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Francesco Erbani, Repubblica Napoli 8 maggio 2018

Per i bambini napoletani la Mostra d’Oltremare era un insieme di oggetti bianchi, geometrici e misteriosi osservati da uno scivolo di Edenlandia. Poi era il luogo in cui all’inizio dell’estate si allestiva una fiera della casa e la mattina, ormai chiuse le scuole, mentre in altre regioni la tv trasmetteva servizi su quella fiera, a Napoli programmavano un film. In seguito, alcuni, forse molti, di quei bambini diventati più grandi andarono nel grande piazzale della Mostra a sentire Enrico Berlinguer che chiudeva il Festival dell’Unità. Era il settembre del 1975. Da qualche mese Napoli aveva un sindaco comunista, Maurizio Valenzi, e sentiva nell’aria mite di quel pomeriggio che era finita con le mani sulla città, con il colera e con i Gava.

Più tardi ancora, chi di quei bambini, ormai adulti, si sarebbe appassionato di storia del Novecento, di architettura del Novecento, di arte del Novecento, e chiunque altro avesse avuto curiosità di sapere qualcosa di quei misteriosi e geometrici oggetti bianchi, avrebbe letto che lì, alla Mostra d’Oltremare, si era fatto esercizio di razionalismo, ci si era messi in linea con esperienze europee. E mentre a Roma, all’Eur e, in parte, nella Città universitaria, erano prevalse la magniloquenza fascista, la retorica imperiale e monumentale di Marcello Piacentini e Arnaldo Foschini, qui, negli edifici avvolti nel verde di un parco, negli spazi teatrali e nelle fontane, si era messa in pratica un certo “orgoglio della modestia”, sia nelle parti costruite sia nel tracciato urbanistico (artefici, fra gli altri, Marcello Canino, Carlo Cocchia, Giulio De Luca, Luigi Piccinato).

Poi nelle rappresentazioni dei napoletani e di quei bambini divenuti maturi, la Mostra ha iniziato a declinare. Uno slittamento simbolico verso il basso. Il terremoto del 1980, la sciagurata decisione di allestirvi un villaggio d’accoglienza, il deperimento avevano collocato quei 70 e più ettari di verde e di fantasiose ma lineari architetture fra i luoghi dell’abbandono. A nulla valeva la memoria che persino dopo la guerra e i distruttivi bombardamenti si era innescato un sussulto rigenerativo e molti degli stessi architetti che avevano visto in pezzi i loro edifici si erano dedicati a rimetterli in sesto. L’abbandono nutriva in sé il senso dell’irrimediabile, nonostante quel grande spazio non fosse popolato di ruderi e non appartenesse a un epoca remota, ma a una stagione che molti napoletani, i genitori e i nonni di quei bambini, sentivano come propria. E di cui raccontavano i tratti, mescolando quei bianchi edifici con la vaga, giovanile, illusoria impressione di una Napoli benedetta dalla fortuna prima del grande saccheggio che avrebbe investito le sue forme. È stato quindi necessario attendere la fine del Novecento per vedere risistemata la Mostra d’Oltremare nello spazio simbolico che le spettava.

Rinasceva un contenitore fieristico e con esso un parco urbano che si metteva a disposizione di una città la quale di parchi urbani non era dotata a sufficienza (con consueta cura Antonio Di Gennaro ne ha tracciato su queste pagine il profilo). Veniva restituito un paesaggio culturale, un bene culturale i cui elementi naturali e i cui manufatti erano espressione di tanti saperi, e si ridava vita a un “parco d’autore”, come l’ha definito Pasquale Belfiore, che tornava a caricarsi di valori incorporati nei linguaggi architettonici, nello svago e nelle relazioni con la città. Un “parco d’autore” novecentesco che meritava la stessa accorta tutela di un “parco d’autore” settecentesco, appartenente a un Novecento diverso da quello che aveva violentato la città. Arte, architettura, patrimonio vegetale, memorie novecentesche, senso della comunità: questo insieme di aspetti rischia di essere appiattito se la Mostra d’Oltremare viene ridotta a una neutra piattaforma destinata a supportare le casette per gli atleti delle Universiadi, conficcate o meno che siano, se si snatura il suo statuto adattandola a risolvere in condizioni d’emergenza un problema che in tanti mesi non si è stati in grado di affrontare. Un rischio crescente al solo pensiero che dopo le Universiadi anche altri decideranno di usare la Mostra d’Oltremare come se fosse un non-luogo.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 6 aprile 2018

Non so davvero da che parte iniziare. Solo pochi giorni fa questo giornale ha pubblicato un mio reportage sulla Mostra d’Oltremare (“Mostra d’Oltremare, il parco d’autore. Alberi e vita dove c’era abbandono”). Era il racconto veloce di una grande area verde finalmente ritrovata, grazie anche alla decisione dell’Ente Mostra di riaprirla stabilmente al pubblico. In quell’articolo Pasquale Belfiore mi spiegava come la Mostra fosse il più grande “parco d’autore” novecentesco del quale la città disponga: un luogo magico di architettura e natura, dove le alberature storiche – un milione di esemplari di palme ed eucalipti provenienti in gran parte direttamente dalle colonie – danno vita a un ecosistema unico, una sintesi particolare di esotismo e lussureggiante fertilità flegrea.

La Mostra, come tutti i giardini storici italiani, è anche un ecosistema assai fragile, sottoposto a tutela monumentale, ed è per questo che davvero si fatica a comprendere i motivi per i quali l’Ente Mostra intenda ora realizzare proprio qui, su una trentina di ettari, il villaggio per i settemila atleti delle Universiadi che si terranno a Napoli e in Campania nel luglio 2019.

La planimetria di progetto è impressionante: le oltre 2.300 casette sono disposte in una logica di occupazione intensiva dello spazio. Lo schema, straordinariamente fitto, è quello di un accampamento militare, o piuttosto un campo di sfollati o senzatetto, quasi si dovesse far fronte a chissà quale emergenza o disastro, ospitando all’interno del parco l’equivalente degli abitanti di una città come Telese.

Tutto questo, proprio nella parte del parco più delicata, quella occidentale, la più ricca di verde e di alberi, occupando oltre a piazzali e parcheggi, anche larghe porzioni di suoli non impermeabilizzati,  invadendo così pesantemente le fragili aree vegetate. Hai voglia a dire che l’accampamento è temporaneo: la realizzazione delle piazzole e degli allacciamenti per le 2.300 casette, il calpestamento intensivo di mezzi e uomini, comporterà il danneggiamento non reversibile di suoli e apparati radicali, a partire proprio dello strato di superficie biologicamente più attivo e fertile, che negli equilibri vulnerabili di un giardino storico costituisce la base vera della vita. Per di più, la planimetria di progetto sottostima clamorosamente l’ingombro reale della vegetazione arborea del parco, così che risulterà materialmente impossibile fare spazio a questa sorta di megacampeggio provvisorio senza rimaneggiare anche la porzione aerea delle alberature che, giova ancora ripeterlo, sono parte integrante del bene monumentale sottoposto a vincolo c controllo da parte della Soprintendenza.

Il progetto presentato sembra dimenticare all’improvviso la peculiarità e la rilevanza dei luoghi: il parco della Mostra, con i suoi equilibri di architettura monumentale e verde storico, viene trattato, come già in momenti poco gloriosi del passato, alla stregua di uno spazio vuoto, un’area di risulta, priva di valore intrinseco: un piazzale di periferia da occupare in fretta, e da liberare chissà quando, una volta consumato l’evento.

Certo dispiace, nell’arco di pochi giorni, dover passare dal racconto del parco ritrovato, allo stupore di fronte a scelte che mettono a rischio un bene pubblico così importante per la città, che appaiono del tutto arrischiate e incongrue.