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L’abstract dell’intervento che con Fabrizio Cembalo faremo al convegno della Fondazione Benetton “Il suolo come paesaggio”

Se provi a digitare su Google la parola “terra”, è l’algoritmo a completare la frase, e tra le primissime opzioni compare proprio “terra dei fuochi”. È una conferma della risonanza mondiale delle vicende della piana campana massacrata dall’abusivismo e dai rifiuti, tanto da fare della locuzione un simbolo, un luogo comune, uno stereotipo. Qualcosa che viaggia nel discorso pubblico globale, spogliata alla fine di ogni aspetto misurabile, tecnico, territoriale. L’areale problematico è assai circoscritto, ma nei negozi del centro-nord i cartelli portano scritto “non si vendono prodotti agricoli della Campania”. La cosa singolare è il fatto che sia l’agricoltura il principale imputato, anche se dopo sei anni neanche uno dei 40.000 campioni di prodotti agricoli analizzati ha rivelato problemi. Circoscrivere il problema è essenziale per definire le possibili soluzioni. Il modo generico ed emotivo con il quale la faccenda ha girato sui social network è proprio quello giusto per allevare paure, guardandosi bene dall’indicare possibili strade d’uscita. Quello che abbiamo capito, alla fine, è che “terra dei fuochi” è una malattia del paesaggio. Malattia generata dall’assenza di pianificazione pubblica. Le 140 città intorno al capoluogo partenopeo si sono saldate in un’unica, informe periferia lunga 90 chilometri. In questa città malcresciuta sono rimasti intrappolati i lacerti di Campania felix, i suoli agricoli più fertili della galassia, con 20.000 aziende agricole che, su meno del 10% della SAU producono il 40% del valore della produzione agricola regionale. Terra dei fuochi è la tragedia dei due milioni di italiani che vivono faticosamente questo spazio che sfida l’umana comprensione. In questa situazione complessa, abbiamo lavorato a numerosi progetti di paesaggio per curare le ferite: gli spazi agricoli mortificati, le cave, le discariche. Alcuni di questi luoghi simbolo, come l’ex Resit di Giugliano, la madre di tutte le discariche, ora sono spazi verdi pubblici, abbelliti dai murales di Jorit e dalle istallazioni di land art degli studenti del Liceo artistico di Napoli. Lì vicino, nel podere di San Giuseppiello, dove i camorristi sversavano i fanghi delle concerie toscane, un bosco di 20.000 pioppi lavora per tenere in sicurezza i suoli e le terre. Ancora, a contenere tutte queste cosei Comuni lavorano ora alla realizzazione di un Parco Agricolo che salvaguardi e curi i margini,  ricucendo i paesaggi. È un laboratorio verde all’aperto in continuo progresso, dove migliaia di studenti delle scuole pubbliche della Campania vengono a studiare e comprendere come si ricostruiscono i suoli e gli ecosistemi, restituendo dignità ai luoghi, un futuro diverso alle comunità che li abitano.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 3 febbraio 2020

L’avevamo detto, per capire le sardine devi stare attento alle cose che scrivono, più che alle dichiarazioni volanti. Ora c’è la lettera che i quattro ragazzi di Bologna hanno scritto al presidente del consiglio Conte, l’ha pubblicata per intero “Repubblica” sabato scorso, è un documento importante, che chiarisce bene quello che i giovani hanno in mente.

C’è innanzitutto l’individuazione del punto fermo, il baricentro di tutto il movimento, le cui “diverse anime… si muovono tutte, con sicurezza, nel solco dei principi e dei valori sanciti dalla nostra Costituzione”. In una società in frantumi, dove tutti i fili si sono spezzati, il solo riferimento certo resta quello, il programma di democrazia scritto nei primi articoli della Carta fondamentale.

Se questa è la premessa, non c’è poi niente di incartapecorito nel ragionamento dei ragazzi, ma piuttosto l’indicazione asciutta al presidente del consiglio dei tre fili da riannodare per curare la democrazia in affanno, lavorando sulle cause piuttosto che sugli effetti. I tre fili sono il Mezzogiorno, la sicurezza delle persone (intesa non come paura dell’uomo nero ma come offerta concreta di lavoro, sanità istruzione); il rilancio di una democrazia delle regole, all’interno della quale ciascuno, cittadini e amministratori, faccia con generosità la sua parte.

Non sono cose scontate. I tre fili annodati insieme sono l’unico programma serio di una forza progressista che si proponga di ricostruire il Paese, il fatto è che ce n’eravamo dimenticati, storditi e disorientati anche noi dalle chiacchiere a perdere dei populisti. Al punto in cui siamo, rimettere insieme le idee, costruire a partire dalle proposte delle sardine una piattaforma d’azione, non sarà comunque facile.

Nella lettera delle sardine c’è un’idea di Paese fortemente unitaria, nessuna concessione a percorsi separati di salvezza, all’autonomia differenziata alla quale i gruppi dirigenti del Partito democratico delle regioni del nord sembrano credere almeno quanto i loro colleghi del centrodestra. Nel documento dei ragazzi di Bologna si parla un’altra lingua. Se il sostegno delle sardine è stato decisivo per la vittoria in Emilia Romagna di Stefano Bonaccini, su queste cose la distanza è abissale, e molto c’è da fare per costruire una sintesi.

Ad ogni modo un lavoro impegnativo attende anche le sardine, a partire dal prossimo incontro a Scampia, per superare una divaricazione che appare netta tra i contenuti della lettera a Conte, e il sentimento che muove l’arcipelago delle variegate realtà locali che compongono il movimento. Una frase soprattutto nella lettera suona assolutamente decisiva: “Quando una certa politica si ciba della contrapposizione tra salute e industria, si mina ogni possibilità di sviluppo e di lavoro e si logora la reputazione dello Stato.”

Qui da noi il discorso non riguarda solo l’industria, è un nervo scoperto che tocca cose cruciali, come l’impiantistica sui rifiuti. Anche su questi aspetti la lettera delle sardine parla una lingua diversa, assai distante dal rivendicazionismo anti-tecnologico dei comitati locali che pure alle sardine guardano come alveo di riferimento. Insomma, non c’è niente di scontato nella lettera a Giuseppe Conte, è un percorso impegnativo, c’è lavoro per tutti, per le sardine come per i loro probabili compagni di strada.

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