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Antonio di Gennaro, 29 settembre 2015

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Certo Francesco è stato il primo pontefice giunto a Washington provenendo da Cuba, ma è stato anche il primo a celebrare in piazza del Plebiscito passando prima da Scampia, e a distanza di tempo quella visita a Napoli assume un valore programmatico, perché rileggendo i testi degli interventi, è chiaro che in quel pellegrinaggio Francesco ha anticipato molti dei temi poi sviluppati nell’enciclica Laudato sì, pubblicata solo pochi mesi dopo.

Insomma, agli occhi di Francesco, la crisi e le contraddizioni dell’area napoletana sono proprio il prodotto dei meccanismi analizzati nell’enciclica, il prevalere della cultura dello scarto, dove ad essere scartati sono tanto i beni che consumiamo, trasformati frettolosamente in rifiuto, quanto le persone, marginalizzate a vivere in porzioni di territorio che degradano irreversibilmente, in carenza di lavoro, servizi, sicurezza, progetti decenti di vita.

Nella Laudato sì non si fa differenza tra crisi ecologica e crisi sociale, sono le due facce della stessa medaglia, e nessuna strategia di recupero dell’ecosistema è possibile senza affrontare le cause sociali e i fattori di ingiustizia che sono le cause prime del disastro. Il richiamo è a un’ecologia integrale, a una cultura della cura, da contrapporre a quella dello scarto: cura quotidiana del territorio, inteso come “casa comune”, come luogo della nostra vita da riempire nuovamente di senso, leggibilità, qualità ecologica ed estetica, nei quartieri popolari come in quelli borghesi, nelle fasce rurali da proteggere, come in quelle congestionate dall’urbanizzazione selvaggia.

Per fare questo, dice l’enciclica, occorrono istituzioni che funzionino, cultura di legalità, lotta alla corruzione che “spuzza” e rovina tutto, ma soprattutto possibilità di lavoro e prospettive decenti di vita, insieme a un’opera indefettibile di educazione e investimento sulle persone, affinché siano per prime in grado di generare gesti e comportamenti quotidiani di cura e rispetto per il comune ambiente di vita.

Nell’enciclica Bergoglio ricorda come il nome scelto per il suo pontificato – Francesco –racchiuda un programma ed una missione, ed allora la prima cosa che il poverello d’Assisi fece fu quella di restaurare la piccola chiesa diroccata di S. Damiano. Di fronte al degrado e alla sofferenza dell’area metropolitana, dice l’enciclica, il nostro compito è simile, ed è quello di restituire, pietra su pietra, valore e armonia ai contesti ecologici e sociali, avendo ben presente che la dignità degli abitanti, anche nelle situazioni più difficili, non è mai intaccata, al di là degli stereotipi e pregiudizi miseri, ed è la risorsa autentica da cui partire: come ha ricordato il presidente Mattarella nella sua visita alla scuola di Ponticelli, nel DNA delle persone c’è la possibilità di riscatto, piuttosto che un immodificabile destino.

In un momento nel quale le istituzioni repubblicane, dallo Stato in giù, mostrano evidenti difficoltà a proporre percorsi concreti di riscatto per Napoli e il Mezzogiorno d’Italia, l’enciclica di Francesco diventa uno strumento importante di comprensione, ma anche una scatola piena di attrezzi, per iniziare a costruirla, qui ed ora, quella cultura della cura dalla quale dipende la nostra sopravvivenza.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 30 settembre 2015 con il titolo “L’enciclica del papa e la visita a Scampia”

Martedì 22 Settembre ore 18:00 – la Feltrinelli, via Santa Caterina a Chiaia 23

Presentazione del libro

“Pompei, Italia”

di Francesco Erbani

Intervengono con l’Autore: Antonio Di Gennaro, Fabrizio Pesando, Ottavio Ragone

Pompei Erbani

“Pompei crolla”, “Pompei inaccessibile e transennata”, “Pompei ingovernabile”. Titoli di cronaca, ogni giorno che passa sempre meno sorprendenti. Dietro questi titoli c’è una storia millenaria di arte, distruzione e archeologia. Ci sono secoli di scoperte, visite, fascino e leggende. Ci sono decenni di convivenza con un territorio sempre più urbano e sempre più degradato, con una popolazione di cui sono cresciuti sia i numeri sia i problemi, con uno Stato che ne ha fatte un po’ di tutti i colori.
Raccontare Pompei, come fa Francesco Erbani in questo libro, è meritorio di per sé, perché illumina un luogo in cui si giocano alcuni temi fondamentali del passato, del presente e del futuro dell’Italia: la gestione dei beni culturali tra emergenza e manutenzione, l’uso e l’abuso del territorio in un paese che ha la più alta densità di bellezza del mondo, l’importanza del turismo come volano economico e il rischio che lo stesso turismo distrugga invece di costruire. E così via.
Ma raccontare Pompei, oggi, significa anche farsi rapire dalla forza delle metafore e delle allegorie, perché la città distrutta e sepolta dal Vesuvio diventa ben presto in questo libro di Erbani l’Italia intera: i problemi e le soluzioni tentate, i disastri accidentali e quelli colpevoli, il folto cast di personaggi che popola la scena (commissari e camorristi, archeologi e vescovi, artigiani e disoccupati) rimandano a un microcosmo che rispecchia perfettamente il macrocosmo italiano.
Anche per questo, raccontare Pompei è necessario.

Pompei è una metafora della condizione generale del nostro patrimonio storico, di un atteggiamento politico, culturale e finanche antropologico fondato sulle emergenze; dei rapporti fra l’Italia e il resto del mondo e in particolare con l’Europa; della dialettica fra la Grande Opera e la manutenzione puntuale, fra intervento pubblico e privato, fra conservazione e fruizione. Pompei è una metafora dello stato del nostro paese. (dal sito della Feltrinelli Editore)

Antonio di Gennaro, 12 settembre 2015

 

Gepro. 13

Per favore, visitatelo una volta il Parco dei Camaldoli, una mattina o un pomeriggio, e portateci i bambini. E’ il parco più strabiliante che abbiamo in città, il meno conosciuto. Lasci la macchina all’ingresso dei Camaldolilli e ti inoltri, in pochi minuti un miracolo avviene, la città scompare, ti avvolge il verde e l’odore silenzioso del bosco. Improvvisamente è come trovarsi in Appennino, in quel grande castagneto che si estende per un centinaio di ettari – poco meno di Capodimonte – dalla sommità della collina, giù per i versanti e i valloni freschi, densi d’ombra e mistero.

Il Parco dei Camaldoli è la natura in città, ma anche la storia, perché il bosco ceduo di castagno è allevato così da un paio di millenni, e ha fornito fino alla metà del Novecento e all’affermazione del cemento armato, i pali per l’edilizia e le protezioni agricole. Questi boschi erano floridi e curati come un salotto, venivano ceduati ogni decennio, sulla base di una meticolosa rotazione. In questo modo il bosco si teneva leggero sul versante, esercitando al meglio la sua funzione protettiva, contro erosioni e frane. Un sistema di gestione estremamente razionale, iniziato coi Romani o forse prima, e dobbiamo allora pensare a questi ecosistemi come a un centro storico verde, fatto di rami e foglie anziché di mattoni.

La storia del Parco è singolare, perché è stato realizzato negli anni ’80, con uno scampolo di fondi per il disinquinamento del Golfo di Napoli: fu un valoroso funzionario comunale, Giovanni Dispoto – uno degli urbanisti poi frettolosamente e anzitempo congedati – a suggerire all’Amministrazione (l’assessore era Giulio Di Donato) di usare i soldi rimasti per acquisire al patrimonio pubblico quel pezzo intatto di castagneto, salvandolo dalla speculazione, e facendone un parco pubblico.

Certo, non vi aspettate l’ordine dei giardini reali del ‘700. Qui c’è la selva, con la sua architettura ariostesca,  l’intrico dei fusti, le antiche ceppaie che sembrano sculture, il ricamo verde del brachipodio e del pungitopo, le fioriture stagionali di pervinche, ginestre, ciclamini e rare orchidee.

Per tutte queste cose, allora, visitatelo una volta il Parco dei Camaldoli, perché l’antico bosco millenario sta morendo. In assenza di gestione, le ceppaie si affollano e deperiscono, l’una dopo l’altra. I fusti non ceduati muoiono e cadono, avvinti dall’edera, l’erosione inizia il suo lavoro, e l’atmosfera è quella suggestiva e tremenda di un bosco tropicale, con la vita che nasce dalla morte e dalla dissoluzione.

napolimonitor bosco

disegno di cyop&kaf, da http://www.napolimonitor.it

Lo spettacolo è grandioso, perché qui nulla finisce ma tutto si trasforma, ed allora questo bosco ci parla del resto della città, che in  fondo, anche nella sua parte costruita, quella che abitiamo tutti i giorni, è lasciata, in mancanza di cura, alla mercé delle stesse dinamiche dissolutive. Quello che questo bosco racconta, è che comunque la natura non sta ferma, nel centro storico di pietra come in quello vegetale; che la nostra inazione non comporta immobilità, ma comunque dinamica ed evoluzione, che lo vogliamo oppure no. In assenza di governo e manutenzione, Napoli diventa un grande esperimento ecologico e sociale, del quale noi abbiamo scelto di subire, inerti, le inesorabili risultanze.

Per questo, alla fine, quello che questo bosco ci dice – visitatelo per favore – è che prima di piantare alberi e realizzare nuove aree verdi, sarebbe bene ricordarsi di curare quelle che già ci sono (più di tremila ettari tra campagne, selve ed aree ricreative, come meticolosamente contabilizzato nel Piano regolatore del 2004). Partendo magari dal Parco dei Camaldoli, che in silenzio vive il suo struggente declino, e che continua, nonostante tutto, a raccontare alcune cose importanti su di noi.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 23 settembre 2015 con il titolo “Per favore visitate il parco dei Camaldoli”

 

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