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Antonio di Gennaro, repubblica Napoli del 24 agosto 2020

Il taglio dei parlamentari non è una buona cosa per la democrazia, e ci vorrebbe che qualcuno lo spiegasse agli incauti promotori come è fatto veramente il Paese, al di là della lente distorcente dei social. Basterebbe una foto, l’immagine notturna dell’Italia sul sito della NASA: lo stivale tutto buio, con le sole macchie di luce delle aree metropolitane. In quel buio, che sono le colline e le montagne che formano l’80% del territorio nazionale, vive grosso modo metà degli italiani; nel 20% di territorio illuminato l’altra metà.

La riduzione del numero dei rappresentanti non colpirà in egual modo le due Italie, quella della concentrazione urbana e quella a bassa densità dei piccoli centri, ma in special modo quest’ultima, indebolendone ulteriormente la voce, e la possibilità di una partecipazione attiva alla vita del Paese.

In Campania poi, dove tutti i guai italiani si presentano in forma amplificata, l’asimmetria demografica è ancora più clamorosa, perché sul 20% del territorio – i vulcani e le pianure costiere – vivono i tre quarti della popolazione regionale, con il restante 25% che rimane a presidiare la sterminata green belt appenninica, dal Matese al Cilento, passando per il Fortore e l’Alta Irpinia, l’80% del territorio regionale in fase di drammatico spopolamento.

A causa della bassa densità e del calo demografico queste terre avranno sempre più difficoltà a eleggere propri rappresentanti nelle assemblee legislative nazionali, finiranno in una specie di serie B della democrazia. Il divario tra le due Italia conoscerà una inimmaginabile consacrazione istituzionale.

Se il popolo e il territorio sono i due pilastri dello Stato, un sistema di rappresentanza che dimentica il secondo, premiando esclusivamente la forza della demografia, non è in grado di assicurare al Paese un futuro sostenibile, perché sono le comunità a bassa densità che curano e tengono vivo l’ecosistema Italia, con il suo paesaggio e la sua identità, garantendo alle aree metropolitane il rifornimento di asset essenziali, a cominciare dall’acqua, l’aria, la difesa del suolo e la sicurezza alimentare.

E’ veramente singolare allora che proprio a questa parte dell’Italia, che già sconta una minore dotazione di servizi di base (scuola, sanità, internet ecc.), sia negato il diritto a partecipare alla formazione delle politiche, delle scelte, delle strategie.

Insomma, in caso di vittoria del “si” le perdite per la democrazia sono certe, a fronte di un risparmio dello 0.00 qualcosa sulla spesa pubblica, e alla soddisfazione vacua di aver finalmente assestato uno schiaffo alla casta, col seguito di propaganda malata sul web. Tra poco meno di un mese sapremo, il guaio è l’aver affidato la scelta a una slot machine truccata, che ha un solo risultato, quello che proprio non serve al Paese.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 23 agosto 2020

Il viaggio nelle campagne al tempo della pandemia comincia dove la storia ha avuto inizio, la piana di Quarto, l’ecosistema agricolo dentro il più grande cratere flegreo, che per tremila anni ha prodotto, instancabilmente e in silenzio, cibo e alimenti per le città antiche di Cuma e Pozzuoli, poi per quella nuova, Napoli.

Affacciandosi da S. Rocco, la frazione di Marano sul ciglio del cratere, la veduta dall’alto è ancora verde, coi boschi di castagno e querce sui versanti, tutt’intorno la grande conca, che è un mosaico intricato di case viti e coltivi. Mi accompagna Raffaele Verde, la sua cantina “IV Miglio” da più di vent’anni produce, proprio in questi vigneti superstiti, una delle migliori falanghine che sia dato gustare a queste latitudini.

“Nel 1950 nella piana di Quarto vivevano 5.200 persone, assieme a 5.000 capi bovini. Qui si produceva la carne per Napoli, il latte, e il vino naturalmente. Le famiglie contadine abitavano le piccole frazioni sparse tutt’intorno la piana, in ognuna c’era la masseria con i beni in comune, l’aia, il forno, il torchio e la cantina, le regole di convivenza erano quelle dei pagus, i villaggi di duemilacinquecento anni fa”.

Chiedo a Raffaele in che momento la modernità è arrivata davvero. “La vita di questi luoghi è cambiata con le emergenze telluriche, il bradisismo negli anni ‘70, poi il terremoto del 1980. Un uno-due micidiale, la storia ha messo il turbo, le stalle divennero case, il mondo antico s’è sbriciolato, ed è iniziato quello nuovo”.

Nel paesaggio avanti a noi la corona di piccoli villaggi persi nell’arboreto medievale non si vede più, ora c’è una città reticolare diffusa di 41.000 abitanti. I primi diecimila arrivarono col bradisismo, gli altri 25.000 dopo il sisma dell’80, in un flusso che in questi quarant’anni non s’è mai interrotto. Le aree edificate si sono moltiplicate per 30, ora sono 600 ettari, sui circa 1400 del territorio comunale. Vuoi chiamarla città, ma è un’altra cosa, un reticolo fitto di palazzine spontanee, ai bordi di strade rurali senza marciapiede, che prima o poi ti riportano alla campagna.

Da quasi tremila anni queste sono terre di passaggio, il toponimo non indica un luogo, ma solo che siamo al quarto miglio della via Campana, l’arteria vitale tra Pozzuoli e Roma, per realizzarla fu necessaria un’opera immane di ingegneria, col taglio della montagna, lo spacco buio nel Gauro, che attraversi oggi proprio come allora in silenzio, tra i muri altissimi in opus reticulatum.

Quando riesci alla luce, Via Campana sembra periferia d’America, coi negozi i bar le pompe di benzina le insegne dove prima era solo campagna, e la vita che scorre veloce, lungo la strada di attraversamento. Oltre le palazzine costruite a memoria dai capomastri, il tipo edilizio più ambìto è la villetta col tetto a doppia falda, come fossimo in montagna, cose che non c’entrano niente coi luoghi ma l’effetto, nella grazia invincibile del paesaggio flegreo, resta nonostante tutto gradevole.

Nei racconti di Raffaele Verde, Quarto è un luogo di ruralità ancestrale, che non si è mai fatta municipalità. Fino al decreto del 1948 che ne stabilì l’autonomia,  Quarto è rimasta frazione di Marano: il castello, la torre, il palazzo del principe e il municipio erano lì, in alto, qui era solo la riserva silenziosa di uomini e terre fertili, e infatti un centro storico vero e proprio non c’è, a stento riconosci nel mare della nuova edificazione ciò che resta dei minuscoli nuclei rurali, e il solo monumento identitario è la piccola chiesa duecentesca di S. Maria.

Già, i monumenti. Il patrimonio archeologico è diffuso, con Raffale visitiamo il mausoleo della Fèscina, vicino i binari ferroviari, la cuspide misteriosa sembra la traccia di un’architettura arcaica, o aliena; poi i ruderi della Villa del Torchio, i resti di una importante masseria romana, con i locali e le opere per la produzione del vino. Il sito si conserva miracolosamente, recintato e protetto da una copertura lignea, nell’interstizio tra il viadotto della superstrada, lo sterminato centro commerciale, e i grandi capannoni inutilizzati di un acetificio che ha chiuso i battenti.

Chiedo a Raffaele com’è finito, lui veterinario, a produrre vino. “Papà era pilota di guerra, il sogno era seguire le sue orme in aviazione ma fui scartato per un’anomalia cardiaca. Lui era anche un bravo allevatore, e fu questa alla fine la strada”. La carriera di medico veterinario Raffaele l’ha fatta tutta nel servizio sanitario nazionale, fino alla dirigenza, poi venne il problema di cosa farsene delle terre di famiglia, erano frutteti antichi, non specializzati, lui scelse invece di puntare tutto sulla vite.

Così ha impiantato il vigneto, che gestisce come un salotto, sperimentando nuove tecniche di allevamento, inerbimento e difesa, l’obiettivo è incrementare l’humus e la fertilità del suolo, riducendo al minimo la chimica. Tornati in azienda percorriamo i filari ordinati, Raffaele racconta, e a ogni passo si ferma a sfogliare un tralcio, per dare luce a un grappolo.

Da medico veterinario, professionista della vita, ha sempre creduto che un grande vino comincia dal benessere e l’equilibrio della vigna, la cantina deve solo rispettare ed esaltare questi valori. E i suoi ragazzi l’hanno accompagnato nell’avventura. Ciro è un enologo di prim’ordine, Alessandro invece segue la ristorazione, perché a “IV Miglio” puoi sperimentare oltre i vini anche una delle migliori cucine dell’area flegrea.

Insomma, intorno alla falanghina e alla ristorazione di qualità Raffaele ha costruito un’azienda che dà da vivere a una comunità di una ventina di persone, un’economia del territorio che nasce dal basso, partendo dal terroir, dai valori unici del suolo e della storia: una possibilità diversa per questi luoghi, che non sia il gioco a perdere dell’edilizia di rapina. In mezzo al caos dell’urbanizzazione veloce, è proprio partendo da questo centro storico verde, fatto di vigneti in mezzo alla città, che anche a Quarto un ordine potrebbe ritrovarsi, una nuova qualità dei luoghi, un senso di appartenenza, cura, responsabilità.

Resta il fatto che la pandemia, questa forza cieca che ha distribuito inegualmente dolori, costi, perdite e opportunità, ha colpito duramente proprio l’agricoltura multifunzionale, questa economia nuova del territorio e della convivialità. Come altre cantine di qualità “IV Miglio” ha sofferto nei mesi del lockdown il blocco dell’export, e il fermo completo dell’HO-RE-CA, la filiera che comprende alberghi, ristoranti e caffè.

Seduti nel giardino che guarda le vigne, ragioniamo di queste cose, mentre Ciro ci presenta in anteprima l’ultima nata, una falanghina senza solfiti, da brividi. Davanti al bicchiere fresco, Raffaele parla dei problemi gravi del momento con pacatezza, un’apprensione temperata dalla ragione, la forma mentis è quella della medicina umanistica di vecchia scuola, dove prima della malattia c’è la necessità di comprendere gli equilibri che sono alla base della buona vita.

“Siamo ripartiti con la ristorazione, la struttura dei locali e degli spazi aperti fortunatamente ci consente di applicare meticolosamente i protocolli di prevenzione e distanziamento, ma non è questo il punto. Il problema è come restituire serenità alle persone, che non c’è ancora, e io penso che proprio in questa fase la comunicazione istituzionale e dei media non ci stia aiutando. E’ una continua doccia scozzese di allarmismo e rassicurazione, messaggi contrastanti vengono dati nello stesso comunicato governativo, pagina di giornale, scaletta di telegiornale. In una situazione di oggettiva incertezza, non è questo il modo migliore per aiutare le persone ad adottare comportamenti consapevoli, a vivere responsabilmente questo momento di transizione.”

Raffaele alza il calice, osserva controluce il colore della nuova creatura. “Per il vino poi, la pandemia non ha fatto altro che evidenziare le nostre antiche debolezze, l’incapacità dei produttori di un territorio come i Campi Flegrei di fare alleanza, cooperare veramente, perché è evidente che nessuno si salva da solo. Il mercato internazionale è spietato, puoi affrontarlo solo se concentri tutte le forze, condensando davvero in un solo racconto credibile il vino, i vulcani, la natura particolare di questa terra, dove la storia dell’uomo è cominciata, insieme a un progetto, un impegno serio per farla vivere ancora.”

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