo hanno ispirato, a fianco delle quali ha lavorato e lottato, su tutte quelle di Antonio Cederna, cui è dedicato un intero capitolo, e poi Eddy Salzano e Italo Insolera, le cui foto in bianco e nero nella sezione finale del libro visualizzano con straordinaria efficacia molti dei temi affrontati.
I fili che la narrazione segue sono molti, ma quello principale è legato all’incapacità drammatica, mostrata dalla Repubblica italiana nei suoi quasi ottant’anni anni di vita, di dotare il paese, sull’esempio delle altre democrazie liberali europee, di una disciplina nazionale sull’uso e la pianificazione dei suoli, in sostituzione della legge urbanistica fondamentale, che continua a rimanere quella promulgata dal regime fascista nel 1942.
Nelle democrazie europee di maggiore tradizione, a partire da quella inglese, il fatto che il suolo non sia un bene di mercato come un altro, ma una risorsa irriproducibile, disponibile in quantità limitata, sul cui utilizzo l’autorità pubblica debba mantenere una potestà superiore, a garanzia dell’interesse e del benessere collettivo, è ritenuta la precondizione affinché una vera economia di mercato possa svilupparsi. Principi sacrosanti, che in realtà sono presenti anche nella nostra Costituzione, in un pugno di articoli aurei – 3, 9, 32, 42, 43 – dai quali non è però mai scaturita da parte del parlamento una legislazione ordinaria conseguente.
Quello che rimane in Italia, dopo la riforma del Titolo V, è un mosaico disforme di leggi regionali la cui somma, è evidente, non è in grado minimamente di definire quell’idea unitaria e coerente di paese della quale abbiamo bisogno per convivere e competere nel contesto globale, e per assicurare ad ogni cittadino, sostenibilmente, la giusta quota di beni e servizi pubblici.
Preso atto di questo quadro di debolezza complessiva, la proposta di De Lucia per il futuro è improntata a un assai ragionevole pragmatismo operativo: per chi volesse in Italia spendersi ancora per la pianificazione pubblica delle risorse ambientali, dei paesaggi, dello spazio di vita delle persone, è inutile a questo punto puntare su nuove leggi, quanto sull’uso intelligente di quelle che già ci sono, a partire da ciò che rimane dalla legge fondamentale del ’42, dai principi importanti contenuti nel Codice del paesaggio del 2004, dall’integrazione delle leggi specialistiche per la difesa del suolo e per le aree protette, che pure sono una conquista importante dell’ultimo scorcio di ‘900.
Questo vale anche e soprattutto per Napoli. In più occasioni nei suoi interventi pubblici il vicesindaco Laura Lieto, che è anche assessore all’urbanistica e interverrà come detto nella presentazione del libro, ha affermato che il piano regolatore vigente è stato e rimane una risorsa per la città, con la sua visione di tutela delle aree verdi e del centro storico, e di trasformazione delle aree industriali dismesse a oriente e occidente della città. Quel piano, che ha decretato lo stop al consumo di suolo, è stato pensato all’inizio degli anni ’90, quando Vezio De Lucia ha ricoperto per poco più di tre anni la carica di assessore all’urbanistica nella prima giunta Bassolino.
E’ evidente dopo trent’anni, in questo mondo nuovo nel quale ci tocca vivere, profondamente mutato dalla crisi climatica, la pandemia, lo sviluppo della rete, gli assestamenti imprevisti nei rapporti internazionali, che l’amministrazione debba impegnarsi nella redazione di un nuovo piano urbanistico comunale, rinnovando la strategia di tutela attiva dei beni pubblici e del patrimonio storico, e liberando finalmente le trasformazioni a Bagnoli e a Napoli Est, intrappolate da una bonifica autoreferenziale all’italiana, che non ha mai termine, guardando alla scala metropolitana dei problemi e delle soluzioni. Perché alla fine, come scrive De Lucia nelle righe finali del volumetto, l’urbanistica contemporanea deve essere conservatrice e rivoluzionaria, come il partito pensato da Enrico Berlinguer.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 21 marzo 2023
E’ bella e opportuna la scelta dei carabinieri forestali di celebrare insieme domani, ad Avellino, le due giornate internazionali che l’ONU ha voluto dedicare alle foreste (21 marzo), e all’acqua (22 marzo): le due risorse sono strettamente legate all’interno dell’ecosistema-mondo, il ruolo dei boschi nel ciclo complesso che produce l’acqua dolce per la vita quotidiana dell’uomo e degli altri viventi è assolutamente determinante, si tratta di cose che dobbiamo proteggere e curare insieme.
Così come è bella e opportuna la decisione di celebrare l’evento regionale ad Avellino, a partire dalle 9.30 presso l’Auditorium BPER Banca, al Centro direzionale “Collina Livorini” in Via de Due Principati 143, nel quadro delle iniziative organizzate a scala nazionale. L’Irpinia è uno dei cuori verdi della Campania, è in questa terra una parte cospicua del patrimonio boschivo regionale, ed è chiaro che non stiamo parlando non solo di ambiente e paesaggio, ma di una risorsa multifunzionale che contribuisce all’economia, al lavoro, alla sicurezza del territorio, insomma alle condizioni di vita nelle nostre aree interne.
Il punto di partenza è l’importanza che la risorsa forestale e quella idrica hanno per la nostra regione. Il 37% del territorio regionale è coperto da boschi, e la tendenza è in aumento, la copertura forestale è raddoppiata in un settantennio, toccando armai una superficie complessiva vicina ai 500.000 ettari, come effetto del drammatico abbandono del nostro Appennino, che rimane per inciso, a partire dall’Irpinia, la più grande fabbrica di acqua dolce del Mezzogiorno d’Italia.
Diversamente da altre parti del mondo, dove il bosco complessivamente è in arretramento, da noi il problema è quindi quello contrario: prendersi cura dei nuovi boschi, che sono cresciuti senza chiedere il permesso, ed ora hanno bisogno della nostra attenzione, perché l’abbandono non è una strategia perseguibile, come la Costituzione dice, e come gli incendi del Vesuvio e le frane di Sarno e Casamicciola (tutti eventi nei quali il bosco ha giocato un ruolo determinante) hanno drammaticamente ricordato. Curare i nostri boschi, usare con sobrietà l’acqua preziosa della quale disponiamo, è questa la strada per contribuire alla lotta difficile al cambiamento climatico, al degrado delle risorse essenziali alla vita.
Scorrendo il programma della giornata è evidente l’intenzione di organizzare su questi temi fondamentali non un evento, ma una giornata di ragionamento e lavoro, alla quale prendono parte le istituzioni ai diversi livelli, l’università con le sue missioni di ricerca, formazione e promozione territoriale; il mondo della scuola, con il coinvolgimento attivo di docenti e studenti di una decina di istituti secondari afferenti ai più diversi indirizzi umanistici, scientifici, tecnici, artistici.
Insomma, intorno alla gestione sostenibile dei boschi e alla protezione e all’uso responsabile della risorsa idrica può nascere in Campania una nuova economia, nuove opportunità e percorsi di lavoro qualificato per i nostri ragazzi: la giornata di oggi ad Avellino serve proprio a questo, a proteggere la nostra terra, a rilanciarne la bellezza e l’economia, partendo da un un’alleanza tra istituzioni, scuola, mondo della ricerca, è da questo gioco di squadra che possiamo ripartire.
Due presentazioni, a due giorni di distanza, due pomeriggi a Napoli, ma sono pagine di una storia sola.
Si inizia il 29 marzo, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con la presentazione del libro importante nel quale Andrea Costa e Sauro Turroni hanno racconto gli scritti, i discorsi parlamentari, le proposte di legge di Antonio Cederna (“Antonio Cederna, un giro d’orizzonte”, Biblion edizioni).
Poi il 31, all’Archivio di Stato, la presentazione dell’ultimo libro di Vezio De Lucia, “L’Italia era bellissima. Città e paesaggio nell’Italia repubblicana” DeriveApprodi editore.
Le due locandine, su Horatiopost nei prossimi giorni, qualche riflessione a proposito.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 24 febbraio 2023
E’ evidente che la scelta tra la “restanza”, come l’ha chiamata l’antropologo Vito Teti, e il cercare altrove le proprie opportunità di vita e lavoro, non è sindacabile, attiene alla sfera sacrosanta delle libertà personali. E’ altrettanto vero però che a scala macro il discorso cambia, un territorio che perde i suoi abitanti un problema ce l’ha, una riflessione è obbligato a farla.
Da questo punto di vista l’ultimo rapporto ISTAT sulle migrazioni, ne ha parlato Bianca De Fazio di recente sulle pagine di questo giornale, offre uno scenario assai preoccupante per il Sud Italia, che perde nell’ultimo decennio 525mila residenti, come saldo tra un milione e 138mila partenze e 613mila arrivi. Maglia nera la Campania che da sola contribuisce per il 30% alle cancellazioni, mentre la provincia italiana che perde più abitanti in assoluto è quella di Napoli, con 17mila partenze.
Stiamo parlando evidentemente di migrazioni interne, di persone che lasciano il Mezzogiorno per le regioni del Nord, la Lombardia prima fra tutte. In questo modo il Sud Italia aiuta il Nord a compensare le sue perdite demografiche, dovute questa volta agli espatri. E’ un fenomeno che riguarda in special modo i ragazzi laureati, 157mila dei quali hanno scelto di trasferirsi in regioni del Nord. La conclusione, secondo il rapporto ISTAT, è che “… le giovani risorse qualificate provenienti dal Mezzogiorno costituiscono dunque una fonte di capitale umano per le aree maggiormente produttive del Nord e del Centro del Paese e per i paesi esteri.”
In un simile scenario, non è nemmeno più possibile considerare l’emigrazione un rimedio doloroso ma in qualche modo salutare per i territori, come poteva scrivere Manlio Rossi-Doria alla metà del secolo scorso, perché consentiva di riequilibrare un rapporto sbilanciato tra sovrappopolazione e scarsità di risorse.
Era quella un’altra Italia, premoderna, la metà degli occupati lavorava in agricoltura, ora sono il tre e mezzo per cento. Nella fase storica che viviamo la perdita di abitanti corrisponde a un impoverimento netto, a un’erosione ulteriore della rilevanza che il Mezzogiorno ha negli equilibri nazionali.
Al tavolo dove si distribuiscono le risorse, dove già siamo soccombenti, alla fine è un circolo vizioso che rischia di autoalimentarsi, tra irrilevanza e ritardo di sviluppo, con la rete dei servizi essenziali che con le regole che si stanno decidendo, a partire dalla scuola, si sfilaccia e indebolisce sempre più.
Le aspettative per il cittadino non sono rosee. Ragionevolezza vuole che occorra tempo per invertire la rotta, servono “i cavalli dal fiato lungo” dei quali parlava sempre Rossi-Doria, con orientamenti e scelte perseguite tenacemente, superando le discontinuità e i cambi dei governi locali.
Tutto questo, per di più, in un contesto nazionale non favorevole. Nella nostra Costituzione sono scritti insieme i principi dell’unità della Repubblica, dell’impegno a ridurre le distanze tra persone e territori, dell’autonomia, ma il bilanciamento attuale è tutto a favore di quest’ultima, con i primi due ridotti a parole di circostanza. L’egoismo e il particolarismo prevalgono.
Sarebbe il momento giusto questo per considerare chi siamo veramente, non un deserto indistinto ma un mosaico di problemi e risorse, di aree di sofferenza, ma anche di cose che funzionano, e l’affermazione del Calcio Napoli può essere di stimolo e di esempio, di come sia possibile affermarsi ad armi pari, sul campo, puntando su un proprio modello organizzativo, un’applicazione, una strategia, uno stile di gioco.
E’ quello che dovremmo cercare di fare a una scala diversa, eludendo con scaltrezza lo spot fasullo nel quale molti vorrebbero relegarci: l’agricoltura e il turismo sono senza dubbio importanti, sono elementi di attrattività, ma da soli non bastano, quando va bene formano un quarto del pil, il resto lo fanno l’industria, la manifattura, i servizi, possibilmente non come li abbiamo pensati nel ‘900, sfasciando il paesaggio, ma con una visione e uno stile nostro, da proporre con coraggio, col fiato lungo, sui campi dove si gioca il destino del Paese.
La riflessione di Paolo Pileri pubblicata oggi da Repubblica Napoli.
“Nessuno ha diritto a trattare la terra come l’avaro il suo gruzzolo d’oro”. Queste parole, così forti e belle che Marguerite Yourcenar fa dire all’imperatore Adriano, nascondono una questione sulla quale l’Italia si è incartata da tempo: l’uso incosciente del suolo. Dove la parola ‘incosciente’ non è un caso, visto che l’uso coscienzioso implica avere chiaro in testa proprio cosa è il suolo e a quali valori culturali ed ecologici riferirsi per rispettarlo. Soprattutto nella testa di urbanisti e decisori politici ai quali la comunità dei cittadini consegna la delega dei piani dove si decide come usare il territorio, che diventerà l’ambiente e il paesaggio per figli e poi nipoti. E qui iniziano i problemi.
Già, perché come facciamo a decidere come trattare la terra se non sappiamo cos’è e quali effetti si generano dalla nostra decisione? Da decenni il suolo è visto né più né meno come una piastra pronta a fare da supporto a strade, capannoni, case, impianti e autostrade. Ancora oggi non viene messo in discussione il diritto di un proprietario di domandare di costruirci sopra ed è comunemente accettato che sia ‘giusto’ ricavare dall’urbanizzazione quanto più profitto si può. Il suolo sembra essere lì per quello, solo per quello. Tutti ne sono convinti. Ma è davvero così? La risposta è no.
Ed è per questo che ne discuteremo venerdì 3 febbraio, ore 17.00, alla Casa della Cultura di Pianura (strada comunale Grottole 1) a Napoli a partire dal mio libro “L’intelligenza del Suolo” (Altreconomia, 2022) e da quello di Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, “7 Pezzi facili” (Clean, 2022) che affronta questi temi con riferimento alle periferie e alle campagne urbane della città di Napoli. Parteciperanno all’incontro il presidente della IX Municipalità Pianura-Soccavo Andrea Saggiomo, e Laura Lieto, assessore all’urbanistica del Comune di Napoli, che tirerà le conclusioni. Su questi stessi temi altri due incontri dedicati a “L’intelligenza del suolo” sono programmati nella giornata di sabato 4 febbraio: la mattina a Caserta al Polo Scientifico dell’Università della Campania (Viale Lincoln 5); alle 18.00 alla Casa del Volontariato a Salerno (Corso V. Emanuele 90).
In tutti i tre appuntamenti dimostreremo che il suolo è proprio intelligente oltre a essere un ecosistema fragile e non resiliente dal quale dipendiamo per il cibo, la regolazione climatica, la biodiversità, lo stoccaggio di CO2, la prevenzione dei disastri idrogeologici, la depurazione dell’acqua. Diremo anche che la più grande stupidità che possiamo fare è continuare a trattarlo come l’avaro che guarda solo al suo tornaconto, continuando a fare la sola cosa che sa fare: cementificare come se non ci fosse un domani. Il consumo di suolo è una vera e propria piaga ambientale e sociale che toglie fiato, bellezza e buona vita agli abitanti di oggi e domani.
Mentre il suolo non asfaltato ci regala benefici, quello asfaltato ci dà spesa pubblica. Ma non se ne parla. Porteremo i dati del consumo di suolo della Campania mostrando, anche, quanto si cementifica nelle aree più franose ed esondabili. E proveremo, assieme, ad aprire una nuova traccia per il futuro facendo del rispetto dell’intelligenza del suolo una bandiera sotto la quale generare lavoro, benessere, coscienza civica e un altro modo di intendere il governo del territorio.
E allora, possiamo permetterci di sapere così poco del suolo e della sua fragilità? Possiamo pensare un futuro con altro cemento su suoli agricoli, ritardando la rigenerazione urbana di ciò che già esiste? Fare luce sull’ecosistema che sta sotto i nostri piedi, la pelle del Pianeta, sarà il primo passo per conoscerlo, per essere più consapevoli e aprire gli occhi. Il suolo non è una ‘cosa’ da sfruttare, ma un ecosistema da tutelare che chiede a tutti noi di prendere posizione, di parlarne, di chiedere cambiamento. Possiamo farlo: starà meglio l’unico pianeta che abbiamo. E tutti noi.
Paolo Pileri insegna Pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano
La locandina completa dell’incontro di venerdì 3 febbraio a Pianura per parlare di periferie, suolo, sostenibilità, campagne urbane, qualità della vita
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 30 gennaio 2023
Si presenta stamattina a partire dalle ore 10, nella Sala Cinese del Dipartimento di Agraria di Portici, l’ultimo lavoro di Alessandro Santini “La bonifica e lo sviluppo dell’agricoltura nell’Italia meridionale“, edito da Doppiavoce.
Un’opera destinata a durare, ampia, documentata, corredata da un’iconografia fantastica. Dall’antichità ai giorni nostri, il racconto del lavoro secolare di trasformazione del territorio del Sud Italia e della sua agricoltura attraverso la bonifica e l’irrigazione.
Un progetto di lunga durata nel quale istituzioni, politica, scienza, tecnica e cultura per una volta hanno lavorato insieme, lungo un filo rosso che parte da Antonio Genovesi e arriva a Manlio Rossi-Doria e agli sviluppi odierni, passando per gente come Antonio Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Eugenio Azimonti, Arrigo Serpieri, Emilio Sereni, solo per fare qualche nome.
Il libro è la ricostruzione di una visione del territorio come bene primario, che è parte costitutiva della tradizione del migliore meridionalismo, che ha sempre portato nel suo DNA un’attenzione particolare alla gestione sostenibile delle risorse, come premessa per un benessere sociale durevole, in largo anticipo sullo sviluppo delle discipline ecologiche nel ventesimo secolo.
E’ evidente che non stiamo parlando solo di agricoltura: nel concetto di bonifica del territorio (non per nulla definita “integrale”) non c’è solo il prosciugamento e l’irrigazione, ma l’organizzazione attraverso la realizzazione delle opere pubbliche essenziali – le sistemazioni montane, i borghi, le strade, le strutture e gli spazi comuni – delle condizioni primarie di abitabilità in paesaggi dove la vita e il lavoro dell’uomo nei millenni era stata resa costantemente difficile dal disordine idraulico, dalla malaria e dal latifondo.
Questo in pianura come in montagna, perché quello che a Serpieri e agli altri grandi protagonisti di questa storia risulta chiarissimo, è che in Italia la sicurezza del territorio parte dall’Appennino.
Il risultato è quello di un grande progetto urbanistico di scala territoriale, prima che agricolo, con un altro aspetto determinante, che è l’integrazione dello sforzo pubblico con quello privato.
Così, nella legge sulla bonifica integrale di Arrigo Serpieri del 1924, all’interno di una programmazione e una regia pubblica, lo Stato e i privati lavorano insieme, con l’ente pubblico che si fa carico delle opere di interesse generale, e il privato della realizzazione delle migliorie di scala aziendale.
E’ grazie a questo approccio, proseguito in epoca repubblicana con la Riforma e la Cassa per il Mezzogiorno, che il sud del Paese ha cambiato faccia ed è entrato nella modernità, con le pianure costiere che a partire dalla metà del ‘900 si sono trasformate da paesaggi inospitali poveri d’uomini e attività, nel motore agricolo delle regioni meridionali. Il paradosso è che la bonifica di queste aree preziose ha costituito anche il presupposto per la loro urbanizzazione, che è aumentata di 6 volte in Campania dal dopoguerra ad oggi, passando da 20.000 a 120.000 ettari.
Le conseguenze nefaste sono molteplici: il consumo di suolo fertile, la disorganizzazione dei territori e delle reti, la perdita di senso dei paesaggi storici, e non ultima la migrazione verso la pianura di una fetta consistente di popolazione, con l’Appennino che si spopola e perde dal 1960 il 40% dei suoi abitanti.
Quella che dall’opera di Alessandro Santini risulta molto chiara è l’attualità e la modernità degli approcci raccontati, che risultano ancora pienamente validi proprio nei tempi che stiamo vivendo di cambiamento climatico, di adattamento a condizioni ambientali meno favorevoli, di transizione verso modi di produzione agricola più rispettosi della qualità delle risorse – suolo, acqua, aria, biodiversità, paesaggio – ma anche capaci di contribuire significativamente alla sicurezza alimentare del Paese.
E’ un lavoro che continua: accanto alle briglie e ai canali oggi lavoriamo coi satelliti e i sensori, i modelli previsionali, i sistemi informativi e la rete, ma lo spirito e la visione restano gli stessi, è lo stesso albero che continua ad offrire buoni frutti al Mezzogiorno e al Paese.
Si inizia domani mattina, lunedì 30 gennaio, al Dipartimento di Agraria di Portici, con la presentazione del libro di Alessandro Santini “La bonifica e lo sviluppo dell’agricoltura nell’Italia meridionale“, edito da Doppiavoce. Un’opera destinata a durare, ampia, documentata, corredata da un’iconografia fantastica. Il racconto del lavoro secolare di trasformazione del territorio attraverso la bonifica e l’irrigazione, nel quale istituzioni, politica, scienza, tecnica e cultura per una volta si sono messe insieme, in un filone che parte da Antonio Genovesi e arriva a Manlio Rossi-Doria, passando per gente Giuseppe Maria Galanti, Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Eugenio Azimonti, Arrigo Serpieri, Emilio Sereni. Un filone culturale che è tutt’uno col migliore meridionalismo, caratterizzato da un’attenzione unica, ante litteram, alla gestione sostenibile delle risorse come premessa per il benessere sociale.
Quindi venerdì pomeriggio, 3 febbraio, a Pianura, per iniziativa del “Corriere di Pianura” si ragione di suolo, campagne urbane e periferie a partire da due libri: “Sette pezzi facili” (Clean ed.) del quale abbiamo già parlato sul blog, e il libricino prezioso di Paolo Pileri “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia ed.). Con Paolo ci saremo io e Giuseppe Guida, il vicesindaco e assessore all’urbanistica Laura Lieto, il direttore del Corriere di Pianura Antonio di Maio. Sarà un bel pomeriggio, l’occasione per dialogare e ragionare con i cittadini di Pianura.
Era rimasto un po’ fermo Horatiopost, ora si riprende. Una raccolta di articoli scritti negli ultimi tempi per Repubblica Napoli.
Posillipo ovvero come ti ricostruisco la città
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 18 gennaio 2023
Questo giornale ha seguito passo passo la vicenda della ricostruzione dei viali distrutti di Posillipo, dando conto di tutti i diversi aspetti, dei punti di vista, dei problemi aperti da risolvere, resta ora da ricomporre il quadro, stabilire finalmente il da farsi.
Alcune cose appaiono piuttosto chiare, a partire dal fatto che il punto critico non è la scelta della specie da impiegare. L’ha spiegato bene il soprintendente Buonomo: prima di pensare agli alberi occorre progettare il suolo destinato ad accoglierli.
Per fare questo è necessario ripensare la sezione stradale, il sopra e il sotto, e ricostruire preliminarmente lo spazio sufficiente di vita, l’habitat idoneo per i nuovi organismi viventi che intendiamo mettere a dimora per i prossimi 150 anni, assieme alla rete intricata dei sottoservizi.
Evitando in questo modo di ripetere gli errori e le forzature dei progettisti del Duce, che per ottenere viali imperiali di pronto effetto piantarono i pini alla metà della distanza necessaria per una loro crescita equilibrata, che è come pretendere di allevare un delfino nella vasca da bagno.
Una volta ricostruito un suolo fertile, è possibile riflettere su quali specie arboree impiegare per i nuovi paesaggi di Posillipo, che è un esercizio di saggezza e responsabilità, si tratta di capire il tempo che viviamo, perché l’ecosistema urbano della Napoli del terzo millennio non è quello (purtroppo) di inizio ‘900, c’è un clima fatto di eccessi e difetti d’acqua e temperatura, di eventi estremi, la vita dei grandi alberi in città è diventata una cosa assai complicata, in più ci sono i nuovi nemici, a cominciare dalla cocciniglia venuta da lontano che i pini del Duce li ha uccisi quasi tutti.
In un contesto ambientale così problematico la proposta dell’assessore Santagada di pensare a un gruppo di specie, in funzione della situazione specifica, piuttosto che a una specie sola, appare assolutamente ragionevole. D’altro canto il piano paesistico vigente è stato scritto quando il cambiamento climatico non era nella nostra mente, e una riflessione serena da parte delle istituzioni competenti, con le necessarie modifiche, sarebbe un atto di ragionevolezza, più che un cedimento.
Rimane il fatto che la ricostruzione di Posillipo potrebbe rappresentare un momento di svolta nella vita della città: la presa di coscienza che il lavoro che abbiamo davanti è quello di mettere in sicurezza e rigenerare il capitale urbano e vegtazionale nella sua interezza, da San Giovanni a Bagnoli.
Per fare questo occorre ricomporre daccapo una macchina comunale svuotata di energie e competenze: per manutenere il verde di Napoli occorrono almeno 20 agronomi in pianta stabile, non i valorosi quattro che lavorano a contratto. Occorrono gli ingegneri e gli architetti, e il flop del concorso con il quale dovevamo assumerne cento e ne abbiamo trovati una decina – l’ha raccontato bene Giuseppe Pulli su queste pagine – riempie la nostra mente di pensieri.
Lotta all’abusivismo e cura del bosco, le due facce della (in)sicurezza territoriale
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 28 novembre 2022
Quando irrompe dal limitare del bosco, sopra via Celario, il fiume di fango e massi ha percorso dal crinale dell’Epomeo un dislivello di 400 metri, dispone già di tutta la sua forza distruttiva, pure l’ago del sismografo impazzisce.
Prima di giungere al mare, gli resta da dilaniare un chilometro di terrazzamenti agricoli, case, persone e automobili e ha ragione Mimmo Calcaterra nella sua intervista al Corriere, siamo di fronte a un evento complesso: non una sola frana, ma una molteplicità di distacchi e liquefazioni, una dinamica che si auto-alimenta, dopo la pioggia anomala di una notte, e la mente va al maggio ‘98, ai giorni tragici delle cento frane simultanee di Sarno e Bracigliano.
Tutte cose che sapevamo già. I suoli vulcanici, sui quali cresce la foresta sopra Casamicciola, sono tra i più fertili al mondo, ma anche i più fragili, per certe loro proprietà chimico-fisiche, che in determinate condizioni di shock e umidità li trasformano in un istante da terra solida in fango.
Abitare queste terre significa perciò da sempre convivere con molteplici rischi: quello vulcanico (l’Epomeo è parte del complesso vulcanico dell’isola di Ischia, tuttora attivo); quello sismico, come la sequela tragica di terremoti, sino a quello recente del 2017, ci ricorda; e infine quello idrogeologico, e qui siamo alle frane di sabato mattina, anche se la prova generale c’era stata nel 2006, sempre a Casamicciola, quando una colata venuta giù dal Monte Vezzi cancellò la vita di quattro persone, insieme alla loro abitazione.
Nonostante i rischi, nella mente degli abitanti ha prevalso lungo quasi tre millenni un legame forte di vita con queste terre, con pratiche collettive virtuose, come quella che ha portato alla costruzione nei secoli dei terrazzamenti storici, coi vigneti e gli orti arborati dell’isola d’Ischia, un ecosistema e un paesaggio rurale di bellezza e valore conservativo inestimabili.
Alle pratiche sociali virtuose sono seguite quelle distruttive, parliamo della sciagurata proliferazione nell’ultimo sessantennio, proprio nelle aree più a rischio, ai piedi della montagna fragile, di un tessuto disordinato e continuo di edilizia fai-da-te, che ha moltiplicato per sette la superficie urbanizzata: un mosaico scombinato di infima qualità, insicuro, che consuma il suolo e mortifica il paesaggio.
Ad ogni modo, nelle drammatiche foto di sabato, subito dietro le casupole disordinate di via Celario, si vede il mare verde della foresta, la fascia di boschi lussureggianti che ricopre con continuità i versanti alti dell’Epomeo, ed è anche intorno al bosco che i fatti di sabato ci portano a ragionare, perché è lì che il fenomeno è iniziato.
Come questo giornale ha più volte raccontato, dentro l’area metropolitana di Napoli, coi suoi tre milioni di abitanti, la più congestionata d’Europa, è pure presente, contro ogni aspettativa, una superficie forestale di 20.000 ettari, una città verde grande due volte il capoluogo, fittamente compenetrata con quella grigia di cemento,.
Si tratta di una ricchezza enorme, ma anche di un patrimonio di ecosistemi assai fragile, esposto com’è alle sollecitazioni del cambiamento climatico, con la temperatura media che sale, la siccità che morde, e il vento e le precipitazioni che tendono a concentrarsi in eventi a elevata intensità e energia, sempre più frequenti, i cui impatti sulle terre non sono più controllabili.
Se questo è il territorio nel quale ci tocca vivere, la prevenzione di eventi tragici come quello di sabato richiede di lavorare su molteplici fronti, cominciando da un cambio di marcia nella lotta all’abusivismo, un fenomeno che in queste terre tocca record continentali, ipotecando per il beneficio effimero di pochi, grazie alla storica assenza di controlli, il futuro di intere comunità.
A seguire, ciò di cui pure abbiamo disperatamente bisogno, è una nuova politica di cura e utilizzo programmato dei 20.000 ettari di foreste metropolitane, dai Monti Lattari al Vesuvio alle colline flegree a Ischia, attraverso un lavoro capillare, quotidiano, tenace di governo e messa in sicurezza dei suoli e dei soprassuoli, e di contenimento dei rischi di frana e incendio, il più delle volte conseguenze dei processi opposti, ugualmente nefasti, del sovra-sfruttamento e dell’abbandono.
Come sempre, è un problema di governo, cura e programmazione della casa comune, si tratti della città verde, fatta di foglie e tronchi, come di quella grigia, di pietra. L’alternativa, è la condanna dei nostri paesaggi più preziosi, delle economie locali, delle prospettive di vita delle nuove generazioni di abitanti, a un futuro incerto, un limbo perpetuo di approssimazione, dolore, precarietà, insicurezza.
Gli alberi di Ponticelli, un impegno per il futuro
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 22 novembre 2022
Una mattina a Ponticelli, dopo i giorni difficili della violenza, le istituzioni si sono ritrovate, il Comando forestale dell’Arma dei Carabinieri ha voluto celebrare qui, ieri, in questo quartiere di Napoli grande quanto una città, la Giornata nazionale dell’albero, mettendo a dimora nuovi alberi nel parco pubblico “Fratelli De Filippo”, ed è stato un bel momento di festa, sotto un cielo azzurro e terso, con una presenza folta di bambini, educatori, cittadini, neo-agricoltori degli orti sociali, e i tanti volti della rete di volontariato che è la risorsa inesauribile del quartiere.
Dicevamo le istituzioni, a tutti i livelli di rappresentanza, perché il progetto dei Carabinieri Forestali ha un respiro nazionale, coinvolge insieme a Napoli tutti i capoluoghi di regione d’Italia, è stato pensato in collaborazione con il Ministero per l’Ambiente e l’Unesco, anche questa giornata di Ponticelli è stata organizzata assieme a Regione Campania e Comune di Napoli.
Il progetto si chiama “Un albero per il futuro”, l’idea è quella di partire dagli alberi per ragionare insieme di cura e manutenzione della città, del diritto di ciascuno, si tratti di centro o di periferie, ad abitare un ambiente salubre, gradevole, stimolante; del rispetto della vita e della legalità.
Per tutti questi aspetti, il parco “Fratelli De Filippo” è veramente un luogo-simbolo. L’area verde è enorme, dodici ettari, più grande della Floridiana, è una delle opere della Ricostruzione, realizzato negli anni ’80 restò inaccessibile un decennio, poi finalmente inaugurato all’inizio degli anni ’90, con la prima amministrazione Bassolino. Il resto è una storia triste di declino: dopo decenni di gestione inesistente, la parte fruibile del Parco si arresta ormai al primo ettaro, con il grande piazzale: per i restanti undici, la vegetazione arborea di pini palme oleandri e magnolie è abbandonata a sé stessa, e va evolvendosi in boscaglia, un muro inaccessibile di rovi, con i viali e gli arredi che si sbriciolano e finiscono in malora.
La riconquista palmo a palmo di questo paradiso perduto è opera della comunità locale, della rete di associazioni, scuole, parrocchie fiorita nel tempo attorno al centro diurno “Lilliput” del servizio dipendenze dell’Asl Napoli 1, che ha strappato ai rovi terrazza dopo terrazza, grazie al lavoro di cittadini appassionati e cocciuti, dando vita al giardino di orti sociali tra i più belli d’Italia, stamattina nell’aria fresca e pulita è tutto un ricamo preciso di filari di finocchi verze, cavoli e broccoli di ogni foggia, piante aromatiche, e il verde tenero delle fave.
L’elenco di sigle, organizzazioni enti che tiene in vita questa esperienza unica di riappropriazione dei luoghi è lungo, oltre il centro Lilliput per la cura delle dipendenze c’è il Nucleo Operativo di Neuropsichiatria Infantile dell’Asl Napoli1, le cooperative sociali “L’Albero della Vita” e “ERA”, ed ancora “ReMida”, “Renato Caccioppoli”, “Terra di Confine”, “Ve.Spe”, “ANMIL”, “La Roccia”, il “Comitato cittadino” di Ponticelli; le scuole pubbliche, con gli istituti superiori “Ugo Tognazzi”, “Archimede”, “Calamandrei”, poi certamente la Chiesa di San Pietro e Paolo, con la facciata ocra che dà proprio sul parco e stamattina brilla luminosa nel sole.
Alla fine anche l’amministrazione comunale ha dovuto riconoscere il valore di questa esperienza “dal basso” per molti versi unica nel panorama cittadino, stipulando con il Centro dipendenze dell’ASL Napoli 1 un accordo di collaborazione per la gestione degli orti sociali e degli spazi verdi riconquistati. All’interno dell’accordo, ciascun gruppo, ente, associazione, prende in affido una terrazza, impegnandosi a curarla e coltivarla rispettando un programma di gestione collettivo, costruito attraverso una serie paziente di incontri ed assemblee periodiche per risolvere i piccoli e grandi problemi, e decidere insieme gli sviluppi futuri.
Per le persone che prendono parte all’esperienza, gli orti sociali funzionano di volta in volta come spazi terapeutici, aule all’aperto per imparare la natura, luogo di incontro, di esplorazione, di gioco, di produzione artistica, di cura della persona, con l’agricoltura che rimane nonostante tutto, ancora in questo terzo millennio, il fulcro identitario di questo antico casale, il linguaggio comune, l’elemento di riconoscimento e aggregazione.
I piccoli delle scuole medie ed elementari sono arrivati stamattina con gli educatori delle cooperative sociali, molti di loro vengono da famiglie Rom, ridono e giocano con gli altri, ora tutti assieme aiutano gli operai forestali a mettere a dimora nella grande aiuola sul piazzale i giovani alberi, sono ontani, frassini, farnie, pioppi, olmi, le specie della foresta planiziale che c’era qui nella pianura del Sebeto, prima che i Sanniti fondassero il primo di villaggio, prima che il bosco fosse sostituito poco a poco dal sistema capillare di campi, porche, cavedagne e canali di scolo, il mosaico di orti che ha nutrito la città per duemilacinquecento anni. Tutto è descritto raccontato in una bella bacheca anch’essa dono dell’Arma
In una terrazza degli orti sociali le specie arboree messe a dimora sono invece quelle della tradizione agricola, il ciliegio, il melo, il gelso, il melograno. I bambini guardano gli operai al lavoro, i loro gesti lenti e pensati, capiscono che piantar alberi è un’arte, quella di saper scegliere l’albero giusto, al posto giusto, per la giusta funzione.
Assieme agli alberi, sono parte del dono un grande tavolo, con le panche, tutto in legno massiccio, ricavato da alberi morti per cause naturali all’interno delle riserve naturali dello Stato gestite dell’Arma dei Carabinieri, i bambini non perdono tempo, hanno fame, se ne appropriano subito, accalcandosi tutt’attorno per uno spuntino.
La mattinata volge al termine, l’azzurro si appanna appena un po’, nel grande parco, in mezzo alla piccola folla di cittadini, amministratori, lo stormo variopinto di bambini, le uniformi precise dei carabinieri, cogli come un senso di serenità, di unità, il piacere d’esserci stati, la soddisfazione per il lavoro fatto, per l’attenzione e l’apprezzamento finalmente ricevuto. Ponticelli stamattina è Napoli, è Italia, ha una storia da raccontare, come gli altri trenta quartieri della città, i piccoli alberi cresceranno, se ne avremo cura, assieme a questi bambini, ogni giorno, in un lavoro che non finisce mai.
Sovranità alimentare, istruzioni per l’uso
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 ottobre 2022
C’è grande attenzione al linguaggio in questa fase d’avvio del governo Meloni: il maschile o il femminile delle cariche, ma anche la nuova denominazione di alcuni ministeri importanti. Visitando il Centro Agroalimentare di Roma nei giorni scorsi il neoministro Lollobrigida ha precisato che l’acronimo del suo dicastero sarà “Masaf”, che sta per Ministero delle Politiche agricole, della Sovranità alimentare e forestale.
Dunque, la sovranità alimentare al centro, anche se non è semplice capire di cosa stiamo parlando. Il ministro ricorda opportunamente che non è questa maggioranza di governo ad aver coniato l’espressione, la cui nascita anzi avviene in un’area politico-culturale del tutto diversa, la Conferenza internazionale del movimento “Via Campesina” che si è svolta in Messico nel 1996, e poi il Forum per la sovranità alimentare del 2007 in Mali, nella cui dichiarazione finale è scritto che “la sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente corretti e sostenibili, e il loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli”. Insomma, il concetto di sovranità alimentare nasce in risposta a quello di “sicurezza alimentare”, ponendo l’attenzione sulla difesa dei piccoli agricoltori, allevatori e pescatori locali dagli arbitrii del mercato globale.
L’espressione ha avuto successo, anche grazie al lavoro illuminato e tenace di persone come Carlo Petrini e dell’organizzazione Slow Food da lui fondata, ed è stata adottata a scala mondiale da governi e organizzazioni internazionali. Ciò detto, è evidente che il suo impiego ne ha inevitabilmente modificato il senso se, nelle parole del ministro Lollobrigida, la priorità per l’Italia è quella di “difendere la propria cultura, i propri prodotti, e in questo contesto la sovranità alimentare è contraria all’autarchia. C’è bisogno che la nostra nazione esporti all’estero e per farlo bisogna difendere la qualità perché è la qualità che distingue i prodotti italiani dagli altri che cercano di copiarci in malo modo”.
E’ evidente che qui il discorso si fa lungo, difendere il nostro export è una cosa senz’alcun dubbio fondamentale, ma lo è altrettanto decidere qual è il posto dell’agricoltura nell’economia e nella società italiana all’inizio del terzo millennio e quali siano realmente i margini di sovranità da conquistare.
Il settore agricolo non ha mai occupato nel nostro paese un ruolo tanto marginale. Il cibo e le materie prime che produce valgono solo il 2% del Pil, ma poi attraverso la trasformazione e commercializzazione il loro valore aumenta, l’agroalimentare italiano con tutte le attività correlate vale il 20% del prodotto interno lordo, anche se nella catena del valore agli agricoltori rimangono le briciole.
Resta il fatto che i 900.000 agricoltori italiani, con il loro lavoro quotidiano oltre a produrre cibo e risorse, curano e tengono a posto il paesaggio, sarebbe a dire il nostro brand più famoso, quello che nessuno al mondo è in grado di riprodurre, e stiamo parlando proprio di quell’85% di territorio rurale del paese fatto di coltivi, pascoli, boschi, biodiversità, bellezza.
Tutto questo si chiama “multifunzionalità”, ma la realtà, per ora, è che nelle politiche del territorio, a tutti i livelli di governo, il suolo agricolo continua a essere considerato non una risorsa essenziale, un capitale non riproducibile della nazione, quanto piuttosto spazio libero di conquista per un’urbanizzazione senza logica, pensiero, qualità. In troppi casi l’agricoltore non è garanzia di presidio civile del territorio, nell’interesse generale, ma un ospite indesiderato.
L’unica strategia efficace che rimane al mondo agricolo per difendersi e affermarsi, soprattutto nel Mezzogiorno, rimane quello di serrare le fila, organizzarsi, aggregarsi, aumentare attraverso la cooperazione il proprio peso nella contrattazione e nel dibattito pubblico. Per fare questo sono necessarie politiche nuove, è questo il pezzo di sovranità del quale si avverte maggiormente il bisogno.
Salto nel buio
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 8 novembre 2022
All’editoriale di Ottavio Ragone pubblicato su queste pagine domenica scorsa (“Autonomia, destra e sinistra unite nel “no”) ha in qualche modo risposto ieri, nell’intervista a Dario Del Porto sempre su questo giornale, l’on. Edmondo Cirielli, parlamentare di Fratelli d’Italia e viceministro agli affari esteri del governo Meloni.
Tirando le fila del lungo e approfondito dibattito sull’argomento che Repubblica ha ospitato in questi mesi, Ragone auspicava l’unico atto politico ragionevole: una presa di posizione bipartisan delle forze politiche di ogni ispirazione per scongiurare i rischi di un progetto sgangherato di autonomia in grado solo di spaccare il paese e divaricare ancora le diseguaglianze.
La risposta di Cirielli è netta: “Considero l’Autonomia un fatto positivo per le Regioni più virtuose come Emilia Romagna e Lombardia. Per quelle che invece restano al di sotto dei livelli minimi di assistenza, si possono centralizzare le funzioni, affidando allo Stato il compito di intervenire attraverso un fondo centrale”.
Veramente non avevamo ascoltato sino ad ora nulla del genere. Scopriamo in queste frasi un percorso verso l’autonomia addirittura a doppio senso: in avanti, verso la sempre maggiore emancipazione dallo stato centrale per le regioni “virtuose”; all’indietro, verso uno status di protettorato a sovranità limitata per quelle inefficienti, a cominciare dal Mezzogiorno. E’ evidente a tutti quanto questa prospettiva sia lontana dalla Costituzione, ed equivalga a una bomba a orologeria, dritta al cuore dello stato unitario.
Quanta ideologia poi si celi dietro simili posizioni, solo all’apparenza pragmatiche e fattuali, è evidente a tutti. Se vogliamo parlare di fatti, sono proprio i sistemi sanitari delle aree del paese presentate come “virtuose” – quelli che più avevano puntato sulla privatizzazione e lo smantellamento della sanità territoriale – ad aver mostrato maggiori difficoltà nel contrastare la pandemia.
Qui al Mezzogiorno abbiamo affrontato la bufera con le risorse delle quali disponevamo, che sono di gran lunga inferiori in termini di spesa pro-capite a quelle delle regioni “virtuose”, a causa di un sistema di riparto che premia la spesa storica, che qui da noi è più bassa, ed è basato per il resto su indicatori che penalizzano le regioni demograficamente più giovani. Si tratta evidentemente solo di un esempio, perché lo stesso andazzo si registra per tutti gli altri settori cruciali, si tratti di scuola, assistenza, servizi.
I fatti sono questi, e impongono un ragionamento in direzione ostinata a contraria: per salvare l’unità e il futuro del paese, per avvicinare le distanze territoriali, la strada non è quella di istituire per le aree in difficoltà un nuovo, offensivo status di cittadinanza limitata, ma all’opposto, attuando l’articolo 3 della Costituzione, continuando a rimuovere le cause che queste distanze creano e riproducono.
L’autonomia differenziata fa male al paese. Parole chiare dai vescovi italiani
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 5 settembre 2022
Le corrispondenze di Conchita Sannino dal convegno di Benevento dei vescovi italiani sulle aree interne, pubblicate su questo giornale, hanno dato conto di quello che senza dubbio è il fatto politico più rilevante di questa campagna elettorale: la presa di posizione chiara, netta della chiesa cattolica italiana sull’autonomia differenziata e sui migranti. Nella dichiarazione finale dell’incontro ci sono parole che pesano come pietre: “… qualora entrasse in vigore l’autonomia differenziata, ciò non farebbe altro che accrescere le diseguaglianze nel Paese.”
La cosa importante è che non sono i vescovi del Mezzogiorno a parlare così, ma quelli “… provenienti da tutto il Paese, riuniti a Benevento per riflettere sui criteri di discernimento con l’obiettivo di elaborare una pastorale per le Aree interne”.
E’ all’Italia intera che i vescovi guardano, un paese che si sta spaccando in due non solo trasversalmente ma anche longitudinalmente, tra una galassia di aree metropolitane dove si addensano i due terzi della popolazione, e il restante 80% del territorio, quello dei piccoli centri che gestiscono una ruralità straordinaria e immensa, che continuano a perdere uomini, servizi, risorse, rappresentanza, capacità amministrativa e di presidio.
La cosa inaccettabile, a giudizio dei vescovi, è il divario civile che si è creato e si va sempre più accentuando: la ripartizione ineguale delle risorse tra le due Italie nega sempre più a una quota importante di popolazione l’accesso ai diritti costituzionali fondamentali, a partire da salute, istruzione, assistenza ai più deboli.
La perennizzazione di questo divario, che è poi il fulcro del progetto di autonomia differenziata attualmente in circolazione, sulla base di una spesa storica che già premia i territori che stanno meglio, significa di fatto dire addio, per sempre, all’unità del Paese.
E’ in questa lettura complessiva che si colloca l’affondo sul Mezzogiorno, e l’intervento al convegno di monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vice-presidente della CEI, con tutti i numeri precisi e inoppugnabili del divario, andrebbe studiato nelle scuole.
C’è poi l’aspetto ecologico, dietro quello civile ed economico. Nel suo saluto al convegno di Benevento papa Francesco ha sottolineato l’importanza del lavoro che le aree interne svolgono per il sostentamento della vita: è solo grazie al flusso di servizi ecosistemici di base – acqua e area pulita, alimenti, assorbimento della CO2, difesa del suolo, biodiversità, paesaggio – che le aree metropolitane riescono a vivere. Ciò nonostante, l’opera impegnativa di cura del capitale naturale che le popolazioni delle aree interne svolgono a beneficio del paese intero non trova riconoscimento civile ed economico nelle politiche pubbliche.
I vescovi comunque non si fermano qui. Passando alle soluzioni possibili, nel documento finale del convegno si legge ancora che “i flussi migratori possono costituire un’opportunità per ravvivare molte realtà soggette a un decremento progressivo della popolazione, ma è necessario affinare sempre più la disponibilità all’ascolto, ad assumere, nel rispetto della legge, logiche inclusive, non di esclusione.”
Più chiaro di così. Nel flusso stanco di messaggi incolori che ci giungono in questi giorni, viene da Benevento il progetto di un paese diverso, consapevole di sé, delle differenze e delle difficoltà, e dei modi ragionevoli per provare a superarle. Partendo dalle persone, senza paura, con un sentimento di apertura al futuro e alle cose nuove che verranno. Tutto chiaro, c’è solo da decidere da quale parte andare.
Il mare metropolitano che manca
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 21 agosto 2022
La Campania ha 480 km di coste, per metà sabbiose, l’altra metà rocciose: dalla foce del Garigliano a Sapri, passando per le isole del Golfo, si tratta di un patrimonio notevolissimo e diversificato, con alcuni dei paesaggi marini più belli del mondo. Un patrimonio pubblico, è bene ricordarlo: secondo il Codice civile il lido, la spiaggia e le loro pertinenze sono un bene di proprietà pubblica, fanno parte del demanio, in quanto tale destinato, leggo al volo sulla Treccani, “…all’uso gratuito e diretto della generalità dei cittadini, o comunque a una funzione pubblica”.
Nulla di più lontano dalla realtà, come l’editoriale di Ottavio Ragone ha dovuto ancora ieri crudamente sottolineare: il diritto al mare taglia la popolazione in due, una barriera di filo spinato, non solo metaforica, la divide, vedi l’articolo sempre di ieri di Tiziana Cozzi sui lidi di Posillipo. Certo il fenomeno ha livelli di gravità diversi. Se in Penisola, in Costiera, o nel Golfo di Napoli, l’accesso al mare per un comune cittadino è cosa quasi impossibile, la situazione migliora appena un po’ se ti allontani dall’epicentro metropolitano, a nord lungo le spiagge domizie, oppure a sud verso quelle della piana del Sele, e poi giù sino al Cilento.
Il problema riguarda dunque soprattutto i tre milioni di abitanti della città metropolitana, la parte del territorio regionale maggiormente urbanizzata, che vale il quindici per cento dello spazio, ma dove vive come può il 75 per cento della popolazione campana. Per inciso, una delle aree in Europa nella quale il disagio sociale è più forte, e l’accesso al mare è solo un punto in più nell’elenco lungo dei diritti negati.
Qui, il combinato disposto dell’edificazione della costa (in molti casi abusiva o illegittima), con la privatizzazione di fatto di tratti significativi; di problemi ambientali mal intesi e comunque mai risolti nei litorali post-industriali a est e ovest del capoluogo; della presenza di importanti aree portuali; infine, nei tratti di costa potenzialmente fruibili, delle concessioni balneari; tutto questo riduce pressoché a zero le possibilità di accesso libero per il comune cittadino, a meno che non abbia possibilità e voglia di spendere, per una giornata al mare con la famiglia, almeno un centinaio di euro.
Con questa situazione la direttiva Bolkenstein c’entra poco. La concorrenza è una buona cosa quando si tratta di beni di mercato, le coste non rientrano tra questi, qui il problema è quello di garantire il diritto di accesso a una risorsa comune, che è una cosa che non si risolve aprendo al mercato, ma con il controllo effettivo del patrimonio, sui suoi usi e trasformazioni fisiche, non tollerando l’esistenza di “enclosures” di fatto, assicurando e salvaguardando l’esistenza di tratti ad accesso libero e, soprattutto, per quelli in concessione, stabilendo obblighi di esercizio chiari, che salvaguardino i diritti di base di accesso dei cittadini al lido, alla spiaggia, al mare, come da codice civile.
Come sempre, per l’autorità pubblica il compito è quello di stabilire regole, poi di essere presente e vigilare. Qualche piccolo segnale c’è. Qualche sera fa sulla spiaggia davanti la Rotonda Diaz c’erano ragazze e ragazzi a giocare a pallavolo sulla spiaggia pulita al riparo della scogliera, sembrava d’essere a Barcellona. Le spiagge sobriamente recuperate a San Giovanni a Teduccio sono un altro caso. Certo, rispetto al fabbisogno sterminato di un popolo metropolitano all’asciutto, in attesa dietro il filo spinato, si tratta ancora di frammenti, ma la strada è quella.
Un viaggio nei luoghi simbolo della città, lungo un itinerario in sette tappe, dai grattacieli fantasma del Centro direzionale svuotato, ai paesaggi mondiali di Posillipo distrutti dalla cocciniglia e dall’incuria, al limbo delle aree industriali estinte, a est e a ovest della città, ai quartieri informali ed abusivi. Un racconto pieno di sorprese e imprevisti, pubblicato a tappe sull’edizione napoletana del quotidiano “La Repubblica” con le foto straordinarie di Riccardo Siano, nell’anno secondo di pandemia. Il libro è pubblicato da Clean edizioni ed è fatto di sette pezzi solo in apparenza facili, che riguardano argomenti complicati: il destino di luoghi urbani importanti, lasciati in sospeso, dimenticati, interrotti, insieme alle proposte per rimetterli in gioco, restituirli ai cittadini, ripartendo dal quotidiano, dal temporaneo, dalle cose che possiamo fare oggi, in attesa del meglio.
Ecco la premessa degli autori.
Un urbanista e un agronomo in giro per Napoli. L’intenzione era quella di raccogliere idee, per contribuire al dibattito pubblico su come rimettere in cammino una città sospesa, interrotta, dopo un ventennio di governo stentato, a bassa intensità. È iniziato così il viaggio nei luoghi simbolo della città, nel secondo anno di pandemia, raccontato in sette reportage pubblicati sull’edizione napoletana de la Repubblica, ma anche sul sito web del quotidiano nazionale, a testimonianza di un’attenzione particolare del giornale per i fatti della terza città d’Italia.
Un itinerario in sette tappe, dai grattacieli fantasma del Centro direzionale svuotato dal Covid, ai paesaggi mondiali di Posillipo distrutti dalla cocciniglia e dall’incuria; al limbo senza prospettive delle aree industriali estinte, a est e a ovest della città. Su molte di queste cose avevamo già scritto nel corso degli anni, ciascuno per proprio conto, sempre su Repubblica, ma questa volta occorreva qualcosa di diverso: nel nuovo mondo, del quale anche Napoli evidentemente è parte, scosso dal crack del clima e dal virus globale, dall’irruzione della rete, dalla corrosione della fiducia e della democrazia, almeno come l’avevamo sperimentata nel ‘900; in questo mondo nuovo, per non ripetere inutilmente le stesse parole di prima, bisognava mescolare saperi e punti di vista: muoversi in territorio incognito, per leggere con occhi quanto più possibile sgombri, quel che accade nelle realtà diverse che confluiscono in quella cosa complicata che sbrigativamente chiamiamo “Napoli”.
Il linguaggio e gli strumenti sono naturalmente quelli del giornalismo. I pezzi raccolti in questo volume non sono saggi, ma articoli per i lettori del giornale; ciò che abbiamo fatto semplicemente è scendere in strada, zaino in spalla, per osservare ed esplorare i luoghi, parlare con le persone, respirare i paesaggi, e raccontare tutto in modo diretto, cercando il più possibile di mettere da parte gerghi, specialismi, messaggi rituali per addetti ai lavori. Le foto che Riccardo Siano ha scattato per il giornale, percorrendo assieme a noi i luoghi, sono un elemento essenziale della storia, che spesso comunica più e oltre le parole.
Al ritorno dal viaggio, due o tre cose avevamo soprattutto compreso. La prima riguarda il potenziale umano, l’attaccamento ai luoghi, la capacità delle persone e dei contesti di riorganizzarsi e adattarsi, di costruire pezzi di futuro, anche in assenza di un governo urbano e di un progetto comune. Questo è vero nella città abusiva di Pianura, come nella periferia industriale rarefatta di San Giovanni Barra Ponticelli, o in quella interna, incredibilmente densa, del centro storico: nel deserto della rete istituzionale, si muove tutto un mosaico di iniziative e storie collettive, si tratti di far rivivere la vigna antica dei Certosini sui terrazzamenti medievali di San Martino; di aprire una scuola di frontiera nei Quartieri spagnoli; di costruire orti sociali a Ponticelli, in mezzo al grade parco pubblico in rovina, per combattere marginalità e dipendenze; o di produrre cocciutamente un giornale di quartiere per perpetuare nonostante tutto una storia locale, una prospettiva.
Assieme a questo, la constatazione di quanto sia ancora fragile l’imbastitura che tiene insieme le molteplici tessere che formano il grande mosaico della città. A un secolo di distanza dall’accorpamento alla Grande Napoli della cintura dei casali – da San Giovanni a Pianura, fino agli anni ‘20 del secolo scorso comuni autonomi, con la loro storia, cultura, economia – un progetto unitario di città, ancora stenta ad affermarsi. Nel frattempo i borghi si sono tumultuosamente trasformati in centri urbani di 40, 50, 60mila abitanti, vere e proprie città nella città, ma un’agenda di governo, una strategia amministrativa che tenga conto delle necessità basilari di ciascuno di questi mondi, così diversi tra loro, per associarli finalmente in un’unica comunità di destino, ancora non c’è: la cosiddetta “città dei quindici minuti”, come si dice ora, resta una chimera, e Napoli continua a presentarsi come un’aggregazione provvisoria di villaggi. Alla fine, girando la città, risulta evidente come senza una strategia pubblica che tenga insieme tutto, la resilienza e l’impegno ammirevole di individui e comunità locali da soli non bastano, mentre rimane insopportabilmente largo lo scarto tra l’incredibile capitale umano, territoriale, culturale e simbolico del quale la città continua nonostante tutto a disporre, e le condizioni di vita reali dei cittadini. 17
Un esempio per tutti, l’accessibilità delle aree verdi. Come raccontato nei reportages raccolti nel libro, durante l’epidemia, nelle città del mondo l’uso di parchi e giardini urbani è raddoppiato, a volte triplicato, in risposta alla nuova domanda di spazi aperti di salute e socialità per i cittadini, soprattutto i più piccoli, i giovani, gli anziani.
A Napoli è successo il contrario, l’azzeramento della macchina gestionale e manutentiva del Comune ha portato alla decisione opposta, la chiusura pressocché totale degli spazi verdi, che è suonata come la dichiarazione di resa dei poteri pubblici, condannando la cittadinanza a vivere la forma più desolante di povertà: quella di chi non possiede più nemmeno la forza e la capacità di accedere al patrimonio di risorse che pure gli appartiene, che gli è vicino, ma resta lì, chiuso dietro un cancello, come il bosco appenninico di cento ettari dei Camaldoli, una foresta urbana straordinaria che entra dentro la città, e marcisce silenziosamente nell’incuria.
A Napoli il metabolismo urbano s’è bloccato. Il riciclo delle vastissime aree dismesse 90, 50, 30 anni fa dall’industria novecentesca, che in tutte le città un minimo governate si sarebbe fatto laicamente, senza tanta retorica, con una sobria e rapida messa in sicurezza, qui si è trasformato in un’opera pubblica a perdere, che non finisce mai, che non deve dar conto di sé, bruciando laidamente soldi pubblici, speranze e prospettive. Le eccezioni non sono molte, come il recupero a San Giovanni a Teduccio dell’ex area Cirio, che ora ospita il campus di Ingegneria. Eppure, i reportages nel libro raccontano come, se solo lo volessimo, il sortilegio potrebbe svanire in un attimo, semplicemente aprendo il cancello del parco provvisorio nell’ex area siderurgica di Bagnoli, che la natura con i suoi alberi ed erbe ha già costruito e messo in sicurezza per noi. Poter calpestare nuovamente queste terre è un buon esercizio di democrazia, e un’esperienza urgente, tenuto conto che la vita è breve – nel lungo termine Keynes ci ha ricordato cosa succede – e in ogni caso è bene che l’aria torni a circolare, il resto verrà.
Rileggendo a distanza di tempo gli articoli, ci siamo resi conto di quanto abbia pesato la pandemia. Abbiamo iniziato il viaggio che un vaccino e una cura non c’erano, e un senso di fragilità traspare in tutte le parole che abbiamo scritto. La malattia globale non è un ospite di passaggio, ma un protagonista nel nuovo mondo che ci attende: la vita delle persone e dei luoghi che abbiamo raccontato dovrà ancora fare a lungo i conti con essa. Così come è parte del viaggio il sentimento di gratitudine e riconoscenza provato al momento della vaccinazione, segno tangibile, esemplare del potere dell’azione pubblica, della conoscenza e della democrazia, quando sono chiamate a proteggere la vita delle persone.
Quanto al titolo, riecheggia evidentemente i “Sei pezzi facili” del fisico Richard P. Feynman, il libricino di Adelphi con il testo delle lezioni tenute dall’autore nei primi anni ‘60, su concetti di base come l’energia o la realtà quantistica, con parole e ragionamenti semplici e piani. Insomma i pezzi sono facili, ma gli argomenti difficili. Con le debite proporzioni, anche il libretto che proponiamo è minuto, e tratta di cose importanti – il destino di parti fondamentali della città – cercando di raccontare in modo semplice storie piuttosto complicate, o che sarebbero anche semplici, se avessimo la capacità di affrontarle con più coerenza e costanza. La parola “pezzi” poi, allude sia agli articoli di stampa raccolti nel volume, sia ai pezzi della città che vengono raccontati, ognuno abbandonato a una sua particolare deriva, spezzato dal contesto, in attesa.
Resta da dire qualcosa sulla scrittura del libro. I sette racconti tutto sommato scorrono, il lavoro a quattro mani non si avverte troppo, senza che ci sia stato bisogno, ripensandoci, di un’opera di raccordo particolare. Certo di ragionamenti ne abbiamo fatti, nella scelta dei luoghi, e poi sul campo, mentre l’esplorazione si svolgeva, con tutte le sorprese e gli imprevisti del caso. Ma poi ognuno tornava a casa, e scriveva le cose che credeva. Il fatto sorprendente è come poi i testi si combinassero con facilità, senza bisogno di chissà quali tagli o ritocchi. Comunque, se pure in queste diverse parti una differenza di vedute veniva fuori, non siamo stati lì troppo a smussarla, il lettore forse se ne accorgerà: in fondo, come proponeva Calvino nelle sue lezioni per il prossimo millennio, anche la molteplicità di sguardo può essere uno strumento utile, in questo mondo nuovo e incerto che ci tocca vivere.
Nel febbraio del 2020 con Fabrizio intervenimmo a Treviso al convegno della Fondazione Benetton dal titolo promettente: il suolo come paesaggio. Eravamo in piena tempesta e non lo sapevamo, al rientro a Napoli l’emergenza Covid è esplosa. Ora gli atti del convegno sono stati pubblicati a cura di Luigi Latini e Simonetta Zanon da Antiga edizioni. Ecco il testo del nostro intervento.
Se provi a digitare su Google la parola “terra”, è l’algoritmo a completare la frase, e tra le primissime opzioni compare proprio “terra dei fuochi”. È una conferma della risonanza mondiale delle vicende della piana campana massacrata dall’abusivismo e dai rifiuti, tanto da fare della locuzione un simbolo, un luogo comune, uno stereotipo. Qualcosa che viaggia nel discorso pubblico globale, spogliata alla fine di ogni aspetto misurabile, tecnico, territoriale. La cosa singolare è il fatto che sia stata alla fine l’agricoltura il principale imputato, anche se dopo sei anni neanche uno delle migliaia di campioni di prodotti agricoli analizzati ha rivelato problemi. Circoscrivere il problema è essenziale per definire le possibili soluzioni. Il modo generico ed emotivo con il quale questa questione è circolata sui social network è proprio quello giusto per allevare paure, guardandosi bene dall’indicare possibili strade d’uscita. Quello che abbiamo capito, alla fine, è che la Terra dei fuochi è una malattia del paesaggio. Malattia generata dall’assenza di pianificazione pubblica. Le 140 città intorno al capoluogo partenopeo si sono saldate in un’unica, informe periferia lunga 90 chilometri. In questa città malcresciuta sono rimasti intrappolati i lacerti di Campania felix, i suoli agricoli più fertili della galassia, con 20.000 aziende agricole che, su meno del 10% della SAU (Superficie Agricola Utilizzata) producono il 40% del valore della produzione agricola regionale. Terra dei fuochi è la tragedia dei due milioni di italiani che vivono faticosamente questo spazio che sfida l’umana comprensione. In questa situazione complessa, abbiamo lavorato a numerosi progetti di paesaggio per curare le ferite: gli spazi agricoli mortificati, le cave, le discariche. Alcuni di questi luoghi simbolo, come l’ex Resit di Giugliano, la “madre di tutte le discariche”, ora sono spazi verdi pubblici, abbelliti dai murales di Jorit e dalle istallazioni di land art degli studenti del Liceo artistico di Napoli. Lì vicino, nel podere di San Giuseppiello, dove i camorristi sversavano i fanghi delle concerie toscane, un bosco di 20.000 pioppi lavora per tenere in sicurezza i suoli e le terre. È un laboratorio verde all’aperto in continuo progresso, dove migliaia di studenti delle scuole pubbliche della Campania vengono a studiare e comprendere come si ricostruiscono i suoli e gli ecosistemi, restituendo dignità ai luoghi, e un futuro diverso alle comunità che li abitano.
Il territorio rurale metropolitano come “spazio vuoto”
L’agricoltura e gli agricoltori dell’area napoletana sono presenze invisibili, vittime di un mutamento epocale. Nell’ultimo sessantennio, l’esplosione della città sulle terre fertili della piana ha mutato per sempre un assetto territoriale che resisteva ancora a metà Novecento, e che costituiva il risultato di tre millenni di civiltà. A scala metropolitana, le aree urbanizzate, in assenza di una qualunque pianificazione pubblica, passano dai 20.000 ettari del 1960, ai 120.000 ettari attuali. Nel 1960, i centri urbani erano ancora isole compatte, a confini netti, all’interno di un mare di ruralità, con gli stessi paesaggi che aveva visto Goethe arrivando in carrozza da Roma, in un inverno di due secoli fa. Dopo la deflagrazione, le aree agricole si frammentano, diventano isole verdi incastrate nella maglia delle infrastrutture e dello spazio costruito. Il loro statuto diventa quello indefinito di spazi vuoti, per usare l’espressione di Bauman: “Gli spazi vuoti sono innanzitutto e soprattutto vuoti di significato. Non sono insignificanti perché vuoti: sono piuttosto visti come vuoti (o più precisamente non vengono visti affatto) perché non presentano alcun significato e non sono ritenuti in grado di presentarne uno… …Gli spazi vuoti…sono luoghi non colonizzati e luoghi che nessuno desidera o sente la necessità di destinare alla colonizzazione. Sono, potremmo dire, i posti “restanti” una volta completata l’opera di strutturazione degli spazi più appetibili … La vacuità del luogo è negli occhi di chi guarda e nelle gambe o nelle ruote di chi procede. Vuoti sono i luoghi in cui non ci si addentra e in cui la vista di un altro essere umano ci farebbe sentire vulnerabili, a disagio e un po’ spaventati.”
Questa agricoltura che è intorno alla città, spesso dentro la città, è invisibile all’opinione pubblica, ma anche alle istituzioni. A causa della sua estrema frammentazione, non viene nemmeno più rilevata dall’istat. Nel censimento dell’agricoltura 2010, meno della metà delle aree agricole effettivamente presenti viene censito. Il resto sfugge alla contabilità territoriale dello stato, è territorio invisibile, in attesa di destinazione.
La realtà, al di là delle statistiche stanche dell’istat, è sorprendente. Nonostante gli scempi del passato, il 60% dell’area metropolitana è ancora campagna, con coltivazioni agricole, frutteti, boschi, aree seminaturali, dal lago Patria a Punta Campanella, passando per le colline flegree e il Vesuvio. Un patrimonio rurale straordinario, che costituisce la parte pregiata del tessuto metropolitano.
Ancora, a dispetto di questo clamoroso difetto percettivo, i numeri veri raccontano invece di un’agricoltura della piana campana che, seppur incastrata nei vuoti del disordinato sistema metropolitano, è ancora viva, con un sistema di 38.000 aziende attive, che producono il 40% del valore aggiunto dell’agricoltura regionale, con valori di produzione unitari che sono tre volte la media regionale. Il motore dell’agricoltura regionale, nonostante tutto, è ancora qui.
La salubrità delle produzioni di questa agricoltura degli spazi vuoti – pregiatissime fragole, meloni, insalate, asparagi, pesche mele, cavoli, patate – che pure continuano ad essere acquistate in prevalenza dalla grande distribuzione, e viaggiano lungo le filiere lunghe di mezzo mondo, è stata recentemente messa in dubbio, a causa di possibili contaminazioni dovute ai rifiuti. L’assoluta diffidenza dei consumatori ha imposto per le produzioni della piana campana, una commercializzazione in forma anonima, con quotazioni ricattatorie, inferiori anche del 75% rispetto a quelle correnti, perché lo slogan imperante negli esercizi commerciali è “qui non si vendono prodotti campani”. Prese nella morsa del ricatto le aziende agricole chiudono, e lo spazio agricolo periurbano, in assenza di presidio e manutenzione, rischia di trasformarsi rapidamente in un deserto economico e sociale, una terra di nessuno, disponibile per ogni tipo di speculazione e manomissione.
Eppure, i rigorosi controlli effettuati dicono il contrario: i suoli agricoli contaminati identificati dal gruppo di esperti ministeriale assommano ad una trentina di ettari, mentre gli oltre 5.000 controlli effettuati sulle produzioni, ne hanno evidenziato la completa sicurezza e conformità alle leggi.
In definitiva, le conoscenze delle quali disponiamo consentono di affermare che la piana campana deve sì considerarsi un pezzo di territorio scombinato e sconquassato da un cinquantennale saccheggio, ma soffre alla fine degli stessi mali delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione e urbanizzazione. Si tratta certo di un contesto nel quale le attività agricole devono faticosamente convivere con un sistema urbano fuori controllo, ma almeno sotto il profilo della sicurezza alimentare l’inferno non abita qui, i prodotti agricoli si sono rivelati sicuri: gli spazi rurali continuano a funzionare come elemento di ordine e riserva di futuro, piuttosto che come centri di rischio. I risultati del monitoraggio capillare dei suoli e delle produzioni agricole condotto in questi ultimi due anni dicono questo.
In realtà, le aree da mettere in sicurezza sono perfettamente note da un decennio, sono le poche centinaia di ettari (su 140.000 ettari della piana) di pertinenza delle grandi discariche che per un trentennio hanno ingoiato flussi ingenti, legali e non, di rifiuti urbani e speciali. L’unica cosa da fare è quella di mettere in sicurezza una volta per tutte queste ferite, con approccio sobrio e tempi rapidi, restaurando un paesaggio leggibile, di qualità, e affrontando di petto la causa dei problemi, invece di inseguirne i malintesi sintomi. In assenza di ciò, il risultato, per ora, è l’assegnazione per legge all’area napoletana, da parte della comunità nazionale, di un marchio di inaffidabilità a tempo indeterminato.
Resta il fatto che il mosaico rurubano, fatto di spazi vuoti e poveri pezzi città, il paesaggio senza capo né coda, che si coglie dai viadotti che frettolosamente lo attraversano e scavalcano, è l’ambiente nel quale vivono i due terzi della popolazione provinciale, che ha oramai identificato proprio in questo disordine, nella fatica del vivere quotidiano che esso comporta, la principale minaccia alla propria esistenza e al futuro. La crisi della Terra dei fuochi sta tutta qui, nell’atteggiamento di complessivo rifiuto di un habitat percepito come ostile, a partire proprio dalle sue componenti rurali, considerate in un simile contesto alla stregua di vere e proprie fonti di rischio. Una prospettiva da ribaltare completamente, restituendo alle componenti rurali dell’area metropolitana, il ruolo prezioso di green belt multifunzionali, aree preziose di compensazione ecologica e di conservazione del paesaggio.
Curare le ferite
A partire dal 2012 abbiamo partecipato a ecoremed, il progetto LIFE sulla bonifica ecocompatibile dei suoli agricoli contaminati della piana campana, assieme a un’ottantina di ricercatori dell’Università Federico II di Napoli, un gruppo interdisciplinare di agronomi, biologi, chimici, geologi, medici, urbanisti, ingegneri, economisti coordinati da Massimo Fagnano, docente di agronomia presso il Dipartimento di Agraria.
Per cinque anni lo stato di salute degli ecosistemi agricoli della piana campana è stato studiato a fondo, con un check-up approfondito dei suoli, delle acque, della biodiversità vegetale e animale, del paesaggio, ma anche dell’economia, per capire le ferite che la tempesta mediatica della Terra dei fuochi ha lasciato sulla pelle delle aziende e degli agricoltori.
Le ricadute del progetto sono state molteplici. Innanzitutto, il contributo che il progetto ha fornito al governo italiano per l’identificazione delle aree potenzialmente contaminate, e la messa a punto di tecniche di recupero ecocompatibili, basate sull’impiego di piante, microrganismi e compost, che rappresentano un’alternativa concreta a quelle ingegneristiche. In questo modo, con un costo che è un ventesimo delle bonifiche tradizionali, è possibile salvare il suolo, evitandone l’asportazione o la sigillatura, con l’impianto invece di una vegetazione forestale che aiuta anche a ricostruire il paesaggio.
Un’altra ricaduta importante è stata l’applicazione pilota di queste tecniche, già nel corso del progetto, ad aree problematiche della piana campana, con l’impianto di boschi inerbiti dove trentamila pioppi, come instancabili fabbriche verdi, lavorano ora per estrarre i contaminanti e tenere in sicurezza i suoli e l’ambiente di lavoro.
Il terzo aspetto di rilievo è il lavoro di divulgazione svolto nel corso del progetto, con il coinvolgimento di migliaia di studenti, professori, amministratori, agricoltori: una capillare opera di informazione, per chiarire i reali aspetti della crisi della Terra dei fuochi, e le vie di uscita possibili. Le aree pilota del progetto si sono trasformate in un laboratorio, un’aula all’aperto dove gli studenti delle scuole pubbliche della Campania, con i loro docenti, vengono ad imparare come si cura e si recupera un paesaggio malato.
La storia del progetto ECOREMED è singolare, perché per una volta la ricerca scientifica è riuscita ad operare “in tempo reale”, nel pieno della crisi, con i risultati delle attività di studio che sono stati tempestivamente trasmessi ai ministeri competenti via via che venivano prodotti e validati, ed impiegati nella redazione dei due rapporti governativi sulla Terra dei fuochi, quello sulla mappatura dei suoli agricoli, e quello sugli aspetti socio-economici della crisi. Un’altra notazione positiva riguarda la cooperazione istituzionale, perché in tutta questa vicenda i ricercatori hanno lavorato in stretto contatto con le istituzioni, a partire dall’Assessorato regionale all’Agricoltura, che ha affiancato l’università come partner del progetto europeo.
I risultati di cinque anni di lavoro consentono di raccontare una storia molto diversa da quella mainstream di un’agricoltura inaffidabile e senza futuro, produttrice di rischio e malattia. Se c’è una cosa che funziona nella pianura campana, spezzettata da un cinquantennio di crescita urbana senza regole, sono propri gli spazi agricoli residui, che non sono pochi, rappresentando ancora il 65% del territorio complessivo. In queste aree, dei circa diecimila campioni di prodotti ortofrutticoli esaminati, quelli difformi dalla severa normativa europea si contano sulle dita di una mano, per colpa soprattutto del piombo, che non viene dal ciclo dei rifiuti, ma è quello tetraetile delle benzine super di quindici anni fa, che si è depositato, come accaduto in mezz’Europa, nelle fasce agricole più prossime agli assi stradali.
Anche i suoli agricoli potenzialmente contaminati alla fine sono solo una trentina di ettari, sui cinquantamila presi in esame, e per questi ecoremed ha messo a punto tecniche a basso costo per pulirli e metterli in sicurezza utilizzando boschi inerbiti, la cui azione di bio-fitorisanamento è opportunamente stimolata dall’apporto di compost e microrganismi autoctoni. Questi boschi verdi di fitorisanamento funzionano come sentinelle, consentendo il monitoraggio nel tempo del destino dei potenziali inquinanti nei diversi comparti dell’agroecosistema, ma sono soprattutto presidi di civiltà, il segno che lo Stato è ritornato, e che il paesaggio rinasce.
Il bosco più grande, sei ettari, è stato realizzato a San Giuseppiello, a Giugliano, vicino la discarica Resit, in collaborazione con l’ex Commissariato di governo. Qui, al posto della terra di nessuno, è nato un grande parco pubblico con ventimila pioppi. In questo arboreto magnifico la camorra, come accertato dalle indagini della Magistratura, ha scelleratamente interrato per anni fanghi industriali.
Come detto in precedenza, al posto delle tecniche ingegneristiche tradizionali, estremamente costose, e che per di più non consentono di proseguire con l’agricoltura, nel fondo di San Giuseppiello è stata invece completata l’operazione di messa a dimora di ventimila pioppi: un bosco inerbito che lavorerà negli anni, sotto attento monitoraggio, per ridurre la frazione biodisponibile dei metalli ora presenti nel suolo. Negli hot-spot a più elevata concentrazione di inquinanti sono state seminate specie iper-accumulatrici come la Senape indiana (Brassica juncea) che è tra le specie erbacee più efficaci nell’asportare i metalli.
Il costo dell’intervento è stato circa ottocentomila euro, contro venti milioni che sarebbero serviti con le tecniche tradizionali. Con il vantaggio di conservare queste aree all’uso agricolo, di non consumare il suolo, di ricostruire il paesaggio rurale.
L’impianto del bosco è stato preceduto da un monitoraggio capillare, con campionamenti tradizionali e con tecniche radiometriche innovative, delle effettive condizioni di contaminazione dei suoli. Sono state così prodotte mappe dettagliate, che descrivono lo stato di salute dei suoli sia in superficie che in profondità. In questo modo è possibile intervenire adeguatamente punto per punto, in funzione delle effettive condizioni di contaminazione.
Queste indagini hanno consentito di accertare una cosa importantissima: le particolari proprietà dei suoli vulcanici di San Giuseppiello hanno impedito la migrazione verso il basso dei contaminanti somministrati con i fanghi industriali, evitando che arrivino alle falde. Ad ogni modo, il grande bosco verde che si è finito di impiantare verrà scrupolosamente monitorato dai ricercatori dell’Università Federico II, per seguire l’evoluzione di tutti i parametri chimici e biologici.
Si tratta di un approccio estremamente interessante, perché potrà essere esteso agli altri siti della piana campana che hanno gli stessi problemi, con costi compatibili, ricostruendo e mettendo in sicurezza il paesaggio della piana campana. E’ questo un punto molto importante: a San Giuseppiello non si sta solo recuperando la fertilità dei suoli. Si sta anche ricostruendo il paesaggio. Al posto di un sito degradato, c’è ora un bosco verde che rappresenta anche un presidio visibile di legalità: un luogo nel quale grazie all’azione dei poteri pubblici si sta lavorando per rimediare ai crimini e agli errori del passato.
L’obiettivo è quello di curare i suoli agricoli senza distruggerli ed evitando anche di rimuoverli come se si trattasse di un rifiuto speciale da smaltire in discarica. Si tratta quindi di un approccio ben diverso da quello, per riferirsi a un caso molto noto, messo in campo in occasione di Expo 2015, dove cento ettari di suolo contaminato sono stati sepolti sotto una piattaforma di cemento, sulla quale è stata poi allestita l’area espositiva.
Come detto in precedenza, il bosco di San Giuseppiello è un laboratorio verde all’aperto, ma è diventato anche un’aula, un luogo di informazione e divulgazione, per mostrare e raccontare agli studenti delle scuole pubbliche campane, e ai cittadini, cosa si può fare concretamente per curare gli ecosistemi agricoli feriti, per ricreare condizioni di sicurezza e salubrità, per conservare e curare i suoli feriti di Campania felix.
Conclusioni
La “Terra dei fuochi”, con tutte le sue difficoltà, è stata alla fine anche l’occasione per una riflessione laica, senza slogan e infingimenti, sulle politiche ambientali in Italia, e sulla capacità del nostro apparato legislativo e amministrativo di progettarle e implementarle. È necessario riflettere seriamente sul perché, uno spazio rurale metropolitano, pure dominante dal punto di vista dell’estensione territoriale, alla fine sia diventato trasparente alle politiche pubbliche, assieme ai suoi abitanti, finendo per trasformarsi in uno “spazio vuoto”, un’area di risulta priva di valori specifici, nella quale un sistema urbano fuori controllo può vomitare tutti i suoi problemi ed esternalità.
Il dramma della Terra dei fuochi è tutto qui: la sua collocazione in un’area metropolitana, la terza del paese, ancora priva di un sistema minimo di governo del territorio, di una strategia pubblica in grado di restituire senso e coerenza ad un mosaico scombinato di realtà urbane sofferenti e di poveri pezzi di campagna.
La protesta degli abitanti della Terra dei fuochi – i due milioni di cittadini che popolano l’hinterland metropolitano di Napoli – parte da qua, da un ambiente di vita avaro di opportunità, vissuto come incerto e ostile, nel cui disordine anche gli scampoli di ruralità finiscono per essere percepiti, anziché come risorsa, come fonte di rischio. Se tutto questo è vero, ciò di cui ha disperatamente bisogno la cosiddetta Terra dei fuochi, non sono le bonifiche, anche necessarie, e reclamate a gran voce dell’arcipelago di comitati, che della crisi ambientale hanno fatto una questione identitaria, quanto le politiche.
A questo punto, la missione è piuttosto quella di ristorare i paesaggi, mettere finalmente ordine in un mosaico territoriale fuori controllo; dotare questo sistema congestionato di standard minimi di civiltà, ricreando un ambiente sicuro e attrattivo per i cittadini come per le aziende. In tutte queste cose, si è visto, lo spazio rurale non rappresenta il problema, quanto piuttosto la risorsa dalla quale partire per ricostruire un paesaggio di vita credibile. Sono cose che riguardano la dissestata filiera dei poteri, da quelli locali fino al governo centrale, maledettamente più impegnative degli interventi placebo messi in campo per arginare la tempesta mediatica degli ultimi anni.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 12 marzo 2022
Stando alla sentenza della dodicesima sezione del Tribunale di Napoli, la Repubblica italiana (Comune di Napoli) deve risarcire allo Stato (Fintecna) 80 milioni di euro per la cessione dei suoli di Bagnoli. Non è una partita di giro, ma una questione cruciale di democrazia. Per trovare le parole meglio affidarsi al Devoto-Oli, alla voce “kafkiano” è scritto: “relativo allo scrittore e alla sua opera caratterizzata da un’atmosfera di incubo e da un angoscioso pessimismo esistenziale; incomprensibile, assurdo, cervellotico”. Proprio così, la faccenda di Bagnoli è un incubo dal quale non riusciamo a liberarci, che ci intride di pessimismo, e stentiamo ancora a comprendere.
Trent’anni fa, cessate le attività produttive, la città aveva deciso con procedure democratiche che quelle aree, dopo un secolo di siderurgia, andavano restituite a una più diversificata vita urbana. Dopo l’approvazione del piano regolatore, nel 2006, ci fu una transazione tra il Comune e la proprietà dei suoli, che era di Fintecna, la società nata negli anni ’90 per gestire la dismissione dell’IRI, e che è ora controllata da Cassa Depositi e Prestiti, quindi dal Ministero dell’Economia.
Ora, come ci ha raccontato Alessio Gemma nei suoi articoli dei giorni scorsi, a distanza di 16 anni, una sentenza di tribunale dice che il Comune non ha onorato quell’accordo, condannandolo a risarcire Fintecna con un’ottantina di milioni. Una partita finanziaria che, in questo momento critico per il governo cittadino, è in grado di deciderne la vita o la morte.
D’accordo, si tratta di sottigliezze giuridiche assai complesse. Nessuno si sogna di mettere in discussione lo stato di diritto, né tanto meno il sistema pluralistico e policentrico che è alla base della nostra democrazia. Però santo Iddio, stando alla Costituzione, una differenza deve pur esserci tra un ente di governo territoriale – il Comune – che è uno dei soci costitutivi della Repubblica, per il quale andiamo a votare, che gestisce le scuole e la città nella quale viviamo, e un residuato di società pubblica della quale non è più neanche ben chiara la missione, che sarà pure parte dello Stato, senza rispondere a un chiaro interesse generale, ma solo a sé stessa, e al suo indistruttibile istinto di sopravvivenza.
“Incomprensibile, assurdo, cervellotico” dice il Devoto-Oli; paradossale aggiungiamo noi, perché un ruolo chiave in questa vicenda lo ha Invitalia, un’emanazione anch’essa di Cassa Depositi e Prestiti. La strampalata legge Sblocca-Italia del 2014 ha individuato proprio Invitalia come soggetto attuatore della bonifica di Bagnoli, trasferendo a lei la proprietà dei suoli. Così la foto di famiglia si ricompone, Invitalia discende in linea diretta da robe come Fintecna, costituendone l’ultima più aggiornata reincarnazione.
Il sindaco eletto Gaetano Manfredi, ora anche commissario di governo per Bagnoli, ha opportunamente preannunciato ricorso contro la sentenza del tribunale, ma la vicenda come detto è politica: una decisione di buon senso da parte del governo si impone, è un atto dovuto nei confronti della terza città d’Italia, in un momento drammatico della sua esistenza.
Come il sindaco ha ribadito, è ingiusto far pagare i cittadini, per una bonifica infinita, maldestra, che è già costata centinaia di milioni, senza nessun giovamento per la città. I lettori conoscono la posizione che questo giornale ha sostenuto in tutti questi anni. La parola “bonifica” a Bagnoli andrebbe proibita per legge. Come in tutti i paesi civili, è la messa in sicurezza l’obiettivo da perseguire, con sobrietà di mezzi, tempi, obiettivi. Il Testo unico ambientale, se correttamente inteso e applicato, dice proprio questo.
I problemi a terra ancora da risolvere sono limitati, grazie a Dio, e qui un segnale andrebbe dato: non è mai troppo tardi, dopo trent’anni di chiusura, per aprire finalmente i cancelli, una passeggiata attraverso l’area, un giorno di maggio, dalla Porta del Parco sino al mare, i cittadini e il sindaco in testa, in un gesto simbolico ma necessario di riappropriazione di un pezzo di città che è nostro.
Per il mare, invece, è necessario bloccare l’idea folle di mettere mano ai fondali, col dragaggio e lo scombino finale dell’ecosistema, riportando in sospensione i sedimenti inquinati. Solo per studiare questa cosa, Invitalia ha nei giorni scorsi affidato uno studio monstre da 16 milioni. Sono cifre con le quali si producono asili e ospedali, non tabelle di analisi e referti inutili, tanto più che le condizioni ambientali dei fondali, come dimostrato da autorevoli studi indipendenti, sono le stesse da S. Giovanni sino al Golfo di Pozzuoli.
Quanto poi alla riconfigurazione della linea di costa e alla rimozione della colmata, una riflessione laica, trasparente deve essere fatta, considerando realisticamente le condizioni di fattibilità, tecnica ed economica. Programmare in democrazia vuol dire anche riflettere e riconsiderare le priorità, quando le cose cambiano, facendo quello che è più giusto fare, nel mondo nuovo nel quale ci troviamo a vivere.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 27 febbraio 2022
Osserviamo i nostri ragazzi in questi giorni, i nostri figli di 18, 20, 30 anni, dopo due anni di pandemia che ha imposto loro un prezzo assai alto, lo scoppio della guerra li colpisce ora fortemente, parlano poco, cercano di capire, ascoltano il nostro silenzio preoccupato. Nei discorsi degli adulti invece, fioriscono ragionamenti acuti sulle presunte ragioni della Russia, sugli errori dell’Europa e di Biden, alla ricerca di un equidistanza che sa innanzitutto di critica all’America. Ci sono cose che è difficile spiegare ai nostri giovani, prima ancora di capire.
Vagli a dire che è l’ultima disperata mossa di un autocrate che non ha più strada davanti, che ha definitivamente smarrito il contatto col reale e la complessità del mondo. Un paranoico per il quale è la democrazia, con la sua disordinata libertà, il pericolo maggiore. Ce lo ha pure spiegato il satrapo, nelle interviste degli ultimi anni, che le democrazie hanno fallito, sono inefficienti, che la vera libertà, la difesa degli interessi della gente è garantita dai regimi come il suo, dove gli oppositori vanno in prigione e i giornalisti finiscono stecchiti in ascensore. Vaglielo a raccontare ai ragazzi, sono considerazioni amare di follia che spaventano più del dubbio, del non saperne abbastanza. Putin ha chiarito, prima dell’attacco a freddo a un paese inerme, che gli interessi della Russia non possono essere messi in discussione. Resta da capire quali sono gli interessi dell’Italia, che è poi uno solo: la difesa della Repubblica, con le sue regole e garanzie, l’unica cosa che abbiamo, la possibilità di vivere in un mondo nel quale il potere è diffuso e temporaneo, non si è cristallizzato per sempre in un paio d’occhi ferini, senza più sguardo. Una democrazia che sarà pure ammaccata, ma continua ad alimentare un pluralismo pieno di idee, di modi di esprimersi e realizzarsi, di sperimentare e afferrare l’esistenza.
Questo è quello che cercheremo di dire ai nostri ragazzi. Che la Russia non è la pazzia tragica di Putin, con Tolstoj e Dostoevskij quel grande paese è parte di noi, riuscirà a impedire che questa follia continui. Diremo che questo momento drammatico può rivelarsi per l’Italia e l’Unione europea un’occasione dolorosa di crescita e rafforzamento, intorno alle poche cose importanti che abbiamo, l’unica bussola per il terzo millennio, quella libertà povera e nuda, conquistata a caro prezzo, un’ottantina di anni fa.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 dicembre 2021
Nel suo editoriale dello scorso 5 dicembre (“Il riformismo non profuma di Chanel”) Ottavio Ragone osservava come il completamento di un moderno ciclo industriale dei rifiuti in Campania dopo trent’anni di discussioni sterili, non possa prescindere da un dialogo serio e trasparente, tra cittadini e amministratori, sul percorso da fare per rimettere in ordine il territorio scombinato delle periferie e dell’hinterland.
In realtà dopo l’articolo un dibattito pubblico importante, a distanza, è iniziato, ma non nella direzione auspicata da Ragone. Così, una nota della SIR del 14 dicembre, l’agenzia di stampa dei vescovi italiani, riporta le riflessioni del presidente della Conferenza episcopale campana mons. Antonio Di Donna, in occasione di un incontro pubblico presso la Biblioteca diocesana di Acerra, la “città martire che si sacrifica per tutta la Campania”. Il riferimento, prosegue l’agenzia, è “al mega inceneritore, unico della regione, imposto contro il volere della città, intorno al quale continuano a sorgere o chiedono di essere autorizzati tanti altri impianti per i rifiuti.” Ed è proprio rispetto agli impianti di trattamento che mons. Di Donna auspica “che venga scongiurato questo accanimento”, perché “è sconcertante la ciclicità con la quale il nostro territorio diventa suolo appetibile per la realizzazione di impianti di smaltimento e stoccaggio di rifiuti”.
E’ di pochi giorni dopo invece, siamo alla vigilia di Natale, la lettera al presidente Draghi di trenta sindaci delle città dell’area nord tra Napoli e Caserta, tra le quali Giugliano e Aversa. Come raccontato su queste pagine da Raffaele Sardo, i sindaci chiedono al presidente del consiglio una moratoria nella costruzione degli impianti di rifiuti: “Nessun impianto di rifiuti, di nessun genere, deve essere previsto sui nostri territori, fino a che le matrici ambientali non siano finalmente risanate”, scrivono i primi cittadini.
Certo, un po’ più di equilibrio e obiettività da parte di amministratori e presuli non guasterebbe perché, non scherziamo, il capoluogo non sta affatto meglio: se consideriamo il peso ambientale di porto, aeroporto, petroli, depuratori, centrali energetiche, più le 150mila autovetture che ogni santo giorno entrano a Napoli per lavoro e servizi, semplicemente non c’è partita. Il racconto di un capoluogo che riversa sull’hinterland il peso dei suoi problemi non sta in piedi, e la strada rimane quella indicata da Ragone, di un dibattito pubblico che riesca a guardare ai problemi dei diversi territori, stando alla larga da localismi consolatori e sterili.
In tutta la vicenda poi, gli aspetti paradossali non mancano, perché la contrarietà agli impianti è assolutamente generalizzata, finendo per comprendere ad esempio anche gli impianti per il compostaggio della frazione organica. Si tratta di rifiuti domestici, ordinari, né speciali, nè tossici, nè pericolosi, per i quali la direttiva europea stabilisce per i territori regole rigorose di autosufficienza e prossimità. Questo significa che il rifiuto aprioristico di questo tipo di impianti pone automaticamente la Campania al di fuori della legge europea, ma anche di una buona amministrazione, se dei 293 impianti di compostaggio italiani solo 4 sono in Campania. E se le 415mila tonnellate di umido che mandiamo oltre regione a caro prezzo costituiscono addirittura un quarto del rifiuto organico prodotto in Italia che viene trattato al di fuori della regione di provenienza.
Se anche il processo di compostaggio, che pure è sempre stato considerato anche dall’ambientalismo più intransigente come un tassello fondamentale di un moderno sistema di riciclo, finisce sotto processo, non c’è alcuna speranza di uscire dalla crisi, che a questo punto diventa antropologica-strutturale. E diventa pure inutile ricordare che il compostaggio è il procedimento che più emula il funzionamento dell’ecosistema, perché in fondo è un modo di fabbricare l’humus, la chiave della fertilità del suolo, mettendo a frutto i procedimenti della natura. Si tratta di un processo che avviene oramai completamente in regime di depressione, cosicché neanche gli odori escono all’esterno. Tanto più che questi impianti sono sottoposti a controlli assai rigidi, e quindi, se di qualcosa si deve aver timore, riguarda il resto, le cose che accadono al di fuori di questo ciclo industriale e legale.
Insomma, stiamo parlando dei fondamenti, della basi dell’economia circolare e della transizione ecologica delle quali tanto ci riempiamo la bocca. Ma la speranza è l’ultima a morire, che un dialogo serio possa partire, nelle istituzioni, nella Chiesa, lasciando da parte parole fuori luogo, qui si ragiona coi dati, il negazionismo per cortesia lasciamolo ai no-vax.
Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli 11 dicembre 2021 – Foto di Riccardo Siano
Un colpo di fortuna e siamo riusciti a visitarlo, il parco segreto che la città non sa di possedere. S’è formato da solo, in cinquant’anni, sotto i piloni monumentali della Tangenziale, all’ombra del “piatto di spaghetti”, il dedalo incredibile di rampe e svincoli con i quali la superstrada s’aggancia spericolatamente ai palazzi sopra i trampoli del Vomero.
Dopo Capodimonte e il bosco dei Camaldoli è una delle aree verdi più grande della città, ma è un verde segreto, ci passiamo sopra ogni giorno, distratti nelle auto, come sorvolando un mondo alieno, che invece ci appartiene. L’occasione è un intervento di manutenzione dei viadotti, il cancello anonimo su via Pigna è rimasto aperto, non è il caso di formalizzarsi, ci infiliamo, inoltrandoci lungo una sterrata che dolcemente sale verso via Cilea, tra lembi di bosco che alla fine sono tornati, dopo settecento anni.
Gli Angioini avevano tagliato la selva costruendo l’area agricola più importante della città: una platea di ciglioni digradanti dal casale del Vomero a quello di Soccavo, un mosaico fantastico di arboreti tradizionali con tutti i fruttiferi possibili – noci, ciliegi, pomacee, drupacee, fichi nespoli e vite – e poi gli ortaggi, le patate, il grano e le stalle per il latte. Una campagna-salotto totalmente immersa nella storia: il colombarium sul bordo di via Pigna è uno dei monumenti funebri greco- romani più importanti della città, ora è imprigionato tra gli sterpi, dietro una miserabile protezione di tubi innocenti e stracci. Come è imprigionata nel disordine edilizio la torre secentesca elegante del convento dei Domenicani, al confine con il caos brulicante di via Epomeo.
La campagna millenaria c’era ancora alla metà del Novecento, è perfetta nelle foto aeree che gli alleati scattarono nel 1954 per il Piano Marshall, e ha resistito immutata fino alla fine degli anni Sessanta, quando lo schiaffo ineluttabile della modernità è arrivato con la Tangenziale: l’opera ciclopica ha scacciato i coloni e s’è impossessata della valle, occupandola con un sistema monumentale di piloni, una città calviniana sospesa nel vuoto, alta più di un palazzo di venti piani.
Sotto i pilastri enormi di questa cattedrale della mobilità ora camminiamo, in mezzo al bosco che nel frattempo è tornato, perché la natura non ammette il vuoto, e lavora ogni giorno, che noi lo vogliamo oppure no. Sulle terre sconvolte cinquant’anni fa dai lavori, trovi ora, in mezzo al silenzio e ai versi degli uccelli, una nuova biodiversità di canneti e lembi nobili di castagneto, frassini e ontani, assieme agli scampoli dell’orto storico che fu, coi ciliegi e le piante di fico che a luoghi formano una lussureggiante foresta. Nel festival della natura che ritorna c’è pure posto per gli ospiti alieni, la robinia e l’ailanto, anche loro fanno il loro lavoro, e non è il caso di formalizzarsi.
Il bello è che in questo paesaggio nuovo e straordinario che s’è creato, totalmente fuori scala, non c’è contraddizione tra il bosco e l’infrastruttura gigante in mezzo al cielo, anzi c’è un ordine improbabile, ai limiti del fantastico, quello delle città future su pianeti lontani disegnate da Alex Raymond, dove Flash Gordon combatte lo spietato imperatore Ming.
Tornando a noi, verrebbe da dire che i trenta ettari del parco- che- non- c’è che stiamo attraversando, in una mattinata dorata e tiepida di fine ottobre, sono una metafora di Napoli e del Paese. Il 2021 passerà alla storia come l’anno nel quale per la prima volta, invertendo una dinamica di tre secoli, la superficie forestale in Italia supera quella agricola. Il bosco torna a occupare le terre abbandonate dagli uomini, non solo in Appennino ma anche in città.
Quello che non abbiamo ancora capito è che questo abbandono va gestito, che il concetto di forestazione è cambiato, non si tratta di piantare alberi, ma di prendersi cura di quelli che ci sono, che sono nati senza chiedere il permesso, e ora hanno bisogno di noi, se non vogliamo che il rischio ambientale del fuoco e delle acque sgovernate aumenti, in mezzo a questo clima impazzito, continuando a danneggiare noi, con le nostre case e le città. Per tutte queste ragioni fa bene il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, con la sua barca di denari, a puntare molto sulla forestazione urbana, anche per intrappolare il troppo carbonio e mitigare la bolla di calore che la città crea e non ci fa vivere bene e respirare, purché si capisca che non è questione di mettere a dimora nuovi alberi, inseguendo la buona azione e la foto sui giornali, ma di prendersi responsabilmente cura delle terre del Paese, di assumersi la responsabilità quotidiana di far vivere e governare luoghi dimenticati come questo, renderli fruibili, riumanizzarli.
Il parco- che- non- c’è, tra il Vomero nuovo e Soccavo, invece c’è, lo si percepisce, lo si scruta, ed è parte di questo paesaggio ibrido tipico della contemporaneità: infrastrutture, natura, urbano. Per questa terra di mezzo il piano regolatore utilizza la definizione di Zona F, inquadrandola, in particolare, nelle sottozone Fa2 “ Aree incolte” e Fa4 “ Aree a verde ornamentale” e Fe “ Strutture pubbliche o di uso pubblico e collettivo”. L’obiettivo di fondo del piano è di tutelare queste aree da nuova edificazione o dall’impermeabilizzazione dei suoli, con il fine futuribile di essere parti un più ampio “Parco territoriale e altre attrezzature e impianti a scala urbana e territoriale”. Tuttavia anche la frammentazione nominale e la complessità normativa non ha aiutato a strutturare visioni e progetti unitari in grado di vincolare, magari costringere, attraverso la perequazione, le diverse proprietà pubbliche, private o miste, a dare concreta attuazione a quanto previsto.
Questa stasi, almeno trentennale, ha lasciato il lembo finale del Vomero sospeso a quei telai in cemento armato su quest’area di pregio. Quasi un limite insuperabile, come il confine di cartapesta del film “ The Truman Show”. È anche vero per che il Piano regolatore generale non poteva tracciare scenari direttamente attuabili.Tuttavia un lavoro urbanisticamente più ficcante è contenuto in un altro piano, sempre elaborato dal Comune di Napoli, il Piano comunale dei trasporti e, in particolare, la parte riguardante la Rete stradale primaria. In quest’ultima, l’allora dirigente del Servizio infrastrutture studi e progettazione, l’architetta Elena Camerlingo, assistita da un ampio gruppo di lavoro interdisciplinare, introdusse delle verifiche di fattibilità, una sorta di progetti- norma che per alcune aree, tra cui questa, definivano (e definiscono, visto che il piano è ancora vigente) i caratteri essenziali di un progetto rigenerativo, sui modelli dell’ecological urbanism americano. Naturalmente anche in quel caso non ci si era inventato nulla. La buona pratica di non sprecare aree di pregio tra e sotto le infrastrutture della mobilità è un elemento essenziale del recupero di suolo, natura, agricoltura, spazio pubblico, in grado di ampliare la visione e la dimensione urbana.
L’Europa opera da tempo in questo senso. Mentre progettava le opere con cui strappò a Napoli facilmente la Coppa America, la città di Valencia aveva già realizzato un parco al di sotto dei viadotti dell’ex fiume Turia, il cui corso è stato addirittura deviato. A Genova, sotto il nuovo viadotto del Polcevera è in corso di realizzazione un nuovo grande parco urbano. A Roma il gruppo di giovani architetti G124, guidati da Renzo Piano, ha elaborato il progetto “ SottoilViadoTTo”, che ha trasformato e riqualificato un’area abbandonata e degradata situata al di sotto del “ Viadotto dei Presidenti”, nel terzo municipio della Capitale. Si tratta di zone spesso molto più complicate di quella di cui stiamo raccontando, eppure la realizzazione di quei progetti (con addirittura la deviazione di un letto di un fiume, come nel caso di Valencia) appare patafisica vista da queste latitudini.
In quest’area sotto il sistema di viadotti, rampe e svincoli della Tangenziale non c’è nulla da stravolgere, bisogna realizzare accessi adeguati a monte e a valle e definire un primo sistema di percorrenze, servizi minimi, illuminazione.
Un primo “fatto urbano” realizzabile in pochi mesi, con parti anche temporanee, in attesa del completamento definitivo, costituito sostanzialmente dal raccordo di alcuni dislivelli e dalla messa in sicurezza di alcune parti. L’esito finale potrà essere, in sintesi, una grande infrastruttura verde, un fantastico parco naturale- artificiale dove già oggi la natura ha preso il sopravvento sui piloni e sulle strade che la sovrastano a un’altezza tale da farli apparire lontani, silenziosi, quasi necessari e compatibili con uno stato di fatto comunque fortemente urbanizzato. Un parco- promenade, che aggancia, finalmente, il Vomero a Soccavo con un sistema di mobilità lenta, con corridoi ecologici e un’armatura verde restituita alla città e connessa con i residui agricoli della zona che ancora sono attivi. Le regole urbanistiche, come si è visto, non mancano e forse è inutile imbastirne di ulteriori, ma il nuovo piano urbanistico potrebbe farsi carico di rendere concrete idee e intuizioni del passato facendone strategie unitarie e in linea con i binomi urbani della contemporaneità: spazio pubblico e salute, infrastrutture e mobilità sostenibile, foreste urbane e climate change, temporaneo e definitivo. Basta partire, basta aprire.
Commenti recenti