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Antonio di Gennaro, 20 novembre 2013

Manca una quarantina di giorni appena alla nascita della città metropolitana se, come sembra, l’iniziativa legislativa del governo Letta dovesse produrre i suoi effetti, ma il comune capoluogo e la provincia in scadenza hanno scelto di occupare questa così piccola vigilia in sterili battibecchi, che evidenziano solo l’incapacità dei due enti di svolgere un qualche ruolo dirigente nel processo in corso. La retrocessione del gonfalone di Napoli dalla testa del corteo che sabato scorso ha attraversato le strade del centro storico esprime plasticamente tutto questo. Appare evidente come la domanda indifferibile di riqualificazione territoriale, di ricostruzione nell’hinterland devastato di condizioni decenti di vita, che quella manifestazione ha posto drammaticamente all’attenzione pubblica, non può trovare la sua risposta nell’azione disordinata di 90 e più comuni: un governo di scala metropolitana è indispensabile, ma l’attuale rappresentanza politica e istituzionale appare totalmente inadeguata a cogliere questa sfida storica.

E’ bene dirlo con chiarezza: il nuovo ente metropolitano, così come immaginato nel disegno di legge governativo, che prevede un meccanismo di secondo grado, con il sindaco metropolitano non eletto direttamente, ma piuttosto designato dai sindaci delle città o delle unioni di comuni con più di diecimila abitanti, nasce male. In Italia gli enti di secondo grado (comunità montane, comunità dei parchi ecc.) hanno sempre dato pessima prova di sè, configurandosi come il trionfo della politica inconcludente e autoreferenziale, proprio quella cui la spending review vorrebbe limare le unghie. Nelle attuali condizioni, la città metropolitana rischia effettivamente di proporsi come l’inutile camera di compensazione di tutte le fumisterie.

Tutto questo mentre il territorio ribolle, si è messo in movimento, reclamando azioni concrete per il miglioramento delle condizioni di vita del popolo di quattro milioni e mezzo che abita la grande conurbazione. Nel suo articolo di martedì scorso su Repubblica Domenico Pizzuti sottolineava gli accenti  anti-istituzionali degli slogan dei manifestanti, che assegnano uguale responsabilità nel saccheggio dell’hinterland alla criminalità come alle istituzioni repubblicane. C’è però il fatto che nel documento dei comitati, con le 10 proposte per uscire dalla crisi sociale, economica e ambientale della grande pianura, sorprendentemente prevalgono gli aspetti costruttivi, con una domanda di riassetto e cura del territorio, e una richiesta di partecipazione, che solo istituzioni governanti sono in grado di cogliere. Certo, accanto a questo c’è il no a ogni tipo di impiantistica sui rifiuti, ma la piattaforma dei comitati è articolata, e si presta a costituire la base per un percorso difficile e nuovo di dialogo e collaborazione.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 22 novembre 2013.

copertinaPorpora

Tempofertile è il blog di Alessandro Visalli, che così condivide in rete la sua biblioteca di scienze sociali e i suoi appunti di lettura. Buon cibo per la mente, per “aprire il proprio pensiero al mondo…”.

http://tempofertile.blogspot.it

BoscoInfinito

(Immagine tratta da bioenergyitalyblog.it)

Antonio di Gennaro, 12 novembre 2013

La notizia del sequestro di 43 ettari di coltivazioni agricole e di 13 pozzi per irrigazione nel cuore della piana campana, a Caivano, è dolorosa in sé, ma lo è ancor di più in prospettiva, per le possibili conseguenze che essa potrebbe avere per l’agricoltura regionale e nazionale.
Per capire cosa è successo è utile ricapitolare alcuni aspetti della vicenda. Il primo dato è che la magistratura napoletana ha disposto il sequestro delle aree agricole sulla base di analisi di acque irrigue provenienti da pozzi legalmente autorizzati, effettuate volontariamente dagli agricoltori, nell’ambito di un monitoraggio promosso dall’amministrazione comunale di Caivano. A fronte di un comportamento all’insegna della responsabilità, per gli agricoltori è paradossalmente scattata una denuncia penale per inquinamento della falda idrica.
Molti dei pozzi sono stati sequestrati per elevati contenuti di fluoruri, manganese, arsenico. Si tratta di composti naturalmente presenti nella falda di una pianura vulcanica. Questo significa che si tratta di “valori di fondo” dell’ecosistema, che quelle sostanze nell’acqua ce le ha messe la natura, non l’uomo, proprio come nel caso del viterbese.
In alcuni pozzi è stata rilevata la presenza di triclorometano, un composto organico volatile che si disperde in atmosfera con un semplice gorgogliamento delle acque. In ogni caso, come dimostrato dall’Istituto Superiore di Sanità per l’area ex-Resit di Giugliano, questi inquinanti organici non si rinvengono nei prodotti agricoli irrigati con acque che pure ne contengono. La conclusione è che non esiste nessun rischio per la salute umana. D’altro canto la legge prevede che eventuali provvedimenti interdettivi delle attività agricole si basino su una rigorosa analisi del rischio, proprio quello che non si è fatto a Caivano, dove si è proceduto al sequestro delle coltivazioni senza effettuare analisi della sanità dei prodotti. Se passasse il ragionamento della Procura di Napoli dovremmo dismettere mezza agricoltura regionale, proseguendo a stretto a giro con le altre pianure italiane, che da questo punto di vista hanno problemi a volte ben superiori ai nostri.
C’è poi il fatto, in questo scombinato paese, che una normativa specifica per i suoli e le acque ad uso agricolo ancora non esiste: nel vuoto legislativo si procede quindi per analogie, per inferenze che, come nel caso di Caivano, non stanno proprio in piedi. Anche perché il Piano di tutela delle acque dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale dimostra come la situazione riscontrata a Caivano, sia per i valori di fondo che per i contaminanti antropici, caratterizzi ad ampio raggio l’intera falda della piana campana, e non si capisce quindi quali sarebbero le responsabilità penali del singolo agricoltore.
Il faro che la magistratura ha acceso sulla piana campana è doveroso, ma la caccia alle streghe non serve a nessuno. Dovremmo con calma comprendere come le attività agricole in Terra di lavoro non costituiscono una fonte di rischio, più di altre attività umane con le quali pacificamente conviviamo, ma piuttosto una forma di presidio economico, culturale, civile del quale abbiamo bisogno ora e in futuro.
Nell’ultimo quarantennio il territorio della piana campana è stato maltrattato, ora ha bisogno di un grande intervento di cura, messa in ordine, ripristino di civili condizioni di vita. In questa immane opera gli agricoltori sono i nostri principali alleati, non il capro espiatorio da gettare in pasto a un’opinione pubblica suggestionata.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 13 novembre 2013.

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Antonio di Gennaro, 11 novembre 2013

Ho sempre votato alle primarie, sempre, per le elezioni locali, la segreteria nazionale, il premier. Per tutti questi anno ho continuato a pensare che, pure in mezzo a tante delusioni, contraddizioni, inadeguatezze, le idee che hanno animato l’Ulivo fossero un buon progetto per l’Italia. Di quella spinta rimane assai poco, mentre i 101 restano nell’ombra. Ed allora può bastare così, l’8 dicembre non sarò in fila.

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Antonio di Gennaro, 9 novembre 2013

La tempesta mediatica che ha scosso l’agricoltura in Terra di Lavoro e in Campania si sta rivelando un importante momento di riflessione e apprendimento collettivo, producendo effetti inattesi e positivi. La novità è che, dopo aver accusato il colpo, il settore agricolo regionale si è finalmente attivato, alla ricerca di risposte concrete alle preoccupazioni di un’opinione pubblica sconcertata, proprio come auspicato da Ugo Leone nel suo articolo su Repubblica del 7 novembre scorso.

Il fatto, senza precedenti in Campania e in Italia, è che tutte le Organizzazioni dei produttori agricoli (OCM, organizzazioni comuni di mercato) della regione hanno adottato il protocollo di controllo dei prodotti agricoli messo a punto a tempo di record dal Dipartimento di Agraria, in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico e l’Arpac. Le organizzazioni hanno siglato una convenzione con l’Università, i cui tecnici effettueranno i campionamenti in azienda, e analizzeranno i prodotti agricoli nei laboratori del Dipartimento di Chimica della Federico II.

I controlli analitici, che partono immediatamente ed avranno massima pubblicità, andranno ben oltre quelli previsti dalle disposizioni comunitarie e nazionali, con la ricerca di tutta la gamma di sostanze organiche e inorganiche che potrebbero contaminare i prodotti in caso di presenza di rifiuti. L’approccio è quello di considerare il prodotto agricolo come bio-indicatore della qualità dell’ecosistema agricolo dal quale esso proviene, proprio come suggerito dall’Istituto Superiore di Sanità.

Non era mai successo che i produttori campani si stringessero insieme in questo modo. Le difficoltà che il settore si trova a fronteggiare costringono a riscoprire le virtù di un associazionismo da noi storicamente gracile. L’auspicio è che l’unità operativa e di intenti  ritrovata, resista anche dopo, mettendo fine ad una condizione di disgregazione che ha condannato alla subalternità un settore strategico per l’economia regionale, la coesione territoriale, la qualità dei suoi paesaggi.

Questa sinergia tra il settore privato e le strutture pubbliche di ricerca e controllo appare come la risposta più seria alla crisi in corso e alle aspettative dei cittadini-consumatori, più delle paventate misure interdittive, che hanno tanto l’aspetto di grida manzoniane, o di leggi speciali che, nell’indeterminatezza di strumenti e obiettivi, finirebbero per bollare a tempo indeterminato questo pezzo d’Italia, aprendo uno stato di eccezione al quale Dio solo sa come si riuscirebbe a porre termine.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 10 novembre

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Antonio di Gennaro, 1 novembre 2013

E’ possibile che si debba guardare alla manifestazione del 26 ottobre scorso a Napoli come a una data in qualche modo storica: quella nella quale l’hinterland di Napoli si è per la prima volta proposto  come soggetto politico autonomo. La pianura vulcanica fertile attorno al capoluogo troppo a lungo ha funzionato come riserva silente, urbanistica ed elettorale. La tragedia collettiva della terra dei fuochi, l’improvvisa, dolorosa consapevolezza del saccheggio territoriale, dei crimini che sono stati commessi contro l’ecosistema e il paesaggio, la non tollerabile incertezza circa gli effetti sulla salute delle persone; tutto questo ha finito per funzionare come crogiuolo di nuove esperienza sociali e politiche.

“Grumo Nevano non deve morire” si leggeva sui cartelli, con lo slogan declinato per le decine di toponimi di comuni e città disseminate per la piana: i casali che ancora 60 anni fa conservavano loro fisionomia urbanistica, sociale e culturale, le loro agricolture, manifatture, opifici; tutti risucchiati nella selvaggia espansione urbanistica dell’ultimo quarantennio, che li ha fusi insieme in una disordinata, sterminata periferia con quattro milioni e mezzo di abitanti, della quale ciascuno di essi rappresenta ormai solo un indistinto, congestionato, povero segmento. Anche se, come nel caso di Giugliano, si tratta della terza città della Campania, entrata oramai nella lista delle prime 50 città d’Italia.

Eppure la manifestazione del 26 ottobre ha dimostrato come le identità locali non siano estinte, anzi. I comuni dell’hinterland reclamano ciascuno e collettivamente un proprio diritto al futuro, e tutti guardano con preoccupazione alla costituzione prossima della città metropolitana, vista come momento di definitiva dissoluzione, di subordinazione ad un capoluogo che li ha sino a questo momento disconosciuti e traditi.

Naturalmente tutto questo è anche frutto della drammatica incapacità di Napoli di costruire una leadership credibile, un proprio ruolo di rappresentanza e servizio, di lavorare ad un progetto di scala territoriale, in nome e per conto anche dei partner minori dell’alleanza: quei comuni e casali che hanno sfilato il 26 ottobre, per le strade gonfie di storia del capoluogo, contro il capoluogo. Un’incapacità, un atteggiamento angusto delle classi dirigenti napoletane, esercitato nei riguardi dell’hinterland, ma in fondo anche in casa propria, se la città vive ancora, come nel racconto di Leopardi, sulla convivenza di quartieri e municipalità che disperatamente vivono di vita propria, privi di un progetto e di un destino comuni.

Le modalità con le quali il nuovo soggetto territoriale e politico nasce non sono naturalmente quelle del passato, più comodamente gestibili dalle forze politiche tradizionali, ma piuttosto quelle poliformi e liquide del web, delle reti di comitati, con un ruolo importante svolto dall’infrastruttura capillare delle parrocchie e delle diocesi. Tutti i giochi risultano così scompaginati. Se sino a pochi mesi fa lo schema era quello di un centrosinistra egemone nel capoluogo e un centrodestra più competitivo nell’hinterland, tutto questo potrebbe all’improvviso non valere più, con il riproporsi a scala metropolitana di un nuovo campo di forze, simile piuttosto a quello assai più imprevedibile dell’attuale parlamento nazionale.

Quello che è certo è che in questa complicata situazione non è possibile salvarsi da soli. Quell’integrazione, quell’immagine unitaria che i territori campani non riescono autonomamente a costruire sul terreno dei progetti e dei valori territoriali, paesaggistici e culturali specifici, è l’opinione pubblica globale ad affibbiarcele rudemente, questa volta all’insegna dei veleni e di un insensato terrore.

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Sembra che il dibattito pubblico abbia individuato in una legge speciale lo strumento per la bonifica delle aree inquinate della piana campana. Di questo avviso è anche il presidente Caldoro, che ha sollecitato parlamento e governo ad accelerare. Di fronte a simili iniziative le perplessità non mancano, e il timore che soluzioni inappropriate possano complicare la soluzione dei problemi. Nella piana campana l’ obiettivo è ristabilire la sovranità dello Stato sul territorio. Resta da capire quanto possa risultare utile allo scopo una legge speciale, con il suo immancabile corollario di poteri straordinari, deroghe alle normative vigenti, procedure accelerate, per la gestione di risorse anch’ esse straordinarie, alle quali, in questi tempi di vacche magrissime, molti, troppi vorranno poter accedere, in contesti da questo punto di vista assai sensibili. C’è poi la preoccupazione che i meccanismi straordinari finiscano per divenire ulteriori alibi all’inazione, con il risultato di depotenziare ancor di più le già gracili capacità decisionali, di controllo e contrasto degli enti di governo locali, a partire dai Comuni: sarebbe a dire proprio quelle funzioni che dovremmo piuttosto irrobustire e rigenerare, per affermare una volta per tutte sulle nostre terre l’ effettività dei poteri dello Stato democratico. La piana campana non ha bisogno di un indistinto e generico intervento straordinario di bonifica, ma piuttosto della messa in sicurezza delle ferite che, come ha tenuto a ricordare lo stesso presidente Caldoro, sono localizzate, e corrispondono innanzitutto ai 900 ettari circa delle “aree vaste” già individuate nel piano regionale di bonifica, ai quali vanno aggiunti i siti dei seppellimenti criminali, che le indagini della magistratura vanno via via identificando. Stiamo parlando di una frazione di territorio che vale l’ 1% della piana campana (che è grande 150.000 ettari), e lo 0,1% del territorio regionale. Il resto della grande pianura vulcanica, per più di tre quarti, sono ancora terre agricole, nelle quali si produce il 40% del valore delle produzioni campane. La difesa dell’ agricoltura in questi contesti costituisce la prima vera bonifica e messa in sicurezza del territorio, atteso che le analisi dell’ Istituto superiore di sanità, come anche quelle delle catene di grande distribuzione, che non possono assolutamente consentirsi errori, testimoniano della qualità e sicurezza delle produzioni agricole in queste aree. Per curare le ferite basterebbero, se ben gestite, le risorse reperibili dai fondi comunitari, della presente programmazione e di quella prossima, e qui l’impegno del governo, ha ragione Caldoro, dovrebbe essere quello di mettere in campo ogni strumento di cooperazione,e di non lesinare la quota di cofinanziamento, con la scusa del patto di stabilità, reperendo anzi risorse nazionali aggiuntive.

Antonio di Gennaro

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 27 ottobre 2013

 

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