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Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli del 14 aprile 2021 – Foto di Riccardo SIano

Metti una camminata in quello che era il salotto verde della città, distrutto da una cocciniglia venuta da lontano e dall’incuria, alla ricerca del bel paesaggio che non c’è più. Cammini per i viali monumentali e hai davanti uno scenario di distruzione post-bellica, ai diversi tipi di periferia dobbiamo aggiungere anche questo, e allora ha senso, dopo Napoli orientale, e il progetto incompiuto e oggi in crisi del Centro Direzionale, parlare del declino di Posillipo, per alcuni aspetti ancora più desolante e disperato di quello dei bordi proletari della città.

Ci accompagnano nel viaggio Massimo Visone, ricercatore del Dipartimento di Architettura della Federico II, autorevole esperto della storia e iconografia dei grandi paesaggi di Napoli, e Fabrizio Cembalo, un agronomo che da trent’anni paesaggi come questi li cura, li rammenda, li disegna.

Ci incamminiamo per via Manzoni, dopo Torre Ranieri iniziano le macerie, coi monconi di pini monumentali e le strade divelte; dall’alto, nella curva, la visione ugualmente malinconica dell’area sospesa nel nulla, dov’era l’acciaieria, mentre ai piedi di Coroglio, i campi e le attrezzature del Parco dello Sport finanziate coi fondi europei continuano a marcire, in una città dove giovani e piccoli non sanno dove andare.

Quando chiediamo a Massimo come nasce questa catastrofe di paesaggio, lui subito ci spiazza, chiedendoci di quale paesaggio vogliamo parlare, nel suo racconto la storia di Posillipo è un missile a più stadi, e un paesaggio unico non c’è, piuttosto un assemblaggio di mondi e storie assai diverse.

C’è il paesaggio marino delle ville patrizie, giù sulla costa, che inizia dopo la battaglia di Lepanto, a fine ‘500, quando i pirati barbareschi non sono più una minaccia. Sul promontorio invece, il paesaggio attorno al Casale è quello rurale, millenario, delle masserie e del giardino mediterraneo a vigneto e arboreto promiscuo, l’ecosistema millenario descritto da Emilio Sereni proprio all’inizio della sua Storia del paesaggio agrario italiano. Come al solito, però, ad “inventare” la Posillipo come luogo dell’uomo, da antropizzare per goderne, erano stati i romani, con la fantastica area del parco archeologico di Pausilyon.

Poi lungo il corso dell’800, c’è il paesaggio che nasce e si sviluppa a partire dal decennio francese, con la costruzione di via Posillipo, progettata dagli ingegneri di “ponts et chaussées” Romualdo de Tommaso e Giuseppe Giordano, il prolungamento nuovo della città che prima finiva a Mergellina. Ma la storia va avanti: nei primi decenni del ‘900, il nuovo paesaggio di Posillipo è quello del Parco della Rimembranza, del Virgiliano e dei viali monumentali, pensati a celebrazione e propaganda del Regime, coi filari di pini a ombrello a riprendere proprio qui, nella città greca più restia alla romanità, i fasti dell’antico Impero e delle consolari. Quella a cavallo tra ‘800 e ‘900 è anche la Posillipo dell’architettura floreale, come villa Pappone di Gregorio Botta e di Palazzo Tropeano. O fatti apparentemente incongrui e misteriosi, come il Mausoleo Schilizzi di Alfonso e Camillo Guerra, completato nel 1920 proprio su via Posillipo. Di epoca fascista è l’incursione di “città pubblica” (Istituto Case Popolari) che, tra il 1932 e il 1935, ha forgiato la cavea di piazza San Luigi con gli edifici poggiati sul costone tufaceo.

Infine, a partire dall’ultimo dopoguerra – ed è la storia della nostra vita – la Posillipo dei cosiddetti “parchi” (Antonio Cederna non riusciva proprio a capacitarsi di un uso così incongruo del termine) e dei condomini alto-borghesi, in una bulimia che nella conquista rapace dell’ultimo scampolo di panorama, ha finito quasi per distruggerlo del tutto, il paesaggio. La Posillipo del secondo novecento è anche un piccolo scrigno di architetture d’autore che hanno tracciato le linee guida della mediterraneità moderna. Come la villa progettata da Massimo Nunziata alla Gaiola o l’articolato artificio “organico” di Villa Bianca di Massimo Pica Ciamarra, o ancora Villa Crespi, affacciata su Mergellina, di Davide Pacanowski e Adriano Galli o villa Savarese di Luigi Cosenza.

Di pochi anni prima (1937), la villa più iconica di tutte, perfetta simbiosi tra architettura e contesto: villa Oro, in via Orazio, di Luigi Cosenza.

Si tratta di sforzi progettuali, sperimentazioni architettoniche e paesaggistiche ed impegni economici che la distratta borghesia di oggi si guarderebbe bene dal mettere in campo. L’attenzione al contesto è implosa ed è oggi rivolta agli interni, quelli dei parchi residenziali e quelli meramente domestici, quelli che hanno catturato il panorama quando ancora si poteva fare. Anche questo è il segno della crisi di un quartiere, per molti versi inspiegabile.

Alla fine, quello messo spietatamente in crisi dalla Toumeyella, la “cocciniglia tartaruga” che uccide ad uno ad uno i pini monumentali di Posillipo (un piccolo insetto arrivato una decina di anni fa dal Nord America) è quindi il paesaggio novecentesco del Ventennio, e la parola a questo punto passa all’agronomo Fabrizio Cembalo, cui chiediamo dove nasce un simile disastro.

“Certo, la cocciniglia ha dato il colpo di grazia alle alberature storiche di Posillipo, ma non è lei l’unico colpevole. All’inizio degli anni ’30, quando questi viali vennero costruiti, i pini vennero piantati a distanza di 4-5 metri, che è esattamente la metà dello spazio di cui hanno bisogno. Questo fu fatto per avere un effetto scenico immediato. Nei decenni successivi, in un’ottica di gestione consapevole del verde urbano, i filari andavano periodicamente diradati, garantendo ad ogni esemplare lo spazio vitale di cui ha bisogno, proprio come si fa per una foresta. Questi pini monumentali hanno dovuto così crescere troppo vicini tra loro. In più, sono stati massacrati negli anni da potature erronee, con l’intento di contenerne la mole.”

A fare il resto, i ripetuti lavori stradali per l’asfaltatura e i sottoservizi, che hanno scempiato gli apparati radicali, e impermeabilizzato definitivamente il suolo, impedendo alle radici di respirare. Il sollevamento dell’asfalto e la deformità della sede stradale non è altro che la richiesta di aiuto degli alberi, esseri viventi che ancora chiedono di esistere e respirare. “Così” conclude Fabrizio “la cocciniglia quando è arrivata ha trovato alberi già stremati da una gestione malaccorta.”

La fase critica, l’agonia del paesaggio è iniziata una ventina di anni fa, quando il tempo di agire c’era ancora, ma poi il disfacimento dei servizi tecnici comunali e la disattenzione amministrativa hanno prevalso. Il risultato ora, assieme alla morte degli alberi, è la crisi completa dello spazio pubblico, con l’intero sistema viario di questo quartiere-parco che dovrebbe essere integralmente ripensato e ricostruito, in un progetto urbano unitario, nel quale gli aspetti agronomici, ingegneristici, trasportistici, e sociali dovrebbero essere affrontati finalmente in maniera integrata.

Si tratta di cose che una città europea dovrebbe essere in grado di fare. Nel 1999 anche le alberature storiche di Versailles furono distrutte tutte insieme da un uragano, con più di ventimila alberi abbattuti. Eppure dopo vent’anni con un progetto lungimirante di ricostruzione i giardini sono tornati a vivere, gli alberi sostituiti, lo stato di salute e la biodiversità del glorioso ecosistema sono addirittura aumentate.

In un recente webinar dell’IUCN, l’autorevole organizzazione mondiale sulla conservazione della natura, si è parlato di come le grandi città del mondo hanno usato le loro aree verdi per mitigare gli effetti della pandemia sulla popolazione. Nel racconto degli esperti, è emerso come a Oslo, Berlino, New York, Barcellona la cittadinanza abbia riscoperto le aree verdi durante il lockdown, la loro fruizione è duplicata, a volte triplicata, alla ricerca di ristoro, protezione, di una socialità sicura.

A Napoli è successo il contrario, con la crisi di Posillipo che è diventata il simbolo di un verde urbano oramai negato ai cittadini proprio nel momento del maggior drammatico bisogno, dal Bosco dei Camaldoli alla Floridiana ai grandi parchi della Ricostruzione. Spazio pubblico pregiato ormai ridotto a terra di nessuno, sempre meno connessa e fruibile, insidiosa, oltre che più brutta.

Oggi Posillipo è un territorio in attesa. Su questa inedita enclave urbana non ci sono grandi progetti in corso di sviluppo, cantieri operativi, ricerche universitarie, e non è nemmeno un territorio dove la risoluzione di contrasti sociali o circoscritti interventi di manutenzione modificano il consenso elettorale come nelle periferie ribollenti, dove c’è ancora una pretesa di cambiamento, nuove prospettive, futuri migliori.

Oggi Posillipo è un sorta di “bordo”, in attesa che attorno ad esso succeda qualcosa, per poi ripensarsi: a valle a nord la stasi delle rigenerazione industriale, a sud l’indifferenza delle grandi ville sul mare, ad est la confusione del Vomero cui è legato da via Manzoni e Corso Europa, ad ovest il limite verso l’infinito del Parco del Virgiliano, luogo di mitologie fantastiche ma anche di incredibile disprezzo e di un abbandono, come quello del viale di accesso che in qualsiasi città d’Italia non sarebbe mai stato consentito, nemmeno per una settimana.

Oggi per Posillipo appare necessaria una strategia unitaria che delinei un grande progetto di landscape urbanism, fatta di strategie e di visioni di futuro, che con i soli i vincoli paesaggistici e le norme di un piano regolatore non è possibile conseguire. Un progetto che utilizzi il cesello e non la ruspa e che abbia l’attenzione al conservare, ma anche al modificare, alterando in parte un paesaggio che, per forza di cose, come si è visto, non è immobile, a partire dalle essenze arboree, i materiali, le tecniche e le tecnologie di base.

L’impressione è che oggi questo grande progetto debba prevedere, più che altrove, la partecipazione e l’intervento diretto di cittadini, attori sociali, imprenditori, in una grande operazione che la città fa per sé stessa e per riprendersi con tenacia un bene collettivo ed un topos che, improvvidamente, gli stanno sfuggendo di mano.

Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli del 30 marzo 2021

Un viaggio nella crisi urbana sotto i colpi del Covid l’ha fatto il quotidiano Le Monde, con un ciclo di interviste ai sindaci di 14 “ville-monde”, le città globali, ed è una storia avvincente dei drammi vissuti, misure prese, visioni e strategie per il dopo, che il coronavirus ha spietatamente sollecitato.

Perché l’abbiamo visto col racconto del Centro direzionale pubblicato su queste pagine lo scorso 2 gennaio: la pandemia ha gettato ombre lunghe sul destino dei grattacieli e dei quartieri d’affari in giro per il mondo, ma è inutile girarci intorno, le difficoltà riguardano la sicurezza della città in quanto tale, a cominciare dalle città-mondo, che sembravano destinate a guidare i destini del globo, al posto dei ferrivecchi obsoleti degli stati nazionali, e all’improvviso si riscoprono luoghi affollati pericolosi e fragili.

Così la signora Yuriko Koike, sindaco di Tokyo racconta come, dosando telelavoro e didattica a distanza, sia riuscita a decongestionare il trasporto pubblico, mentre la sua collega di Barcellona, Ada Colau, in un’area metropolitana simile a quella di Napoli, parla del suo lavoro per arginare il turismo di massa, limitare la speculazione dei fitti turistici, rivitalizzare i quartieri perché  ora “…la cosa più importante è coprire i bisogni primari, avere un sistema sanitario pubblico forte e servizi pubblici ben dotati.” In Canada un’altra donna, Valérie Plante, sindaco di Montreal, sottolinea come il Covid “… costringa a ripensare il ruolo dello spazio pubblico, delle aree verdi, per mantenere le attività nel cuore dei centri urbani rispettando le distanze fisiche”, mentre Andy Burnham, sindaco della Greater Manchester, la seconda area metropolitana del Regno Unito, ha puntato sulla riorganizzazione della macchina amministrativa, per costringere i responsabili dei diversi servizi pubblici a lavorare insieme, dando priorità alla protezione dei soggetti deboli, il supporto alle case di riposo, il reperimento di alloggi singoli per i 1.850 senzatetto della città.

E Napoli? Nella tragedia epocale in atto, la nostra città come sta messa, come lavora per superare l’emergenza? Con queste domande in testa ci siamo rimessi in auto, convinti ancora che sia la suola delle scarpe il principale strumento per pensare. Nessun dubbio sulla direzione: se il coronavirus ha cambiato il significato degli spazi, lo spazio di Napoli, il suo futuro, è a est, nella città orizzontale, la pianura immensa di terra e acqua, come ti appare dal viadotto della 162, sfumata nella foschia dorata di questo anticipo di primavera.

In questo palinsesto scombinato e rarefatto di industrie dismesse, frammenti agricoli in abbandono, container, serbatoi petroliferi, mulini, viadotti a scavalco verso il nulla, c’erano tre città importanti, cariche di storia. San Giovanni, a inizio ‘900 era uno dei poli industriali più importanti del Mezzogiorno e d’Italia; Ponticelli, con la sua storia di agricoltura prospera e libertà, per quattro volte capace nei secoli di riscattarsi dai signori, e di lanciare l’insurrezione al nazifascismo; l’operosa Barra, con le sue società di mutuo soccorso, il sindacalismo bianco e quello rosso a lavorare insieme, per difendere la cultura e la dignità del lavoro.

Queste tre città, assorbite negli anni ’20 nel buco nero della Grande Napoli, ospitano il 15% dei napoletani, sono circa 140.000 i residenti, su 2.000 ettari che fanno il 16% del territorio comunale. Insieme dovrebbero essere uno dei soci di maggioranza del capoluogo, la verità è che non contano un bel niente.

E da un buco nero inizia il nostro viaggio, lo sprofondo improvviso tra boati e vapori che s’è aperto d’improvviso una mattina di inizio gennaio nell’area di parcheggio dell’Ospedale del Mare, in mezzo a questo scombino, tra i binari della circumvesuviana, la rampa d’atterro della 162, le torri del Lotto Zero sullo sfondo. Sembra il cratere scuro d’un ordigno bellico, le automobili inghiottite, le tubature e i sottoservizi esposti all’aria come budella, e invece è solo il cedimento di questa terra fragile e fertile di pianura, zuppa d’acqua e di torba, che un congegno di canalizzazione capillare ha mantenuto nei secoli, ma se non la rispetti non può finire che così.

Lamiere, recinzioni eterne di cantiere ed erbacce sono anche il paesaggio intorno al Parco pubblico “Fratelli de Filippo”, 100 ettari di terra fertile, un’area grande come Capodimonte, espropriata più di trent’anni fa per gli standard, anch’essa inspiegabilmente terra di nessuno, come il Parco del resto, in tempi di Covid dovrebbe essere un presidio di salute per i piccoli e le famiglie, 140mila cittadini, e invece è abbandonato per nove decimi a un degrado fisico e vegetazionale irreversibile.

A San Giovanni ci aspetta Enzo Morreale, testimone fedele della storia sociale e operaia della città. Con lui torniamo a quel mare nascosto e negato oltre i binari, il quartiere industriale della Corradini, quasi un secolo di manifattura, chimica, arti meccaniche e vetreria, gli edifici scoperchiati sono sommersi dalla boscaglia, in una Pompei industriale struggente, sulla riva di un mare dimenticato. Attorno a noi tutto è deserto e abbandono, le plastiche e i rifiuti portati dalla tempesta. Qui doveva sorgere il porto turistico per restituire a San Giovanni il suo mare, non se n’è fatto niente, nel frattempo l’Autorità portuale continua a tombare il mare davanti, tra poco la penisola della darsena est scaccerà del tutto l’elemento liquido, cambierà ancora la geografia di San Giovanni, da città sul mare a retroporto, con l’orizzonte davanti a noi minacciosamente chiuso da una nave da crociera alta come un palazzo di 12 piani.

Eppure l’est di Napoli non è un luogo dimenticato, in attesa, privo di progettualità. È, al contrario, un’area che ribolle, di flussi, di attrezzature, di narrazioni e di speranze. La vera immagine di questi luoghi è quella dell’interruzione, un continuo paesaggio interrotto. A Ponticelli, il Piano Particolareggiato del dopo terremoto, progettato da Marcello Vittorini, fu realizzato per tre quarti. Il rimasuglio di quel progetto interrotto è ancora lì che attende. Un terrain vague sul quale dal 1997 il Comune cerca di attuare, con accordi pubblico-privati, un Programma di Recupero Urbano, pensato da Carlo Gasparrini ma che ogni lustro viene rimaneggiato e di cui oggi non si sa più nulla.  Interrotta è la fruibilità del già citato vicino parco Fratelli De Filippo, per anni rimasto chiuso anche se ultimato. Oggi è soltanto in parte praticabile e tenuto vivo da alcune associazioni che curano un orto urbano e dalla presenza del presidio di Emergency. Interrotti sono tutti i progetti lungo l’interfaccia terra-mare, paesaggio privilegiato, a poche centinaia di metri dal centro città, ma negletto come un qualsiasi luogo dello scarto (drosscape, in inglese), da nascondere. Qui si è fermato il progetto per il nuovo porto turistico di Vigliena, con gli imprenditori che sono andati via chiedendo persino i danni al Comune. Interrotto, come detto, è il processo di rigenerazione urbana del complesso di fabbriche di archeologia industriale dell’ex Corradini, alle spalle della spiaggia di Vigliena. Interrotti sono i percorsi ciclabili della nuova via Marina che si dissolvono sul Ponte dei Francesi e finiscono nel caos urbano del Corso San Giovanni. Interrotto è il processo di rigenerazione della ex Cirio, cominciato con i nuovi edifici che ospitano la Apple Accademy (progettati da Francesco Scardaccione e dai giapponesi di Ishimoto Architectural & Engineering), ma che si è fermato, ancora una volta, sulla fascia a mare, dove è presente quella sorta di cattedrale industriale che è l’edificio principale del complesso, progettato nel 1925 da Angelo Trevisan, quasi simbolicamente posto all’ingresso di questo grande quartiere ad est.  Interrotta è l’integrazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica con il tessuto storico: il Rione Pazzigno, Taverna del Ferro, i complessi Incis, Iacp, Pser. Gli edifici di Taverna del Ferro stanno tentando la riscoperta di una nuova dimensione identitaria con i grandi murales di Maradona e di “Essere Umani” di Jorit, ma quelle residenze, progettate da Pietro Barucci negli anni ’80 secondo modelli post razionalisti già all’epoca superati, compresa la tecnica costruttiva della prefabbricazione pesante, sono ancora degli elementi incongrui e socialmente critici nel tessuto storico di San Giovanni.

Per ricomporre questa dimensione di un continuo paesaggio interrotto sarebbero necessarie strategie chiare, che stabiliscano le priorità, indirizzino i fondi e consentano ai processi di essere portati a compimento. Ricucire, riammagliare, creare continuità nella fruibilità degli spazi pubblici e delle attrezzature. Portare a compimento il mosaico di cose cominciate. Creare poi innesti dentro le enclaves e lavorare, come sempre, sui bordi: verso il mare, verso la città centrale, verso l’area dei depositi petroliferi ed infine verso i paesi vesuviani, ancora più ad est, nella zona rossa del rischio vulcanico, nella quale anche gran parte di quest’area ricade.

Finora i progetti del Comune si sono dimostrati insufficienti ed inefficaci. Il piano regolatore aveva promesso un’altra storia, questa spiaggia e questo mare come spazio pubblico per la salute e la vita delle persone, un’esigenza basilare pienamente in linea con le strategie urbane dopo il Covid, ma nel frattempo il governo della città s’è dissolto, vent’anni di nulla, 140.000 vite in ostaggio di una storia interrotta e troppi “fatti urbani” ancora da concludere.