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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 21 luglio 2020

Oreste Casalini ci ha lasciati, un tumore ai polmoni l’ha fermato la scorsa notte a Roma. Era nato a Napoli cinquantotto anni fa, era ancora un gigante di ragazzo, timido brusco e gentile, uno dei maggiori artisti italiani contemporanei. Ricordo quando arrivò a studio, sono passati più di dieci anni. Era già famoso, la figura imponente si aggirava senza parlare tra foto satellitari e cartografie, con quella curiosità di tutto che lo animava, era il suo modo di vivere e respirare.
Gli raccontai quello che stavo facendo, un libricino sulla terra, la terra dei fuochi. Ascoltò silenzioso, tornò dopo qualche giorno con una cartella zeppa di acquerelli in bianco e nero emozionanti. Aveva capito tutto. Nei disegni c’era la grumosità minerale, la stratificazione dei suoli, le viti delle alberature aversane avvolgevano corpi tremanti di donna, e madonne duecentesche silenti. In quel libro finirono le parole che avevo scritto, e i suoi disegni, ma i disegni parlavano di più.
Ha vissuto, lavorato e lasciato le sue opere nelle principali capitali del mondo. Era instancabilmente alla ricerca di tecniche e materiali nuovi, per i suoi dipinti che erano sculture, e per le sue sculture che vibravano di vita, e aveva un dono divino, perché il suo segno vinceva sempre, su tutte le tecniche e i materiali. I suoi book di disegni sono tra i romanzi più belli che ho letto.
Non so quanto c’entrasse il fatto di esser nati lo stesso anno, ma io ritrovavo nei suoi segni le forme e il volto dell’Italia come l’avevamo vista da piccoli, con gli occhi emozionati di ragazzino, dal finestrino sull’Autosole, prima che tutto cambiasse. Lui disegnava una casa, un volto di donna, un albero, un crinale, le arcate di un ponte in una valle d’Appennino o un bue in mezzo a un campo, con la modernità essenziale di un pittore del Duecento. Hanno scritto che il suo era un alfabeto di forme primordiali, archetipi; resta stupefacente la vita, l’intelligenza, l’eleganza semplice che ci metteva dentro, non era mai maniera, solo dolorosa verità.
Ha cercato di raccontarlo in uno dei suoi scritti più recenti: “Un’opera è sempre il risultato di un desiderio smisurato, la natura stessa della meraviglia si nasconde in questo segreto, il piacere semplice di fare il meglio, tendere al meglio come atto di devozione e rispetto per il lavoro, una azione rituale, tra le righe, nello spazio del non richiesto, quel che è essenziale aggiungere per non morire di sola materia.”. Il titolo della sua ultima mostra è “Per sempre”. Ti sia lieve la terra, fratello.

 

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