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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 16 novembre 2020

Il Covid non vuole smetterla di scombinare le nostre vite, relazioni, economie, ma il grande vigneto ai piedi del Taburno stamattina sembra proprio non accorgersene, continua a coprire come un mare le colline fino all’orizzonte, in questa estate di San Martino radiosa, che sembra non finire mai. Il foliage – lo spettacolo delle colorazioni autunnali – è emozionante contro l’azzurro, ogni vitigno è un colore diverso della tavolozza, le pennellate gialle sono della falanghina, quelle rosso cinabro i pampini di aglianico, su uno sfondo verde cupo che prova ostinatamente a resistere.

Si conclude oggi nel Sannio, terra di storie lontane e gloriose, dove si concentra quasi metà del patrimonio viticolo della Campania, il viaggio nelle campagne travolte dalla pandemia. Frattanto s’è alzato un vento leggero, nel silenzio le foglie cadono una per volta, con un crepitio secco, come fossero di cristallo. La vendemmia 2020 s’è chiusa, ma il lavoro non è finito per Ildo Romano, uno dei mille viticoltori della Guardiense, stamattina sta dando il concime organico al vigneto, appena quanto basta, così che alla ripresa di inizio primavera la pianta trovi nel suolo scuro l’azoto che le serve. “Con la concimazione ci andiamo piano” mi spiega Ildo “il nostro obiettivo non è la quantità, ma la produzione giusta per fare un grande vino”.

Da tremila anni in queste terre l’agricoltura continua a essere cura della vita, il ripetersi di gesti misurati e precisi, per rinnovare annata dopo annata i cicli biologici che danno nutrimento agli uomini, un lavoro che non può essere fermato, neanche il virus c’è riuscito, anche se i pensieri non mancano, siamo di nuovo alle prese con provvedimenti difficili per contenere il contagio, mai come quest’anno aprile sembra maledettamente lontano.

Qual è il sentimento del popolo del vino in questo momento complicato lo chiedo al presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella, uno dei più prestigiosi enologi nel panorama italiano e internazionale, nel 2019 l’Università del Sannio gli ha conferito la laurea honoris causa in Economia e Management per il suo contributo allo sviluppo della viti-vinicoltura e del territorio sannita.  “E’ innegabile che il nuovo aggravamento della situazione ci preoccupa. Nei mesi del primo lockdown abbiamo visto il vino soffrire. Il vino ha un legame fortissimo col genere umano e con le terre che abitiamo, ci accompagna nei nostri momenti di meditazione, svago, convivialità. La grande crisi della ristorazione ci ha colpiti duramente: il ristorante rimane il miglior palcoscenico dei nostri vini, un ruolo che non può essere sostituito dalla grande distribuzione organizzata, o dalle vendite on line, due canali complementari, che pure ci hanno aiutato a contenere il calo di vendite. Eppure” prosegue Coterella “nonostante queste difficoltà, a nome degli enologi italiani devo dire che non abbiamo tutto il diritto di lamentarci. Altri settori dell’economia nazionale hanno sofferto la crisi più di noi. Mentre il vino ha mostrato nonostante tutto una capacità di recupero: nei mesi di giugno luglio e agosto, con la riapertura, abbiamo in parte colmato la perdita causata dal lockdown, con vendite superiori, a parità di periodo, a quelle dei tre anni precedenti.”       

Nel racconto di Riccardo Cotarella c’è preoccupazione, ma anche la volontà di guardare avanti: “Anche se ora sappiamo di dover affrontare nuove difficoltà, dobbiamo farci trovare pronti quando questa tragedia finirà. La pandemia ci ha costretti a tornare coi piedi per terra, a pensare nuovi prodotti all’insegna dell’essenzialità. Non potremo più permetterci confezioni costose, bottiglie troppo pesanti, tappi troppo lunghi, etichette disegnate da grandi artisti e cantine progettate da archistar. Il Covid ci ha imposto una profonda riflessione etico-comportamentale, il ritorno a un sistema di vita più sobrio, razionale.”

Nel frattempo Ildo ha terminato per oggi di concimare, gli chiedo quando il calendario dei lavori gli concederà finalmente una pausa, lui gira intorno lo sguardo sull’orizzonte di vigneti, scuote sorridendo la testa, mi dice che ancora pochi giorni, il tempo che le viti si spoglino e vadano in riposo, poi inizia la stagione delle potature, che lo impegnerà per i prossimi tre mesi.

Perché il vigneto che ci circonda, benché appaia quasi come un’unica distesa di 11.000 ettari, è in realtà un mosaico di piccole e piccolissime aziende e proprietà, e in questo sta la particolarità del Sannio rispetto ad altre zone di produzione, la diffusione del modello cooperativo, che è poi un’eccezione, in una terra di individualismo come la Campania. In questo vigneto collettivo l’opera di vignaioli professionisti come Ildo è vitale, perché consente la cura e la coltivazione anche di vigneti ormai privi di un conduttore vero e proprio, proprietà di borghesi, di emigrati, o di agricoltori ormai troppo anziani, strappandoli così all’abbandono.

Ed è proprio questo modello di gestione ed economia capillare, dal basso, che ora il Covid può mettere in crisi, come mi spiega Domizio Pigna, presidente della Guardiense, la cooperativa con sede a Guardia Sanframondi, a sessant’anni dalla fondazione tiene insieme 1.000 soci, 1.500 ettari di vigneto, una produzione di uve di 200.000 quintali l’anno. A preoccupare è la giacenza in magazzino delle scorte di vini di qualità, invendute a causa del lockdown. Con la messa in commercio della nuova annata, il rischio è quello di un eccesso di offerta, con un crollo dei prezzi, e quindi dei redditi delle migliaia di piccoli viticoltori, vanificando il lavoro e le conquiste di anni.

Le soluzioni urgenti che il presidente propone sono due: “C’è bisogno di un provvedimento straordinario che consenta la distillazione di crisi delle giacenze di vini di qualità (DOP e IGP), sulla base di un giusto prezzo, favorendo un riequilibrio del mercato e un sostegno ai redditi delle famiglie coltivatrici, per le quali il vino rimane la principale voce d’entrata.”

L’altra misura suggerita da Domizio Pigna è di portata più ampia, e consiste in una strategia “dall’azienda alla tavola”: sostenere i ristoratori, insieme ai loro fornitori di prodotti campani di qualità: non solo i vini dunque, ma la mozzarella, l’olio, il vitellone bianco, la pasta, il pomodoro. Perché anche l’export in fondo inizia al tavolo del ristorante, è qui che il turista estero entra in contatto con i nostri prodotti. Per questo c’è bisogno di un’alleanza, un patto di aiuto reciproco, da promuovere nei diversi paesaggi della Campania, dal Sannio al Cilento, per tenere uniti i destini di agricoltura, ristorazione e turismo, creare filiere di prossimità, e provare a uscire insieme dalla crisi.

Da Guardia Sanframondi passo il fiume, mi sposto in riva sinistra del Calore, qui ai piedi del Taburno si concentrano le terre della Cantina di Solopaca, un altro pezzo di storia, anno di nascita 1966, la cooperativa associa 600 viticoltori e 1200 ettari di vigneto. Al presidente Carmine Coletta chiedo in che misura lo stare insieme aiuti ad affrontare le difficoltà: “Il fatto di essere una società cooperativa è un punto di forza, ci consente, con la ristorazione ancora ferma, di compensare in parte le perdite, grazie alla vendita del prodotto sfuso, e agli acquisti della grande distribuzione organizzata: se anche i margini di guadagno sono più stretti, è sempre un modo per alleggerire la cantina, movimentare il fatturato, creare liquidità.”

A fare i conti della crisi ci pensa Libero Rillo, presidente del Consorzio Sannio DOP, l’ente di tutela che associa 2000 produttori sanniti, cooperatori e non: dal suo osservatorio privilegiato la previsione, se la situazione di mercato non dovesse mutare, è di un calo del 30% nella vendita di prodotto, 7 milioni di bottiglie in meno rispetto alle annate precedenti, una perdita secca per la viticoltura sannita – vale a dire la principale industria diffusa di quest’area interna, il perno dell’economia locale – intorno ai 20 milioni di euro. “Ci sono diverse considerazioni da fare” mi dice Rillo “la prima è che il vino, purtroppo, non è un alimento essenziale, nei momenti difficili possiamo farne a meno. In secondo luogo, i mancati consumi a causa del lockdown restano una posta rigida nel bilancio, i bicchieri che non abbiamo bevuto non li recupereremo più. Poi c’è la situazione difficile delle piccole cantine, che lavorano soprattutto con la ristorazione, con prodotti di fascia medio-alta, quella maggiormente colpita dal calo dei consumi. Si tratta di aziende a carattere familiare che, a differenza delle grandi cooperative, hanno minori opportunità di compensare conferendo alla grande distribuzione.”

Alla fine, quello che ti colpisce in questa valle, incontrando il popolo del vino, parlando coi suoi leader, è il fatto che pure in mezzo alla bufera, nessuno di loro si è arreso. C’è una richiesta di aiuto, certo, per non vanificare mezzo secolo di investimenti e conquiste che hanno fatto crescere un intero territorio, ma anche la convinzione che bisogna continuare a darsi da fare, con le proprie forze, che non è possibile fermarsi proprio adesso.

“Nei miei giri porto sempre il Sannio come esempio” mi dice Riccardo Cotarella “nei dieci anni di lavoro qui ho scoperto una terra di viticoltori attenti, generosi, disponibili a un lavoro continuo, certosino di miglioramento del prodotto, senza paura di intraprendere nuove sperimentazioni. E’ una parte di Sud che in pochi decenni è riuscito a diventare una pietra miliare nella viticoltura italiana, ed è questo patrimonio di ricerche e conoscenze il tesoro vero dal quale  ripartire dopo la pandemia.” Il sole adesso cala dietro le colline, la valle è serena e subito rinfresca. “Che ti devo dire” conclude Ildo sorridendo dietro i baffi da moschettiere  “anche da questa disgrazia dobbiamo tirare fuori una grazia, siamo fatti così, ostinati, un po’ matti, ci nascono le idee e dobbiamo giocarle”.

Antonio di Gennaro, 31 ottobre 2020

Nei viaggi a Tokyo alcuni anni fa all’inizio non avevo capito niente, vedevo sui treni supertecnologici più di un viaggiatore con la mascherina, pensavo fosse una fissazione, un eccesso di difesa, poi m’hanno spiegato che è il contrario, era rispetto per gli altri, un modo di evitare, se devi prendere il mezzo pubblico e hai il catarro, di trasmetterlo per trascuratezza agli altri. Quel piccolo brandello di tessuto era un gesto di attenzione verso il prossimo, così è per noi ora, ed è davvero difficile credere come sia possibile stravolgerne il senso, facendolo passare per una violazione di libertà.

Alla fine la mascherina, coi suoi vantaggi e i suoi fastidi, ricorda un po’ la democrazia con tutte le sue trappole: la tentazione per il singolo di ritenere che il proprio comportamento, il proprio voto, perso nella massa dei grandi numeri alla fine sia ininfluente, senza pensare che se tutti si regolano così l’intero edificio della convivenza libera e regolata cade in pezzi. Così anche per la mascherina, puoi credere che se non la porti non cambia niente, mentre è vero il contrario, che se la indossiamo tutti il rischio diminuisce drasticamente, per te, per me, per tutti.

Ma le virtù di questo umile pezzo di stoffa non finiscono qui, perché ora i ricercatori pensano che esso non svolga solo un ruolo passivo, ma agisca addirittura nel tempo proprio come un vaccino, aiutando l’organismo a convivere e adattarsi ad una carica microbica attenuata, prevenendo in questo modo esiti più critici e nefasti.

Anche qui le analogie con altri aspetti della vita privata e pubblica non mancano, se l’attitudine del cittadino in democrazia è quella di non chiudersi, di accettare la sfida della vita, consapevole che quando esci di casa il rischio zero non esiste, senza però rinunciare a proteggersi, con una mascherina fatta di ragionevolezza, dubbio, perseveranza, tutte cose certamente deboli come un povero brandello di tessuto, ma che alla lunga pure generano effetti, migliorano socialmente la vita, quindi funzionano.

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