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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 6 settembre 2020

E’ la tappa del viaggio più complicata, perché riguarda le conseguenze della pandemia su aspetti del territorio rurale meno scontati, che non riguardano la produzione di alimenti, i cicli naturali e il paesaggio, ma la capacità di tutte queste cose di curare le persone, di riequilibrare le vite, offrire opportunità di riscatto.

Un esempio è nella campagna dissestata tra Napoli e Caserta, a Succivo, il Casale di Teverolaccio, dove i ragazzi di “Terra felix” hanno recuperato il complesso cinquecentesco, coi suoi orti e giardini, e usano l’agricoltura e la cura della terra come strumento per assistere l’infanzia a rischio, i soggetti deboli, le vite ferite, in credito col destino.

L’impatto del lockdown su questa delicata macchina sociale è stato pesante. “E’ il momento più difficile della vita ventennale del Casale” mi dice Paola Pascale, uno dei motori della cooperativa “All’improvviso abbiamo dovuto interrompere tutti i progetti, il lavoro con le scuole, sospendere l’attività della Tipicheria, il punto di ristoro che ci garantiva un po’ di autofinanziamento.”. Anche gli orti sociali affidati agli anziani, è stato necessario chiuderli precauzionalmente, qualche nonnetto ha pure tentato di scavalcare nella smania di accudire il proprio pezzetto di terra. Da allora” mi dice Paola sorridendo “fotografiamo ogni giorno gli orti, e inviamo la foto ai conduttori”.

Certo, la cooperativa sociale ha usufruito della cassa integrazione per i dipendenti, ma comunque s’è arrestato il lavoro dei volontari e degli obiettori di coscienza. E s’è fermato il progetto con il Ministero dei beni culturali per il recupero dei bambini fragili, utilizzando come laboratori gli orti museali creati nell’Anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere, nell’area archeologica di Pompei, nel Real Sito di Carditello.

“Abbiamo rischiato brutto” mi dice ancora Paola “ma ce l’abbiamo fatta. Ci ha aiutato la vendita dei prodotti, le conserve di pomodoro biologico coltivato sul fondo fuori le mura, e le bottiglie di asprinio dai filari di vite maritata simbolo di questa terra. Un momento emozionante è stata l’ospitalità alle classi di bambini coi loro maestri, che hanno potuto incontrarsi qui all’aperto, nei giardini del Casale, per festeggiare insieme la chiusura dell’anno scolastico”.

Alcuni progetti del Casale sono stati finanziati dalla “Fondazione Con il Sud” ed è al presidente, Carlo Borgomeo, che chiedo quanto il terzo settore si è rivelato fragile di fronte all’emergenza. “Non è il terzo settore in sé ad esser fragile” spiega Borgomeo “in molti casi si tratta di realtà ben strutturate, quello che è delicato è piuttosto l’oggetto delle attività, che sono le relazioni umane. Questa crisi” osserva il presidente “ci ha imposto un capovolgimento di paradigma. Prima pensavamo che le attività di cura alla persona, il welfare, fossero una conseguenza dello sviluppo economico. Ora sappiamo che è il contrario: è la capacità di valorizzare e proteggere le persone la precondizione di ogni percorso di sviluppo. C’è un punto sul quale le diverse scuole economiche sono d’accordo: la centralità del capitale umano. L’esperienza del Casale di Teverolaccio nella periferia difficile tra Caserta e Napoli” continua  Borgomeo “è di enorme importanza per la rinascita del territorio, assieme alle altre che la Fondazione sostiene a Messina, Cagliari, e a Napoli, dove i ragazzi della Sanità gestiscono splendidamente le Catacombe di San Gennaro. E’ con questi strumenti che possiamo arrestare lo svuotamento di quartieri e territori, spezzare i flussi centrifughi che portano via le persone.”

Il rapporto tra abitanti e territorio del quale parla Borgomeo era pure il cruccio di Manlio Rossi-Doria, ed è tema ancora caldo, se con la pandemia si ripropone la  necessità di un riequilibrio, ora che la città densa si è fatta pericolosa, intellettuali come Boeri e Arminio auspicano uno spostamento d’uomini verso i piccoli centri, che poi sarebbe un altro modo per il territorio rurale di venire in soccorso alla città, di curarne i mali.

Per seguire questa traccia, dall’Appia mi sposto a nord-est, sulla Casilina, la consolare più bella, coi filari d’alberi che la seguono ancora, come nel ‘700; in tre quarti d’ora sono a Pietramelara, dopo Riardo, nella media valle del Volturno, il distretto verde delle acque minerali. Mi aspetta Francesco Sabatino, agronomo, una lunga carriera nei servizi regionali di sviluppo agricolo, tiene un blog seguitissimo sulla storia e la cultura di questa terra (“Scribacchiando per me”), cinquecentomila contatti negli ultimi anni. Ci arrampichiamo per il borgo antico, un piccolo gioiello, fin su la torre, dall’alto si conferma la sensazione di quando arrivi: un senso d’ordine, di decoro che permea il paesaggio, nella parte abitata come in quella rurale.

“Qui le aziende agricole sono ancora vitali” mi dice Francesco “gli agricoltori hanno conservato un legame forte col territorio, ci sono allevamenti bufalini che producono in modo sostenibile, all’interno di un ciclo agronomico equilibrato”. Il versante nord del Monte Maggiore domina il paese, il manto fresco di boschi è intatto, proprio come lo vedeva un antico sannita. I boschi sono curati come un salotto, con Francesco visitiamo i ruderi di una masseria romana ai bordi della foresta, con un dedalo di locali sotterranei a volta, e tutt’attorno le mura ciclopiche.

Pietramelara è una cittadina ordinata, immersa nel verde, gli abitati a scacchiera potrebbero essere quelli di un quartiere satellite di Monaco o di Baltimora, la demografia è sana, gli abitanti sono 4.700, sono aumentati del 15% negli ultimi trent’anni, e raddoppiano quasi ogni d’estate, quando tornano gli emigranti dalla Svizzera; c’è una borghesia colta e articolata, e siamo solo a 45 minuti dal centro di Napoli. Eppure nel racconto di Francesco cogli accenti di preoccupazione.

La cittadina è cresciuta di venti volte nell’ultimo cinquantennio, ma il piccolo borgo medievale s’è svuotato. Lungo la stradina deserta una voce filtra da un uscio a pianterreno, è un’anziana professoressa di Napoli, col marito hanno preso casa qui vent’anni fa, lei accudisce una ventina di gatti, esprime delusione “Avevamo tante aspettative, poi abbiamo visto la vita sociale poco a poco affievolirsi, i negozi chiudere, il centro storico s’è svuotato, restiamo noi, con qualche famiglia di locali e di immigrati rumeni”.

Insomma in posti come questo si vive bene, la riserva di senso civico è una risorsa importante, eppure avverti la mancanza di una visione, di una strategia, senza la quale la qualità sociale si sfibra in un lento declino.

Potrebbero cittadine come Pietramelara contribuire al riequilibrio post-Covid del quale si parlava prima? Evitando gli errori del passato, agendo con misura, usando il patrimonio abitativo che c’è, senza la bulimia speculativa del piano casa, evitando di sfasciare un paesaggio di qualità che la comunità locale è riuscita a preservare? Forse si, se recuperiamo una capacità di coordinamento che s’è persa, ora che le decisioni si prendono tutte a scala municipale, dove il territorio lo vedi troppo da vicino, ti interessa solo casa tua, e il comune confinante è un avversario; o a scala regionale, dove il territorio non c’è più, si dissolve in narrazioni astratte, mentre è il livello intermedio che manca –  quello comprensoriale, che tiene insieme le città, le campagne e le reti di collegamento – liquidato in fretta con la riforma sbagliata delle province.

Sono questioni difficili, ma il viaggio deve chiudersi, ed allora riprendo la Casilina, poi la Venafrana verso il Matese, la montagna che si spegne, dal 1960 la popolazione si è dimezzata, è a Pratella che ho appuntamento con Antonio Maione, sacerdote, docente, psicoterapeuta, in largo anticipo sui tempi ha innescato un’esperienza di ripopolamento venendo a vivere qui, in un villaggio disperso ai piedi del massiccio. Antonio è una figura importante del cattolicesimo napoletano, le sue prese di posizione, le sue omelie nel segno del Concilio hanno a volte destato polemiche e contrasti, il solo torto è stato probabilmente quello di dire le stesse cose di papa Francesco, con cinquant’anni d’anticipo.

Il suo lavoro prosegue qui, ha restaurato alcuni casali abbandonati, ripreso la sistemazione e la coltivazione delle terre dove solo il bosco avanzava, e così la sua opera pastorale si svolge potando i tralci di una vigna, o mettendo a dimora un nuovo pollone d’olivo.

Un po’ alla volta una piccola comunità di cittadini lo ha seguito, ha preso casa e terra, sono docenti, ricercatori, professionisti, artisti, imprenditori. “Mettere insieme questa decina di ettari è stato difficile” mi dice Antonio mentre sediamo nella torretta sul tetto che domina a perdita d’occhio la vallata. “E’ stato necessario contattare una sessantina di micro-proprietari diversi, in un lavoro paziente di ricucitura e ricomposizione della terra”.

Gli chiedo perché la scelta di continuare il suo lavoro in un luogo ai margini, lontano dalla metropoli. “La città è un ingranaggio che troppo spesso non riconosce più alle persone la capacità di costruire in autonomia un proprio progetto, un percorso creativo di vita. Anche gli spazi sociali, pubblici, per un’interazione autentica si restringono. Un momento di lavoro sulla terra, con i suoi cicli e i suoi tempi, può aiutare le persone a riprendere contato con sé stesse.”

Perché l’idea di Antonio non è la scelta romantica, la fuga verso un countryside idealizzato. Secondo lui per ricostruire un senso di vita bisogna mettere insieme, più che contrapporre, i valori autentici dalle città e quelli dello spazio rurale, in una sintesi come la chiama lui “r-urbana”: un modo per affrontare i problemi della città e quelli della campagna, in questi tempi nuovi dopo la pandemia, dove i vecchi riferimenti non valgono più.

Ad ogni modo il progetto cresce e si diversifica, ne parlo con Costanza D’Elia, insegna storia contemporanea all’Università di Cassino, è una piccola donna normanna gentile e determinata, ha preso anche lei casa nel micro-borgo di Pratella, e qui ha fondato una casa editrice, si chiama “officinadifuturo”, che muove ora i primi passi. “Mi raccomando” dice “fai capire bene che non è il ritorno alla campagna, ma un percorso verso il nuovo, un viaggio verso la persona”.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 26 agosto 2020

L’appuntamento con Peter è a Oliveto Citra, il tragitto della superstrada verso l’Alta Valle del Sele non lo ricordavo così, una strada-paesaggio fantastica, attraverso uno scenario medioevale di colline vergini con boschi a perdita d’occhio. Quando in paese ci affacciamo dal belvedere che domina la valle, tra i Picentini e il gruppo austero dei Monti Eremita-Marzano, al confine con la Basilicata, la veduta mozzafiato ti dice che questo è uno dei pezzi di Campania più belli, che l’Italia è uno strepitoso museo sotto il cielo, proprio nei posti di margine, quelli che frequentiamo meno.

Peter Hoogstaden è un ingegnere olandese che proprio non riesce a invecchiare, ha studiato ingegneria agraria a Wageningen, da piccolo è venuto in Italia con l’idea di fare il pianificatore, strada facendo si è appassionato al turismo sostenibile, il piacere di scoprire i paesaggi rurali camminando. Vent’anni fa quest’idea è diventata impresa, ed è nata Genius Loci, un tour operator che accoglie, assiste e guida turisti da ogni parte del mondo, portandoli sui sentieri lontani dal caos, di un’Italia che molti, troppi connazionali non conoscono.

Ha lavorato duramente Peter, si deve molto al suo impegno se il Sentiero degli Dei è diventato “il sentiero più famoso d’Italia”, ma lui non si ferma, è sempre alla ricerca dell’ultimo angolo poco conosciuto che vale la pena di vivere, è un inventore di paesaggi, nel senso etimologico del termine, quello di dare nuovo significato e valore a luoghi che magari sono lì, sotto gli occhi di tutti, da qualche migliaio di anni.

Se la pandemia ha colpito pesantemente l’intero settore turistico, l’impatto è stato particolarmente duro per i segmenti che si rivolgono al pubblico straniero, che in quest’estate difficile è venuto completamente a mancare. Stagione compromessa, ma Peter non si è fermato, e l’innovazione cui sta lavorando ora è quella di proporre questo turismo diverso al pubblico italiano, un invito a riappropriarsi del Paese, rimanendo magari più vicini a casa propria, senza rinunciare a vivere comunque esperienze intense, sorprendenti, difficili da dimenticare.

E’ per vedere Peter all’opera che sono venuto, per capire come fa: stamattina a Oliveto Citra deve incontrare un gruppo un po’ speciale di persone che a diverso titolo stanno lavorando per far vivere e conoscere questa valle fuori dal tempo, ma che pure il tempo e la storia hanno profondamente segnato, l’epicentro del sisma tremendo del 1980 è su quegli altopiani calcarei, appena dietro le cime silenziose che ci circondano.

Ma la Ricostruzione qui il paesaggio non l’ha distrutto, la vista sulla valle è ancora un quadro settecentesco, un mosaico mozzafiato di coltivi, boschi, filari, tutto curato e coltivato, le case nuove sparse nella valle ci sono, ma nascoste pudicamente nel verde e quasi non le vedi.

Nella minuscola piazza-salotto del paese, con i platani potati ad arte come eleganti pensiline verdi, il monumento ai caduti,  gli anziani sulle panchine all’ombra che ci guardano, ci viene incontro Carmine Pignata, è il sindaco di Oliveto, medico, con lui parliamo della difficoltà di tener viva qui una comunità di 3.800 persone, ci parla dell’importanza dello stabilimento per la lavorazione del pomodoro che la Mutti ha acquisito da pochi anni nell’area ASI lungo il fiume, sono posti di lavoro preziosi, l’agricoltura e il turismo restano importanti, ma senza un’economia diversificata fatta di manifatture e servizi questi luoghi non reggono.

Ora il gruppo si completa, ci raggiungono Marzia Spera, geologa e docente, con lei sono Tiziana, Francesca, Rosalia, Massimo, Umberto, tutti soci di “Mefitis”, l’associazione che lei ha fondato, che porta il nome della dea tremenda e misteriosa che da tremila anni veglia sulle mofete, le fonti naturali di gas tellurici che sgorgano dalle viscere della terra. Nel territorio di Oliveto ce ne sono una decina, e su questa singolarità Marzia ha costruito un progetto di visita e conoscenza, lungo un itinerario che ti porta a esplorare buona parte della valle maestosa.

Dai margini del borgo ci inoltriamo lungo il sentiero bordato di querce, fin giù al fondovalle, tra oliveti ben curati, macchie di bosco e filari, campi dorati dalle stoppie di frumento, ruderi silenziosi di abitazioni rurali, con le pietre coperte di licheni.

In questo paesaggio-giardino, dove il presidio agricolo tenacemente tiene, i manufatti storici sono tutt’uno con la natura, come l’acquedotto con gli archi aggraziati in pietra che alimentava la cartiera; e la piccola chiesa quattrocentesca di Santa Maria delle Grazie, ai margini del borgo, con l’immagine della Vergine col Bambino, insolitamente ritratta coi seni scoperti e una corona turrita, che sono poi gli stessi attributi di un gruppo di antiche divinità (la Grande Madre Cibele, la Dea Madre dei Cretesi) della quale la stessa Mefitis potrebbe far parte.

La mofeta che ora incontriamo sperduta nel verde e il silenzio è un laghetto d’acqua gelata ribollente, il colore è lattescente, l’odore pungente di solfuro. Tutt’attorno il suolo è spoglio, incrostato di depositi minerali, solo poche piante specializzate, come il giunco, riescono a crescere, l’atmosfera è sospesa, le immagini dantesche affiorano alla memoria, e capisci perché nei millenni, gli italici prima, i romani poi, abbiano stabilito questi come luoghi di culto: e perché Mefitis (“colei che fuma”, “colei che sta in mezzo”) sia stata la dea della fertilità femminile e dei raccolti, della salute recuperata, e del passaggio tra gli stati diversi della vita, con le acque che guariscono dalle malattie, e il mantello invisibile di anidride carbonica che può invece stordirti e ucciderti.

Tutte queste cose le racconta Marzia, con competenza scientifica (come geologa ha collaborato a lungo con l’Osservatorio vesuviano nello studio e monitoraggio di queste mofete), ma anche con momenti di immedesimazione teatrale, rituale, durante i quali quasi trasfigura nella sacerdotessa dell’antico culto, e comprendo allora cosa sia il “turismo esperienziale” che lei intende proporre, dove non c’è solo lo “storytelling”, il racconto, ma anche lo “story-living”, il rivivere in questi luoghi millenari, esperienze e sensazioni che i nostri progenitori devono aver sicuramente provato.

Il viaggio prosegue, con le mofete che assumono conformazioni diverse, quasi fossero manifestazioni cangianti della dea: fredde acque pullulanti all’interno di inghiottitoi di roccia calcarea, pozze di fanghi gorgoglianti o anche – ed è la forma più impressionante – pozzi asciutti di gas, dove il flusso venefico lo avverti dal sibilo tra le rocce, l’aria che vibra, l’odore e la desolazione nuda che c’è intorno.

E’ il momento di tirare le fila, spontaneamente all’ombra di una farnia ci disponiamo in circolo, oltre a Peter, Marzia e gli amici di “Mefitis” sono con noi Alessandro Di Muro, docente di Storia medievale all’Università della Basilicata che studia questi territori da anni, e il presidente dell’Oasi Regionale “Foce Sele e Tanagro”, Antonio Brescione.

La domanda è una sola: come può un progetto come quello di Marzia e “Mefitis” crescere e svilupparsi, diventare elemento di un’offerta turistica stabile e strutturata? Nella discussione sotto gli alberi i diversi elementi di una possibile risposta iniziano a emergere con una certa chiarezza.

Alla base di tutto, l’investimento principale riguarda il capitale umano, la formazione di attori consapevoli e qualificati, ed è il lavoro che Marzia e l’associazione “Mefitis” cocciutamente conducono da anni. Per far questo, anche lo studio e la conoscenza dei luoghi, che la ricerca geologica, storica, sociale costruisce nel tempo, è un carburante che deve uscire dai libri, e alimentare il più diffusamente possibile le menti e i discorsi delle persone

Così come è importante il sostegno convinto, non episodico dei poteri pubblici. Marzia e “Mefitis” pensano alla creazione di un Parco delle mofete, e guardano anche al “Contratto di fiume” che Antonio Brescione con l’Oasi Sele-Tanagro sta promuovendo, il tentativo di cucire insieme le esperienze innovative lungo l’intero corridoio fluviale, dalla sorgente alla foce, cercando di superare in questo modo egoismi e chiusure municipali, che pure esistono.

Poi ci sono le cose che Peter Hoogstaden sostiene e pratica da anni. Il turismo – e quello che lui ha in mente è sempre un’attività rispettosa, attenta a non consumare la qualità sociale, le risorse dell’ambiente e del paesaggio – è una cosa che riguarda gli abitanti, prima che i turisti: la consapevolezza e la cultura dei luoghi di vita, prima ancora dei flussi di presenze e dei fatturati.

Insomma, un tour operator può certamente aiutare a far nascere quelle che Riccardo D’Acunto – l’economista già docente di Sociologia del turismo alla Sapienza di Roma, che accompagna Marzia e “Mefitis” nel loro percorso – chiama le “micro-reti” di servizi che servono per il trasporto, l’accoglienza, il ristoro, la guida e l’intrattenimento degli ospiti, ma l’energia, la passione e la perseveranza deve mettercele il territorio, con la sua comunità, i suoi amministratori.

Una conclusione, all’ombra della grande quercia, la trova alla fine Umberto, avvocato, e socio di “Mefitis”: c’è una parola, dice lui, che racchiude le cose che abbiamo detto e ascoltato nel viaggio di stamattina. Questa parola è “insieme”, che è poi l’unica strada per uscire dalla crisi.

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