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Antonio di Gennaro, 29 luglio 2014

Cosa succede quando una democrazia sbaglia? Con il decreto “Terra dei fuochi” – lo confermano gli esiti del comitato interministeriale svoltosi lunedì scorso a Roma, con i ministri Lorenzin (salute), Martina (agricoltura) e Galletti (ambiente), che ha esaminato i risultati dello screening territoriale in corso -,  Parlamento e governo hanno preso una topica colossale. Tutti i campioni di ortofrutta provenienti dalle aree agricole ritenute a maggior rischio sono risultati sani, di radioattività manco a parlarne. E’ evidente che la sicurezza alimentare non è in gioco, abbiamo lanciato la caccia al killer sbagliato, sprecando tempo e soldi che potevano essere applicati ad obiettivi più fondati.

Che fare allora se le decisioni prese non erano quelle giuste? Non è necessario scomodare la “modernità riflessiva” teorizzata da Giddens e Beck nei loro scritti degli anni 90: la capacità di imparare dagli errori e di risolvere problemi nuovi contraddistingue la nostra specie dalla conquista della posizione eretta. Sarebbe dunque questo il momento, per le istituzione ai diversi livelli, di prendere atto degli abbagli, rivedere il tiro, e definire finalmente una strategia seria per riqualificare e mettere in sicurezza la pianura campana, ma ora la difficoltà è proprio quella di smantellare il castello macchinoso di competenze che proprio il decreto “Terra dei fuochi” ha contribuito a creare, di disattivare una macchina burocratica che procede per inerzia, continuando ad inseguire credenze e slogan, anche quando palesemente smentiti dai fatti.

Pure, nel dibattito di lunedì a Roma, qualche frammento doloroso di verità inizia ad affiorare. A cominciare dai problemi di approvvigionamento idrico della conurbazione abusiva della piana, con centinaia di migliaia di cittadini campani dei rioni e paesi di edilizia spontanea, che continuano ad impiegare per le esigenze quotidiane l’acqua della prima falda idrica, che come in tutte le pianure europee ad elevata urbanizzazione, non è idonea allo scopo.

Insomma, inizia finalmente ad emergere il problema dei problemi, che è quello di mettere ordine nella grande conurbazione campana, di dotare quest’area dei servizi essenziali e degli standard minimi di civiltà che consentano alle persone di vivere decentemente, proteggendo la propria salute. Questi dovrebbero essere, più che la competizione meschina per la distribuzione delle future cariche, gli aspetti decisivi di una strategia, di un’agenda di riscatto per la città metropolitana che sta per nascere. Lasciando alle nostre spalle la metafora inconcludente della “Terra dei fuochi”: le politiche si nutrono certamente di una loro componente simbolica, ma di troppi simboli, alla fine, si può anche morire.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 31 luglio 2014 con il titolo “Terra dei fuochi: la verità si fa strada tra credenze e slogan”

Luca Rossomando

Come altri luoghi della metropoli napoletana, il vasto territorio di Castel Volturno sale agli onori delle cronache ogni volta che la tensione tra le sue componenti si coagula in violenti cortocircuiti. L’episodio più eclatante in anni recenti fu la strage dei ghanesi nel 2008, a opera della banda del camorrista Setola; l’ultimo in ordine di tempo è l’aggressione armata da parte di padre e figlio italiani a due africani, con l’assalto per rappresaglia alla famiglia degli aggressori e due blocchi contrapposti sulla Domitiana il giorno seguente.

Eventi del genere non sempre diventano di pubblico dominio, eppure si susseguono con una certa frequenza, permeando la vita quotidiana in quelle zone di incertezza e diffidenza reciproca. Lo scenario non è quello da guerra civile che appare in ogni “day after” mediatico, ma si tratta comunque di un’area in cui le tante questioni irrisolte non essendo governate come meritano finiscono per incancrenirsi e ogni volta che riemergono in superficie si presentano ancora più ingarbugliate.

La numerosa e variegata comunità africana che si è stabilita da tempo negli ex insediamenti turistici lungo il litorale domitio, vi ha trovato affitti bassi e spazi per le attività commerciali. Sono case che risalgono alla fine degli anni Cinquanta, quando il boom economico spinse in molti, da Napoli e Caserta, verso la macchia mediterranea e la spiaggia incontaminata lungo la costa. Sorsero ovunque abitazioni per le vacanze. All’inizio attraverso lottizzazioni, poi con iniziative sempre più sregolate. Gli abitanti del posto vendevano quei terreni improduttivi per l’agricoltura. Le villette spuntavano a un ritmo febbrile, senza preoccuparsi di servizi e infrastrutture. I lotti producevano ricchezza immediata, nessuno voleva sentir parlare di piano regolatore. Negli anni Ottanta molte di queste case, già in declino, vennero requisite per dare ospitalità agli sfollati del terremoto. A distanza di anni parecchi napoletani finirono per rimanere. Nel frattempo arrivavano sul litorale gli immigrati di origine africana. La città di oggi è stata costruita anche da loro. Quando l’edilizia abusiva si fermò, gli africani si misero a cercare lavoro verso l’interno – Villa Literno, Giugliano, Quarto – ma per dormire tornavano nelle villette di Castel Volturno, ormai inutilizzate dai vacanzieri. Lo spaccio di droga con manovalanza immigrata fu un’ulteriore risposta alla crisi dell’edilizia. Dagli anni Ottanta, in località come Pescopagano o Destra Volturno, gli ex villaggi turistici si sono popolati anche di famiglie italiane in difficoltà, gente che vive alla giornata e non appena riesce a migliorare le proprie sorti si trasferisce altrove. Sono insediamenti formati solo da strade e case: strade senza fogne, tante case abbandonate, senza finestre, senza porte: piccole città fantasma.

Per il modo in cui si è formato questo tessuto sociale, e per la sua odierna complessità, l’area di cui parliamo meriterebbe, in modo parallelo ai provvedimenti di governo – prontamente annunciati, non si sa bene con quanta chiarezza d’idee né d’intenti – un serio monitoraggio, una ricognizione particolareggiata di luoghi e persone, di esigenze concrete e punti critici, per mettere a disposizione di chi deve intervenire dati certi, consentendo politiche più efficaci e tempestive. In effetti, la coabitazione di persone provenienti da tanti luoghi diversi, e spesso di passaggio, l’informalità di molte attività economiche, le molteplici forme di criminalità, un contesto urbanistico plasmato al di fuori delle norme; in generale, lo stato di clandestinità in cui molti vivono e agiscono, non solo gli immigrati, fanno di quest’area un microcosmo ancora in gran parte sconosciuto.

L’esercito ora non serve, non si tratta di dare la caccia a una banda sanguinaria come negli anni di Setola. Uno degli effetti di quella strage, e del clima che si creò in quel periodo, fu di indurre gli africani a rinchiudersi negli spazi privati delle villette, creando una città nella città, chiusa agli italiani – anche alle associazioni del terzo settore –, dove si fanno piccoli commerci, si guarda la tv africana, si parla inglese e si coltiva un disprezzo crescente per tutto quel che sta intorno. La prima cosa da fare dovrebbe essere riportare nello spazio pubblico, con le dovute garanzie, chi per proteggersi ha deciso di separarsi. Una politica che agisca innanzitutto sui permessi di soggiorno, e poi sulla legalizzazione delle piccole imprese artigiane e commerciali, attualmente del tutto informali. Un piano di assistenza sanitaria, che accerti e ponga rimedio alle molte situazioni in cui la miseria e l’isolamento stanno producendo effetti devastanti e del tutto sommersi. Infine, a cominciare dalla pianificazione urbanistica regionale, aprire finalmente gli occhi sulla realtà: smettere di pensare questi territori come luoghi di villeggiatura ma considerarli per quello che sono, nuovi quartieri dell’area metropolitana di Napoli. E quindi cambiare le destinazioni urbanistiche, migliorare i collegamenti con il centro, far nascere spazi favorevoli all’incontro e allo scambio. Insomma, riconoscere con i fatti l’esistenza di una comunità eterogenea e problematica che ha di fatto cambiato l’identità di quei luoghi.

Da: Repubblica Napoli del 20 luglio.

Pubblicato anche su http://www.napolimonitor.it

 

Fonte: Archivio Napolimonitor

Fonte: Archivio Napolimonitor

Antonio di Gennaro, 19 luglio 2014

Ha un bel dire Roger Cohen nell’articolo pubblicato da Repubblica lo scorso 12 luglio, che nell’era del web lo spazio e’ abolito, la geografia non conta, e l’indirizzo email è più importante ormai di quello civico.  Il mondo del ventunesimo secolo sarà anche diventato “flat”, piatto, come suggerisce nel suo libro Thomas Friedman, ma pure accadono cose che ci riportano alla nostra dipendenza dall’ambiente fisico; a un’oggettiva difficoltà a gestire e curare i luoghi che abitiamo, che si rivelano improvvisamente minacciosi e insicuri, ci si rivoltano contro, e qui un unico filo rosso sembra legare fatti anche assai diversi, si tratti di alberi urbani che schiantano, cornicioni che si sbriciolano sulle nostre teste, aree agricole mortificate dai rifiuti.

Per tremila anni la cura e il controllo dell’habitat hanno improntato i nostri comportamenti quotidiani, ed è così  che sono nati i grandi paesaggi urbani e rurali che rendono unico il nostro paese, ma ora quel tempo è finito, la manutenzione del mondo non è più una priorità. Prevale adesso una corsa all’uso e al consumo, giorno dopo giorno, della città  e dei paesaggi che abbiamo ereditato, senza sostenere i relativi costi di mantenimento. Gli inconvenienti di una simile scelta risultano evidenti, mentre le cause sono molteplici.

Pesa senza dubbio la crisi della finanza pubblica, come anche il declino di quelle strutture e competenze tecniche che si preoccupavano di tenere in efficienza strade, alberature, reti idriche, fognature. Ma l’aspetto che sembra prevalere è la perdita di prospettiva futura. La manutenzione del mondo è cosa che può interessare una comunità ancora sensibile alle necessità dei giorni e delle generazioni a venire,  che sente di dover lavorare anche un po’ per essi. All’opposto, nel discorso pubblico, la cura ordinaria del nostro ambiente di vita e’ argomento tremendamente privo di appeal, con il quale non si vincono campagne elettorali, ne’ si costruiscono programmi di legislatura.

Peccato, perché proprio attorno alla manutenzione un’economia locale potrebbe riattivarsi, magari più sobria e attenta a risultati e priorità. In questo modo, invece, il paese si impoverisce, perde funzionalità e bellezza, mentre aumenta il debito pubblico territoriale, sarebbe a dire il costo per rimettere le cose a posto e riparare i danni, che supera oramai di gran lunga  quello, più di sovente richiamato, della finanza.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 22 luglio con il titolo “La manutenzione non è più un valore”

Pio Russo Krauss, pediatra, esperto in educazione sanitaria, 9 luglio 2014

Se si leggono i giornali degli ultimi giorni abbondano titoli come “Mortalità in aumento nella Terra dei fuochi” e “Terra dei fuochi: allarme leucemie”. Roberto Saviano sulla prima pagina di Repubblica afferma “Esiste un nesso tra la devastazione di intere aree, i rifiuti intombati, le morti per cancro e i bambini che nascono con malformazioni. Lo dimostra l’aggiornamento allo studio epidemiologico Sentieri” (dell’Istituto Superiore di Sanità ISS).

Ma le cose stanno veramente così? No. Se si legge il rapporto dello studio SENTIERI (122 pagine) appare evidente. Ma anche se si leggevano con attenzione le 3 pagine della nota per la stampa si poteva capire che le cose non stavano così.

Nei primi righi della nota per la stampa si premette che “Le caratteristiche metodologiche dello studio SENTIERI non consentono la valutazione di nessi causali certi, permettono tuttavia di individuare situazioni di possibile rilevanza sanitaria da approfondire con studi mirati”. Quindi lo studio, al contrario di quello che dice Saviano, non dimostra alcun nesso “tra devastazione di intere aree, i rifiuti intombati, le morti per cancro e i bambini che nascono con malformazioni”. Non lo dimostra e non può farlo perché è uno studio epidemiologico trasversale (o geografico) e questo tipo di studi non ha questa capacità (vedi il documento dell’Associazione Marco Mascagna “ABC per orientarsi nei dati epidemiologici” reperibile all’indirizzo http://www.giardinodimarco.it/documenti/2013/abc%20per%20capire%20l%27epidemiologia.pdf).

“Mortalità in aumento” in italiano significa che prima era più bassa e ora è più alta. SENTIERI dice questo? No. Infatti sempre nelle 3 paginette sta scritto che lo studio non fa altro che confrontare i dati di una zona con quelli regionali o nazionali (confronto tra aree geografiche e non nel tempo). E sta anche scritto che “Per quanto riguarda la salute infantile nella TdF non si osservano eccessi di mortalità” e non si parla di aumento delle leucemie infantili.

Che cosa dice allora questo nuovo rapporto? Che nella zona della Terra dei Fuochi (tra Napoli e Caserta) si muore di più e ci si ricovera di più rispetto al resto della Campania e ci si ammala di più di alcuni tumori rispetto all’Italia. Cioè quello che si sa da molti anni e che è stato detto anche nella relazione dell’ISS del dicembre 2012. Le conclusioni erano le seguenti:

– nella Terra dei fuochi si muore di più che in Italia ma meno degli anni precedenti (“La descrizione del profilo di salute della popolazione campana indica una situazione generalmente sfavorevole rispetto al resto di Italia, tuttavia i tassi di mortalità anche per cause specifiche sono in diminuzione”);

–  tutti gli indici di salute sono peggiori e ciò fa pensare a una pluralità di fattori causali diffusi (“Lo svantaggio è presente da tempo e non risulta focalizzato su una singola patologia o su un solo sottogruppo di popolazione, come ci si potrebbe attendere da esposizioni ambientali limitate geograficamente”);

– fattori causali certi di questa situazione sono la bassa partecipazione agli screening (mammografia, pap test e sangue occulto nelle feci), gli stili di vita poco salutari e una sanità più attenta a fare soldi che alla salute dei cittadini (“Il registro tumori di Napoli si distingue per livelli di sopravvivenza marcatamente inferiori, con un 40% di sopravvivenza a 5 anni nella popolazione maschile e 51% in quella femminile” [la media italiana è rispettivamente 52% e 60%]. “I dati di sopravvivenza per i tumori trovano riscontro nella scarsa adesione ai programmi di screening, che per la Regione Campania è molto lontana dal dato medio nazionale e dalla copertura desiderabile. Inoltre sul deficit di sopravvivenza pesano notevolmente anche le difficoltà di accesso alle strutture sanitarie di diagnosi e cura da parte delle fasce di popolazioni più deboli e a rischio e l’enorme frazionamento dei percorsi sanitari”. “Stili di vita e fattori di rischio comportamentali connessi all’insorgenza della malattie croniche, quali sedentarietà, eccesso ponderale e fumo sono significativamente più frequenti nella popolazione residente in Campania che nel resto del Paese. Non solo, le variazioni temporali osservate in Campania, sembrano suggerire una tendenza all’aumento”);

– Tutto ciò non esclude un ruolo anche dei rifiuti (“Si può affermare che non c’è nesso causale accertato tra l’esposizione a siti di smaltimento di rifiuti e specifiche patologie, ma potenziali implicazioni sulla salute non possono essere escluse”);

– Non c’è alcun aumento dei morti per tumore (“Non viene confermato l’incremento di rischio di mortalità per tumori come segnalato nei media”).

I dati (ISTAT, Istituto Superiore di Sanità e Registri Tumori) sono chiari: nella Terra dei Fuochi non c’è alcun aumento della mortalità generale (anzi è in diminuzione), né di quella tumorale (in diminuzione per gli uomini, stazionaria per le donne), né c’è un aumento dei tumori (in diminuzione nei maschi, in lievissima salita per le donne).

Quindi questo rapporto non dice nulla di nuovo rispetto al rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sulla Terra dei fuochi (2012). Eppure quelli che più volte hanno attaccato duramente l’ISS (per lo studio su discariche e salute1, per quello sulla diossina e metalli nel sangue e nel latte di abitanti in zone critiche2, per la relazione su tumori e salute nella Terra dei fuochi3, per gli studi sulla presenza di tossici sulle verdure coltivate su terreni contaminati4) ora la ritengono fonte autorevole e veritiera. Anzi fonte definitiva (“L’ha detto l’ISS che esiste il nesso tra devastazione ambientale e tumori, la questione è chiusa”).

Il criterio “se dici quello che io penso sei autorevole, se dici il contrario (anche portando dati e argomentazioni) sei disonesto e venduto” è un pessimo criterio di giudizio ed è proprio dei fanatici e nel corso della storia ha portato all’inquisizione, al fascismo, al nazismo, allo stalinismo. Se invece si ascoltano le posizioni dell’altro, se si esaminano i dati che porta, se si soppesano criticamente (con quel minimo di preparazione necessaria), se si chiedono chiarimenti e li si ascolta attentamente non c’è alcun bisogno di avere un così rozzo e pericoloso criterio per stabilire chi dice il vero e chi no. Gli antichi dicevano che la ragione è un faro capace di guidarci efficacemente anche in situazioni complicate. Il buio della ragione invece genera mostri: uccide la convivenza civile, la democrazia e ci fa schiantare contro gli scogli.

In ultimo due consigli:

1) consiglio per i lettori/ascoltatori/internettiani: prima di prendere per buona un’informazione esaminiamola, soppesiamola criticamente e verifichiamola;

2) consiglio per giornalisti/commentatori/blogger/twittatori/facebookisti: prima di scrivere su qualcosa esaminiamola con la dovuta attenzione, anche se si tratta di leggere ben 3 pagine.

 

Note

1) Fazzo L, De Santis M, Mitis F et al. Ecological studies of cancer incidence in an area interested by dumping waste sites in Campania (Italy). Ann Ist Super Sanita 2011

2) ISS SEBIOREC Rapporto finale www.iss.it/binary/sebi/cont/SEBIOREC_Final_report_Dec_2010__human__rev_1.pdf

3) ISS: Relazione finale del Gruppo di Lavoro ex D.M. 24.07.2012 www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=1883

4) vedi www.beta.regione.campania.it/assets/documents/relazione-iss-ottobre-2013.pdf e www.beta.regione.campania.it/it/news/salute-7054/area-vasta-di-giugliano-iss-composti-volatili-organici-assenti-dai-prodotti-agricoli. Sia questi studi che quelli condotti dalle ASL, dall’Istituto zooprofilattico, dall’Università Federico II, dall’ORSA, dalla Coop e da Esselunga non hanno dimostrato nessuna contaminazione delle “pesche, albicocche, pomodori, arance, mandarini, mandorle, mele annurche, il latte di bufala” come dice Saviano, e nemmeno di altri prodotti ortofrutticoli

Antonio di Gennaro, 8 luglio 2014

Davvero quanti luoghi comuni, affermazioni non verificate, imprecisioni nell’articolo di Roberto Saviano pubblicato su “Repubblica” il 5 luglio scorso (“La verità (in ritardo) sulla Terra dei Fuochi e quelle risposte da dare ai suoi martiri”).

Contrariamente a quanto si afferma nell’articolo, l’aggiornamento dello studio “Sentieri” non fornisce prove del legame, nei 55 comuni presi in esame, tra malattie tumorali e la presenza di siti di smaltimento illegale di rifiuti. Lo dice chiaramente la nota esplicativa diramata dall’Istituto superiore di sanità sul proprio sito web, il giorno successivo la pubblicazione dello studio, nella quale si legge che la metodologia impiegata “… non consente, in linea generale, la valutazione di nessi causali”, mentre le patologie prese in considerazione ” …sono peraltro ad eziologia multifattoriale e l’inquinamento può concorrere o esserne causa.” Spiega la dottoressa Musumeci, coordinatrice dello studio, in una sua dichiarazione a Repubblica del 5 luglio: ” Lo studio fatto è di tipo “ecologico”, cioè ha analizzato la popolazione nel suo insieme. È come avere fotografato la realtà dall’elicottero, ma per stabilire il nesso di causalità bisogna scendere a terra.”

Secondo l’epidemiologo Mario Fusco, direttore del Registro tumori dell’ASl Napoli 3, nella quale ricade circa 1,2 milioni di cittadini della piana campana, buona parte della cosiddetta Terra dei fuochi, le modalità di presentazione e interpretazione dei dati dello studio “Sentieri” costituiscono “un grave atto di disinformazione scientifica”. Nella sua intervista a “Repubblica” del 5 luglio, Fusco lamenta come, delle due tabelle fornite dal Registro tumori all’Istituto superiore, sia stata pubblicata nello studio solo quella relativa ai 17 comuni ricadenti nell’elenco governativo, e non la seconda, con i dati dei 18 comuni che non ne fanno parte, che presentava andamenti simili alla prima. In poche parole, “Sentieri” omette di dire una cosa non proprio irrilevante, e cioè che l’andamento delle malattie tumorali nei comuni della Terra dei fuochi è simile a quella nei comuni che non ne fanno parte.

Per inciso, in Campania sono attivi 3 registri tumori, che coprono circa il 55% della popolazione regionale.

In una precedente intervista dell’ottobre 2013, sempre a “Repubblica”,  Fusco aveva spiegato come, nei 58 comuni ricadenti nel Registro tumori dell’ASl Napoli 3, tra i quali Acerra, Casalnuovo, Marigliano, Nola, Terzigno, si registra ” un’incidenza oncologica globale inferiore. I nostri dati sono stati confrontati con quelli rilevati dal pool dei 38 registri tumori italiani”. Il problema è che, a fronte di un’incidenza più bassa, il tasso di mortalità è uguale e “… questo si spiega con le diagnosi tardive di malattia in fase avanzata e quindi con prognosi peggiore. E poi le difficoltà di accesso ai servizi da parte delle fasce deboli,e la diseguaglianza dei percorsi diagnostico-terapeutici».

Mario Fusco ha ribadito queste affermazioni in un suo intervento al convegno organizzato dalla task force “Pandora” lo scorso 26 giugno a Città della Scienza.

Sempre nell’articolo di Roberto Saviano del 5 ottobre si afferma che il disastro ambientale della piana campana “… ha avvelenato pesche, albicocche, pomodori, arance, mandarini, mandorle, mele annurche, il latte di bufala”. Si tratta di un’affermazione priva di ogni fondamento scientifico. Le produzioni agricole della piana campana costituiscono il 40% del valore aggiunto agricolo della regione. In larga misura esse sono acquistate dalla grande distribuzione organizzata, e commercializzate in Italia e in Europa.

Proprio in Europa esiste, a livello comunitario, un’Autorità europea per la sicurezza alimentare che gestisce, in collaborazione con gli stati membri, un sistema di allerta rapido che si chiama RASFF. Se, per ipotesi, una partita di fragole prodotte da un nostro agricoltore di Parete, e commercializzata in un supermercato di Francoforte, risultasse non a norma, scatterebbe nel giro di 24 ore l’allarme, con sequestri e denunce.

E’ singolare il fatto che in questi anni neppure un allarme rapido sia scattato per produzioni provenienti dalla Terra dei fuochi o dalla Campania.

Sulla sicurezza delle produzioni alimentari della piana campana ha recentemente indagato il Global Gap, l’associazione non governativa che ha definito gli standard di qualità adottati da tutte le centrali europee della grande distribuzione, dopo la denuncia di un consumatore tedesco, giungendo a conclusioni del tutto rassicuranti.

Anche le due maggiori catene italiane, COOP e Esselunga, hanno monitorato capillarmente le produzioni della Terra dei fuochi, con rapporti interni che escludono qualunque problema per le produzioni dell’area. La Coop, differentemente da Esselunga, ha scelto di render pubblici i risultati del suo studio.

In ultimo, il programma di monitoraggio messo a punto da Regione Campania, Federico II, Istituto zooprofilattico, ha sino ad oggi campionato e sottoposto ad analisi più di 1.500 campioni di ortaggi coltivati nella Terra dei fuochi. Nemmeno un campione è risultato positivo.

Insomma, c’è una convergenza di dati che conferma l’assoluta salubrità delle produzioni agricole della piana campana. Nonostante ciò, affermazioni infondate hanno causato un crollo delle vendite del 35-40%, un’ecatombe commerciale, con le aziende agricole che chiudono, e i suoli agricoli che si rendono disponibili per le speculazioni della criminalità organizzata.

Quanto al 2% di aree sospette, per le quali bisognerà procedere a ulteriori controlli, che dire. Il fatto che le indagini svolte abbiano evidenziato la presenza di 1.500-2000 ettari agricoli “a rischio” non significa minimizzare niente ma, all’opposto, quantificare un danno ecologico immane, con un’area di attenzione pari a 10 volte quella della bonifica di Bagnoli.

I fenomeni territoriali e sociali sono eventi complessi. La crisi della piana campana lo è in modo particolare. Nessuno di noi possiede le competenze per un’analisi esaustiva e definitiva. Occorre avere l’umiltà e l’intelligenza di ragionare e lavorare insieme. Si tratta di un grande processo di apprendimento collettivo. Nella consapevolezza che nessuno di noi può aver ragione sempre e su tutto: il segmento di conoscenza controllato da ciascuno è limitato.

Quando parliamo della storia e del funzionamento delle organizzazioni criminali l’autorità di Roberto Saviano è fuori discussione. E’ vero però che le conseguenze ecologiche e sanitarie dei fatti criminali non sono meri corollari, conseguenze semplici e lineari che è possibile aprioristicamente dedurre a tavolino a partire da essi. Si tratta di cose che vanno verificate, misurate, sapendo che il funzionamento degli ecosistemi è una cosa complessa.

Analizzare sul campo i fatti ecologici non significa per nulla negare i fatti sociali e criminali che sono stati faticosamente accertati. Interpretare correttamente i dati sulla salute degli uomini e degli ecosistemi agricoli della Terra dei fuochi non significa minimamente sminuire, circoscrivere o relativizzare la gravità dei crimini commessi, come anche la necessità impellente di politiche pubbliche adeguate.

E’ evidente però che per uscirne fuori, per un progetto di ricostruzione della società e del suo territorio, non c’è bisogno di maledizioni bibliche, di un surplus di terrore.

Antonio di Gennaro, 4 luglio 2013

Terra dei fuochi, nuova puntata. L’Istituto Superiore di Sanità ha reso noti i dati, ripresi con clamore dai media, dell’aggiornamento dello studio epidemiologico “Sentieri”, sulle malattie tumorali in 55 comuni delle province di Napoli e Caserta. L’effetto era un po’ cercato, viste le modalità di publicizzazione, con un annuncio a sorpresa sul web, più da agenzia indipendente, free lance, che da istituto di riferimento nazionale. La delicatezza del tema avrebbe forse meritato un po’ più di attenzione, ma tant’è, in tempi di spending review è comprensibile che ogni ente abbia esigenze di visibilità. Ad ogni modo, le conclusioni cui lo studio giunge sono un pugno allo stomaco: nei 55 comuni presi in considerazione si registrerebbe un eccesso di mortalità e di ospedalizzazioni per diverse patologie tumorali, in qualche misura collegabili all’inquinamento da rifiuti.

Il nuovo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità andrà studiato con attenzione, ma alcune riflessioni possono essere fatte a caldo. A partire dalle conclusioni, che sono molto differenti, ad esempio, da quelle che Mario Fusco, l’epidemiologo che dirige il Registro Tumori dell’ASl Napoli 3, nel quale ricade più di un milione di abitanti della Terra dei Fuochi, ha illustrato nel recente convegno organizzato dalla task force Pandora lo scorso 26 giugno a Città della Scienza. I dati del registro tumori, che partono dal 1996, evidenziano come l’incidenza delle malattie tumorali nell’area, da che erano più basse, si stiano allineando alle medie nazionali. La mortalità per tumore invece, seppur in discesa, è più alta della media nazionale, che sta diminuendo ad una velocità più elevata. Questo scarto tra incidenza e mortalità chiama in causa la mancata prevenzione, le prestazioni carenti del sistema sanitario rispetto ad altre parti del paese. Ad ogni modo, per capire qualcosa, è necessaria un’analisi “microgeografica” dei dati, che si sta compiendo alla scala delle singole particelle censuarie, perché le medie comunali e territoriali non raccontano niente, anzi, forniscono informazioni fuorvianti.

E’ probabile che l’approccio impiegato dallo studio “Sentieri” sia diverso da quello del gruppo di lavoro diretto da Mario Fusco. Di sicuro, “Sentieri” si basa in prevalenza su dati di mortalità e ospedalizzazione. I dati di incidenza, il numero cioè di nuovi ammalati che si registrano annualmente per ogni 100.000 abitanti, che per ammissione degli stessi ricercatori dell’Istituto Superiore rappresentano alla fine il parametro rilevante, erano disponibili per soli 17 dei 55 comuni interessati dallo studio.

Certo, meglio sarebbe se il servizio sanitario nazionale parlasse con una voce sola. La sensazione, invece, è che ogni pezzo dell’amministrazione stia giocando una partita a sé, con i cittadini nella veste di disorientati spettatori. Modalità di comunicazione come quelle scelte dall’Istituto Superiore fanno salire il livello dell’emozione, non quello delle politiche pubbliche. Ma tanto ci spetta: siamo la carta sporca, la finestra rotta della nazione, tirare un sasso in più non costa proprio nulla.

L’articolo è stato pubblicato su Repubblica Napoli del 5 luglio 2014 con il titolo “Troppe voci disorientano i cittadini”