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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 24 giugno 2017
Due grandi foreste ha la città, a oriente e occidente, ecosistemi e mondi completamente diversi, dove puoi veramente ancora perderti nel verde, e ognuna ha una storia, e un futuro possibile da raccontare. Se Capodimonte è il bosco del Re, restituito ora alla città nella sua magnificenza, il Parco urbano dei Camaldoli è il bosco repubblicano, un lembo di selve appenniniche che miracolosamente si incunea tra i vulcani, figlio di storie e conflitti più recenti.
Il Parco dei Camaldoli è esteso quasi quanto Capodimonte, circa cento ettari, ma pochi napoletani ancora lo conoscono, e infatti non incontriamo nessuno, in questo sabato di primavera, camminando i sentieri tra le grandi ceppaie di castagno con Riccardo Motti, il direttore del Real Orto Botanico di Portici, solo pochi cani ansimanti e felici, a spasso coi padroni. Riccardo è alto, pacato nella voce e nei gesti, ha la figura di un moschettiere del Re, accarezza con gli occhi il groviglio vegetale, si china su un’Ajuga, una pianticina elegante del sottobosco, dai fiori blu, sta crescendo all’ombra di un cespo giallo di ginestre, tra gli steli verdi e freschi di festuca. “E’ la bordura perfetta di un giardino, solo che il progettista è la natura, hanno iniziato gli inglesi a imitare nei loro giardini queste combinazioni spontanee, assolutamente perfette. A queste specie e a queste composizioni mi sono ispirato ora per realizzare i giardini del Museo di Pietrarsa”.
Il bosco dei Camaldoli è questo, una miniera di continue, piccole sorprese di biodiversità, negli anni Riccardo le ha censite e studiate proprio tutte, ed è qui che devi venire allora, se davvero vuoi capire il senso delle primavere e degli autunni sulle colline di Napoli, coi gruppi di violette e ciclamini, e il tappeto color cielo della pervinca, le orchidee spontanee maculate di sanguigno, e la chioma del bosco che vira con la stagione dal verde tenero al giallo oro all’arancio. Nel silenzio del bosco, davanti a noi s’alza all’improvviso in volo una poiana, da vicino appare enorme, mi sembra un segno miracoloso, come in una poesia di Montale, e tutto questo accade a meno di dieci minuti dal frastuono e dal caos brulicante del sabato di città.
Si, il Parco dei Camaldoli è un miracolo, ma è anche il frutto delle battaglie di un ventennio, dalla metà degli anni ’70, di un pugno testardo e coraggioso di cittadini e associazioni, che vedeva questo tesoro erodersi giorno dopo giorno per le lottizzazioni abusive, le frane, le antenne selvagge, le discariche, le cave, gli incendi, e lottò per l’acquisizione pubblica, per conservare alla collettività ciò che restava, dopo le mani sulla città, delle millenarie e gloriose selve flegree.
Ed allora sono venuto al Vomero, nella bella casa di Pio Russo Krauss, pediatra, il nostro maggiore esperto di medicina pubblica, gli ho chiesto di raccontarmi ancora una volta come andarono le cose, e lui pazientemente ha recuperato i dossier, le denunce, insieme a fasci di vecchie, bellissime foto. Tutta la vicenda è riassunta in un dattiloscritto ingiallito (“Camaldoli: una collina indifesa”), la prefazione è di Ugo Leone, le foto oramai sono macchie sbadite, ma è una delle testimonianze più importanti dell’ambientalismo napoletano, leggo i nomi degli autori, con Pio c’erano Giovanni Lubrano Di Ricco, Hermes Ferraro, Nicola Gaglione, Corrado Garbi, Gigliola Golia, Roberto Langella, Enzo Miano, Casimiro Monti, Roberto Radice, il grande Francesco Luccio.
Sull’onda della pressione pubblica il parco viene istituito nel 1981, è Giovanni Dispoto, giovane urbanista del Comune, a suggerire al vicesindaco Di Donato di impiegare un residuo di fondi della Cassa del Mezzogiorno per espropriare i suoli e realizzare recinzioni e attrezzature, ma ci vorranno comunque più di quindici anni per il faticoso completamento dei lavori.
Ad ogni modo ora il parco c’è, ma non sappiamo che farne, ed è proprio in quell’opuscolo ingiallito del 1986 che è lucidamente descritta la principale difficoltà, che è poi quella ” …della gestione dell’area, col rischio quanto mai probabile che, una volta ultimati i lavori, il parco resti chiuso a degradarsi, poiché non si sa chi e come deve gestirlo”. Si tratta di parole che a distanza di trent’anni suonano profetiche perché, da allora, un sistema di gestione dell’antico bosco non è mai stato definito, il ceduo non è stato curato e tagliato, ed ora sta morendo, con le ceppaie che si spengono ad una ad una, in un intrico selvaggio di pali avvinti dall’edera, che franano e smottano giù tristemente, assieme a lingue di terra, in uno sfacelo grandioso, da giungla tropicale.
“In realtà gli ecosistemi non si fermano mai” mi dice Stefano Mazzoleni, ecologo vegetale della Federico II, che allo studio di queste dinamiche lavora da un trentennio. “Se la cura del ceduo, dopo duemila anni si interrompe, il bosco abbandonato troverà un suo nuovo equilibrio, il castagno muore e arriva la roverella, o magari specie aliene come l’ailanto, ma la fase di transizione dura decenni, nel frattempo anche la geomorfologia e i suoli si mettono in moto, con le frane e le erosioni, prima che un nuovo equilibrio si instauri”. E’ evidente che una cosa simile può andar bene forse per l’Appennino rimasto senz’uomini, non nel cuore della terza città d’Italia, visto poi che il dissesto della collina, col fuoco, le acque selvagge e le frane, minaccia la sicurezza dei nostri quartieri più popolosi, Pianura e Soccavo, assieme agli agglomerati di Marano e Quarto, malamente cresciuti senza regole, giusto al piede dei versanti.
Come poi spesso accade in Italia, a complicare le cose ci si mette anche la selva delle leggi, più intricata di quella vegetale, perché i castagneti dei Camaldoli, essendo un parco pubblico, non rientrano nella definizione giuridica di “bosco” secondo le leggi forestali, “e questo crea un equivoco colossale”, mi spiega Fabrizio Cembalo Sambiase, agronomo paesaggista, “perché ci si illude di poter gestire l’area come fosse un giardino pubblico qualsiasi, dimenticando che si tratta pur sempre di un bosco, che come tale va trattato e curato.”
Fabrizio di queste cose ha lunga esperienza, gestisce i vasti castagneti di famiglia, sui versanti del Monte Stella, in Cilento. Per il Comune di Napoli ha redatto nel 2005 un piano di gestione del Parco dei Camaldoli, mi mostra le cartografie dettagliate, l’idea era quella di fare del bosco una grande azienda forestale multifunzionale, per la produzione di pali e assortimenti legnosi, assai richiesti per l’ingegneria naturalistica e i pergolati agricoli tradizionali, e di energia rinnovabile, con gli scarti forestali che diventano prezioso combustibile, in grado di riscaldare un polo ospedaliero, o un grande plesso scolastico. Si creerebbe così lavoro per una cooperativa giovanile, sul modello della “Paranza”, alla Sanità, con il risultato di tenere in ordine, perfettamente fruibile il bosco, accompagnare i visitatori, governare le acque, fare la manutenzione dei versanti e dei suoli, prevenire gli incendi, proteggere la fauna e la biodiversità.
Il piano di Fabrizio è finito in un cassetto, e invece sarebbe il caso di recuperarlo in fretta, perché proprio mentre sto scrivendo, il Comune ha provveduto a interdire a tempo indeterminato il grande Parco al pubblico, i cancelli di Camaldolilli, Ignazio di Loyola e dell’Eremo li trovi mestamente chiusi, con la motivazione del rischio di schianto degli alberi e della mancanza di personale, che poi è il gatto che si morde la coda, perché è evidente che senza manutenzione la città ti si ritorce contro, nelle sue parti in pietra come in quelle verdi: diventa impraticabile, ostile, e la soluzione non può essere ogni volta quella di dismettere progressivamente i luoghi dei quali non riusciamo più ad aver cura, abdicando sistematicamente all’incapacità e all’impotenza.
Così, le due grandi foreste urbane continuano a parlarci della città e di come siamo, e dei futuri possibili, con il bosco di Capodimonte a mostrarci che c’è ancora forse occasione di riscatto, di migliorare la vita delle persone, offrendo loro nuove opportunità e servizi, e diritti concreti di cittadinanza; ed il Parco dei Camaldoli che è invece la pagina scura, quella del declino della città pubblica e del suo governo; di un’amministrazione che chiude uno alla volta ai cittadini i paesaggi e gli ecosistemi più fragili e belli, che è poi, al netto di chiacchiere e slogan, la forma più desolante e intollerabile di povertà.
Da Eddyburg, la piccola grande storia del PRG di Napoli, scritta da Vezio De Lucia.
Antonella Di Nocera, Repubblica Napoli 15 giugno 2017
Martedì 13 giugno. Roghi al Parco De Filippo. Come ieri a via Esopo e a via Bartolo Longo. Ancora una volta, roghi e fumi che entrano nelle nostre case, nelle nostre vite, nelle nostre teste di periferia est. Ci sono passata in macchina poco dopo le 20, i pompieri stavano con fatica terminando di placare le fiamme. L’aria acida, irrespirabile, cattiva, mentre un tramonto rosso invadeva il cielo ad ovest, inducendo a immaginare giorni migliori. Quanto tutto questo interessi poco alla città e a chi la sta governando è cosa ormai acclarata, così normale che nessuno ci fa più caso. E nessuno neanche più pretende il sacrosanto diritto che le cose vadano diversamente. Un paradosso, enorme, che mi fa zittire, proprio come quello messo in scena stasera, dagli sportivi che, nonostante il fumo e l’aria irrespirabile, facevano jogging intorno al Parco. Provo una ammirazione sincera verso chi si riesce ad adeguarsi. Corrono intorno al “cadavere” del Parco Fratelli De Filippo, uno dei tanti aperti negli anni ‘90, poi più volte “inaugurato”, ma da oltre un decennio, come gli altri parchi della zona orientale, chiuso al pubblico. Ora, il fatto che un parco verde comunale vada a fuoco, che in pochi giorni il territorio di Ponticelli sia stato colpito da vari incendi dolosi è grave, ma che tutto questo non riesca neppure a essere portato all’attenzione dell’opinione pubblica è assai più grave. Direi di più: è l’orrore, il segno di una disperata assuefazione al peggio.
Tornando a casa, poco dopo, ho scoperto che era martedì e che alla stessa ora degli incendi il sindaco di Napoli era in diretta Facebook nella redazione di Repubblica. Il fatto che il sindaco non venisse a sapere in diretta che in quel momento stava andando a fuoco uno dei principali parchi urbani della città confermava il mio sentimento. Per curiosità ho ascoltato tutto l’intervento per vedere se in qualche momento ci fosse un riferimento non dico all’episodio, ma almeno allo stato di abbandono del territorio di cui la sequela di roghi di questi giorni rappresenta la classica pistola fumante.
E allora, mi sono detta: basta. Da quando sono ridiventata una libera cittadina, all’incirca quattro anni, non ho preso quasi mai la parola nel dibattito pubblico sulla città. Ho aspettato ancora un anno, dopo l’inizio della nuova consiliatura, consacrata, nelle promesse elettorali, a un impegno per le “nuove centralità”, in attesa di ascoltare qualcosa di sensato che riguardasse le periferie, una idea minima, uno straccio di strategia, o almeno una parola di umiltà, che potrebbe dire molto più di tanti discorsi e trionfi millantati: qualcosa insomma che somigliasse a un discorso di verità. Insomma, accanto ai forum andati, alla cultura delle kermesse, ai famosi turisti, alle feste (degli altri) nei vicoli e sulle spiagge, un poco di quella sensazionale “realtà” che riguarda i cittadini comuni, qualcosa che possa farli sentire meno esclusi e distanti, come se quella città in vetrina non gli appartenesse più. Qualcosa che dovrebbe suonare un po’ così, e che a recitarla, tipo mantra, farebbe bene pure a te, caro sindaco: “Mi dispiace, cara periferia, non ce la facciamo”.
Non ce la facciamo a raccogliere i rifiuti a Ponticelli come facciamo in altri quartieri, così via Mastellone, via Esopo, via Pietri resteranno magnifici sversatoi a cielo aperto sullo sfondo della bellissima sagoma del Vesuvio.
Non ce la facciamo a mandarvi un vigile urbano nella Municipalità più vasta della città. Non se ne vede uno da almeno dieci anni per le strade di Ponticelli, Barra e San Giovanni, e ormai si fa a gara a chi è più incivile ed irrispettoso di qualsiasi regola. Perché i blitz in cui si fiondano decine di autovetture di polizia e carabinieri non hanno alcun effetto sull’ordinario vivere di una comunità. È il poliziotto municipale, a piedi, a contatto con le persone che ha un senso in questi nostri quartieri. Non ci vuole molto a capirlo. Perché alle sparatorie si può rimediare con qualche mese di tregua, ma per costruire umanità si lavora tutti i giorni, con costanza, con cura.
Non ce la facciamo a tenere aperte le strutture sportive come il Palavesuvio. Quest’anno perfino le palestre scolastiche sono state negate alle storiche società che si occupano di sport per i giovanissimi, perché la politica ha lasciato vincere l’inerzia e l’inettitudine dei burocrati sul valore sociale ed il benessere dell’attività fisica che deve riempire le giornate dei ragazzi.
Non ce la facciamo a tenere aperte le biblioteche e i parchi, a riaprire il cinema Maestoso di Barra o il Supercinema di San Giovanni, a pulire le aiuole e a non far morire gli alberi di quella che era la terra più fertile della città.
Non ce la facciamo a ridare vita alle aree destinate ai progetti di riqualificazione urbana falliti, diventate qualche volta oggetto di speculazione, ma più spesso di degrado e incuria.
Non ce la facciamo a farvi vivere come cittadini normali perché a voi è negata quella “democrazia della mobilità” che da sola renderebbe la nostra città più giusta e rispettosa dei diritti: per un anziano di andare al cimitero, o all’Asl, per uno studente di recarsi a scuola nel quartiere limitrofo con i mezzi pubblici.
Non ce la facciamo, neanche se possedete un’automobile, a garantirvi la normalità di poter raggiungere il centro per lavorare o per andare sul lungomare. Da due anni, con modalità a dir poco umilianti, i lavori di via Marina vengono interrotti, e quando sono in corso, con quattro sparuti anziani operai, non sai se farti prendere dal riso o dal pianto amaro. Mentre via Marina è un budello infernale di macchine, si è riusciti a chiudere al traffico verso Est anche via Ferraris, unica alternativa esistente.
E quando poi si aggiunge il famigerato ingorgo della rotatoria di Corso Lucci (perché siamo l’unico posto al mondo dove i mega- bus alunga percorrenza si immettono nella strettoia del traffico verso la stazione) allora puoi anche dire addio alle tue prossime due ore di vita.
Non ce la facciamo sarebbe il pensiero umile e consapevole con cui il sindaco potrebbe presentarsi e orientare le sue scelte per il futuro della città, perché a volte l’ottimismo non basta.
La lezione di Tabarez “Il risultato è un mistero non sempre si spiega”
Francesco S. Intorcia, Repubblica del 7 giugno 2017
“Sostiene El Maestro che il tecnico sia per forza uomo di sinistra, «inseguiamo un’utopia, il progetto da realizzare in campo, ma che il calcio invece rappresenti “qualcosa di destra”, lega i nostri destini al risultato.” Prendo tutti i libri di politica e li butto via, mi basta questo.
Il Maestro cammina armato di coraggio e di una gruccia su cui scaricare il dolore. Provato nel fisico, non nell’animo. Le rughe scavate dispensano l’antica saggezza dell’insegnante. «Ho sempre pensato che sono le grandi sfide a mantenere vive le persone. Io farò l’impossibile per coprire la distanza fino alla meta: il mio contratto scade con il Mondiale e voglio portarci l’Uruguay». Da quasi due anni Oscar Washington Tabarez convive con un serio problema neurologico che ne limita le capacità motorie. Sulla panchina della Celeste dal 2006, è il ct più longevo insieme al tedesco Joachim Löw e il primo per numero di partite, 170: a marzo ha staccato Sepp Herberger. «Nella mia vita sono più vicino alla fine che all’inizio, ho 70 anni, non ho mai pensato di essere migliore degli altri e di schivare i problemi che arrivano alla mia età. Vedremo cosa mi domanderà il futuro, stavo peggio alla fine del 2015, ora sono migliorato, mi sento bene, sapete?». Nell’ultima Coppa America utilizzava una carrozzina a motore, sui giornali è circolata un’ipotesi del suo male che lui ha smentito con fermezza. «Alcuni giocatori sono con me da 11 anni, mi sento appoggiato e rispettato. Sono intelligenti, sanno che adesso quando alleno non faccio più certe cose, non come prima. Ma i miei collaboratori lavorano per me». Due assistenti, un paio di preparatori fisici. «Di sicuro non parlo della mia salute a colazione con la squadra e non penso di aver perduto nulla nella conduzione e nella leadership. Il momento difficile della nostra nazionale, quattro sconfitte di fila, non ha nulla a che fare con i miei problemi di salute, che restano privati».
Nel girone sudamericano, l’Uruguay è terzo assieme al Cile, con un punto di vantaggio sull’Argentina che, oggi, andrebbe allo spareggio. Mancano quattro partite e il 31 agosto ci sarà la sfida a Messi. «Contro l’Italia mancano Cavani, Suarez, Godin, Rodriguez: dobbiamo essere preparati al peggio. Però con l’Argentina li riavrò tutti e sono fiducioso. Il calcio vive di momenti: l’Uruguay non può sorprendere il mondo ma neppure è quello visto di recente. Abbiamo un bacino demografico ridotto e molti ruoli scoperti, a partire dai terzini. E poi io credo che nel costruire i campioni contino ancora più la mamma e il papà che l’allenatore ».
Sostiene El Maestro che il tecnico sia per forza uomo di sinistra, «inseguiamo un’utopia, il progetto da realizzare in campo, ma che il calcio invece rappresenti “qualcosa di destra”, lega i nostri destini al risultato. Ma il risultato spesso è un mistero: non puoi spiegarlo. Io non sono uno di quelli che parlano tanto prima. La bocca non ti fa vincere le partite. Bisognerebbe rimandare i commenti al “dopo”. Solo che, appunto, il risultato non sempre lo puoi spiegare ». In Italia ha allenato Cagliari, due volte, e Milan: quando tornò sull’isola, estate ’99, rilevò proprio Ventura. «Non lo conosco personalmente ma so come lavora, ha ottenuto grandi risultati con squadre sempre di medio livello. L’Italia è una delle nazionali più difficili da affrontare, ha grandi individualità in attacco, giocatori veloci, un ottimo centrocampo e un profilo tattico definito. È una referente nel calcio mondiale, non ha perduto i suoi punti di riferimenti storici». C’è un velo di malinconia, quando parla dei nuovi padroni del pallone: «Oggi i soldi arrivano da alcune parti del mondo, neanche il Milan si è salvato da questo fenomeno globale. È un calcio in cui si spende tanto, se non arrivano i risultati è un dramma. Fortuna che poi, in campo, resistono ancora leggi tradizionali».
Ugo Leone, Repubblica Napoli 26 maggio 2017
Attenzione agli “stronzilli” di polvere. Innanzitutto: che sono? Ce lo spiega Ferdinando Galiani in un volumetto dal titolo “Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera delli otto d’agosto del corrente anno (1779). Ma (per grazia di Dio) durò poco”. In questo librettino l’abate descriveva l’eruzione del 1779 e concludeva: “Per non restare con scrupolo alla coscienza devo nel concludere confessare il mio peccato e colle lagrime agli occhi cercarne perdono alli miei cari benefattori e lettori. Io ho messo nel titolo dell’opera che questa eruzione fu spaventosissima, e non è vero niente affatto… Ma io l’ho fatto per dar concetto al mio libro, movere la curiosità, e così venderne più; e non sono stato solo a far così, perché gli altri pure hanno detto mirabilia di questa eruzione, ma in coscienza da sacerdote indegno che sono, per la verità l’eruzione fu poca cosa, e chi si ricorda quella del 1737 dirà che c’è la differenza, che c’è tra una cannonata e uno stronzillo di polvere sparato incoppa a un astrico.”
Non è la prima volta che di questi “stronzilli” si fa uso con riguardo al Vesuvio e ai Campi Flegrei e al rischio di un’eruzione nell’uno e negli altri col catastrofico pericolo per la popolazione che vi risiede. L’ultima riguarda un articolo su “Nature communications” dal titolo “Progressive approach to eruption at Campi Flegrei caldera in southern Italy” i cui contenuti, o quelli che si riteneva fossero i suoi contenuti, hanno alimentato dibattito e allarme. In sostanza si tratta della notizia di un modello, elaborato da ricercatori dell’Osservatorio vesuviano dell’Istituto nazionale di Geofisica e vulcanologia e dell’University college di Londra, che consentirebbe di ritenere non lontana un’eruzione.
Sappiamo bene che negli ultimi cinquant’anni il bradisismo flegreo ha registrato due picchi nel 1970-72 (con l’evacuazione del Rione Terra) e nell’1983-84 (con la costruzione di Monteruscello). E sappiamo che il bradisismo, lo dice la parola stessa, è un lento movimento del suolo e che i Campi Flegrei sono sede di un vulcanesimo attivo (secondario, si definisce) del quale abbiamo due manifestazioni esplosive: quella che circa 4000 anni fa diede origine al Monte Spina ad Agnano e quella che nel 1538 diede origine al Monte Nuovo nella zona di Lucrino.
Secondo il nuovo modello al quale si fa ora riferimento i più recenti sollevamenti del suolo flegreo sono il risultato di un “accumulo di sforzi in profondità” in seguito al quale si potrebbero verificare le condizioni per un’eruzione.
Come, quando, perché? La risposta di Christopher Kilbum, firmatario dell’articolo insieme con Giuseppe De Natale è che “non sappiamo se o quando questo periodo di deformazione a lungo termine porterà a un’eruzione, ma intanto il nostro modello spiega bene quel che accadde in un’area molto simile ai Campi Flegrei, quella di Rabaul in Papua Nuova Guinea, che eruttò nel 1994 dopo un modesto episodio deformativo (una decina di centimetri), in un’area che aveva però già accumulato, nei decenni precedenti, alcuni metri di sollevamento”. Personalmente non sono un vulcanologo, ma un umanista legato alla importanza della correttezza dell’informazione. Quindi non mi permetto di entrare nel merito di questa affermazione pur permettendomi qualche perplessità sull’accostamento di Rabaul in Papua Nuova Guinea ai Campi Flegrei.
Mi sento, perciò più “rassicurato” da quanto ha scritto l’altro firmatario De Natale. Cioè che “quanto l’attuale condizione dei Campi Flegrei sia vicina al punto critico dipende molto dallo stato fisico attuale del sottosuolo flegreo. Calcolare, quindi, con precisione il reale stato fisico delle rocce profonde ai Campi Flegrei è una priorità per la ricerca futura”.
Insomma “questo nuovo modello interpretativo rappresenta un’importante evoluzione rispetto ai metodi di previsione delle eruzioni, essenzialmente empirici, utilizzati finora”. Significa che si è fatto un passo avanti importante sulla prevedibilità dei terremoti? È bene che sia così. E bene ha fatto De Natale a chiarire la cosa e a farlo a Pozzuoli che è la città la cui popolazione (81.000 residenti) è quella maggiormente esposta. È qui, infatti che, in un affollato incontro col sindaco e con i cittadini, De Natale ha detto che “non è vero che un’eruzione sia imminente, mai detto che il magma sia risalito”. L’allarme è derivato dal fatto che si è parlato di allarme vulcano a causa di “un titolo infelice e inappropriato del comunicato diramato a Londra” dagli autori dell’articolo. Stronzilli di polvere, appunto.
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