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clan di camorra

Aurelio Musi, Repubblica Napoli del 31 marzo 2017

La lieta sorpresa di uno storico nel leggere questo libro di un sociologo, Luciano Brancaccio, “I clan di camorra, genesi e storia (Donzelli editore), è assai insolita.

Qui finalmente ci si libera di formule, di schemi precostituiti, modellati a immagine e somiglianza delle procedure giudiziarie. Brancaccio sa molto bene che quelle fonti sono parziali, sono utili al giudice per investigare su reati, classificare singoli comportamenti criminali, comminare pene in relazione ai codici. Se vogliamo costruire quadri di conoscenza più ampi, se vogliamo cogliere la genesi e le dinamiche storiche, dobbiamo tornare all’idea classica delle fonti come tracce, seguirle nei loro percorsi più complicati, nei meandri più tortuosi.

Il libro si snoda lungo una logica stringente tendente a ricostruire tutti i significati che possiamo attribuire al concetto-rappresentazione “clan di camorra”. Esso rivela non poche, sorprendenti analogie con i comportamenti dinastici e aristocratici di antico regime, come nota lo stesso autore. La formazione del clan di camorra ha a che fare con processi risalenti nel tempo. Si avvale di parentele estese e un sapiente uso dei rapporti di vicinato. Si arricchisce tra anni Sessanta e Settanta del secolo scorso di due nuovi elementi caratterizzanti: la capacità imprenditoriale, la diversificazione dei compiti capace di controllare l’intera “filiera industriale”.

Tutto questo è egregiamente ricostruito attraverso il caso del clan Zaza-Mazzarella: la convergenza dei due rami familiari, la progressiva specializzazione, il controllo dei quartieri, l’estensione dinastica (le genealogie si distribuiscono lungo quattro generazioni), la numerosità dei figli. Un mondo chiuso, settario? La rappresentazione che ci restituisce Brancaccio va in direzione opposta. Certo famiglie e gruppi sono due sfere di appartenenza. Possono coincidere, ma spesso anche confliggere. Non ci sono regole rigide di successione, la famiglia resta il principale veicolo di riproduzione di codici e regolamentazione di comportamenti. Ma, come ci dimostrano le cronache quotidiane, la tensione tra individuo e gruppo è continua. La leadership criminale ha il suo fondamento in ultima istanza nella forza che può anche prescindere dall’appartenenza familiare o di gruppo.

I gruppi poi non sono organizzazioni clandestine sul modello delle associazioni segrete. È anche assai sfumata la distinzione tra affiliati e non affiliati. Gli equilibri mutano rapidamente, l’appartenenza è ambigua e instabile, scissioni, scioglimenti, passaggi sono all’ordine del giorno. “L’individualismo – scrive Brancaccio – è uno dei tratti più evidenti di questo mondo: soggetti di un certo rango, affiliati o meno, possono fare affari e promuovere traffici con gruppi diversi, anche non alleati fra loro”. In questo il clan di camorra si rivela assai anomalo, per la verità, rispetto ad altre forme di organizzazione di affari che ha conosciuto la storia.

La prospettiva storicistica, se così si può dire, di questo sociologo aiuta a capire innanzitutto la genesi dei clan all’interno dei mercati, in particolare in quei settori che sono caratterizzati da una molteplicità di ruoli di intermediazione e tendono a sviluppare forme di regolazione violenta.

Il pregevole saggio di Brancaccio si conclude con una provocazione che certamente farà discutere: la camorra sarebbe una “élite borghese” o una “aristocrazia criminale”. Le due espressioni non sono equivalenti, come pensa l’autore. Con la prima si allude ad un’autonoma componente sociale; con la seconda si fa riferimento al livello più elevato dell’élite criminale. Con la prima si pensa che il fenomeno camorristico sia parte integrante della dinamica delle élite borghesi, con i conseguenti mutamenti nei valori e nei comportamenti che vi si potranno determinare. Con la seconda si vuole comunque mantenere la specificità criminale del fenomeno e, quindi, la possibilità di contrastarlo e combatterlo.

 

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 29 marzo 2017

Avranno anche ragione i commentatori più pacati e riflessivi a dirci che non bisogna fare troppo gli schizzinosi, che dietro il populismo ci sono istanze e problemi reali, e che anche da Trump potrà venire qualcosa di buono, ma c’è pure un limite alle fanfaronate: il patto sociale può accettare smagliature e rattoppi, ma se si lacera definitivamente sono guai seri per tutti. Ora, con le dichiarazioni del Sindaco sui debiti del comune, questo limite rischia di essere veramente superato.

La democrazia e la convivenza si basano alla fine, al di là dei codici e delle leggi, su un semplice, banale criterio per giudicare l’accettabilità di un’azione, che è quello di domandarsi come sarebbe il mondo se anche gli altri si comportassero allo stesso modo. Immaginate ora cosa accadrebbe al Paese se davvero passasse l’idea stravagante del Sindaco, di affidare ad una commissione di inchiesta, da lui nominata, il compito di decidere unilateralmente sulla liceità dei debiti e degli impegni economici ereditati dal passato, con buona pace dei tribunali e della magistratura contabile.

Se tutti facessero così, si aprirebbe una gara tra le migliaia di enti territoriali di ogni ordine e grado a ripudiare i fardelli sgradevoli del passato, alla fine lo stesso debito pubblico nazionale resterebbe orfano, senza garanti, e ci troveremmo di colpo dalle parti dello stato libero di Bananas, o sulla nave dei folli di Bosch, ben al di là comunque dei più arditi sogni di Salvini. E’ evidente che non stiamo parlando di soldi ma di istituzioni democratiche: se le parole del Sindaco fossero vere, e non una boutade, il patto repubblicano ne uscirebbe annichilito, per sempre.

Il problema della pesante eredità del passato c’è, eccome, e il Sindaco fa senz’altro bene a dialogare col Governo su queste cose, a pretendere per i cittadini dell’area napoletana una spesa pubblica pro-capite comparabile con quella del centro-nord. Resta il fatto che tutto risulterebbe più credibile se un lavoro di risanamento in casa propria fosse stato intrapreso, se la macchina micidiale che continua a produrre debito fosse stata messa finalmente sotto controllo, ma poco o nulla di questo è stato fatto. Gli organici delle partecipate, che consumano metà del budget della città senza fornire ai cittadini uno straccio decente di servizio, hanno continuato a gonfiarsi, proprio con gli stessi sistemi di ieri. L’ingentissimo patrimonio immobiliare del Comune continua a non dar frutto, anzi a produrre esso stesso ulteriore debito, e così è per le altre voci del bilancio comunale, devastato da decenni di clientelismo.

Al di là delle stravaganze e dei colpi di genio, continuiamo ad avere disperatamente bisogno di una capacità di amministrazione e di governo. Il compito di ciascuno di noi resta quello di prendere sulle spalle la responsabilità di un Paese e di una città, così come ci vengono consegnati, e di mettercela tutta per cercare di invertire la rotta. In questa brutta storia la continuità amministrativa e il rispetto delle regole non sono un optional, ma un impegno irrinunciabile, la condizione per ogni nuova idea di giustizia sociale. Se invece di lavorare iniziamo a rompere i vetri della casa, stiamo magari facendo una campagna elettorale frizzante e piena di spirito, ma il nostro destino è mestamente segnato.

Pubblicato con il titolo: “Il populismo e il buongoverno”

 

Giovanni Laino, Repubblica Napoli del 18 marzo 217

 Il governo darà al Comune per Scampia quasi 18 milioni per abbattere tre vele e riqualificare la vela B trasformata prima in case parcheggio e poi in nuova sede della Città metropolitana. Gli interventi sulle vele godranno anche di 9 milioni dei fondi del Pon Metro mentre con un terzo finanziamento statale di altri 40 milioni, assegnato alla Città metropolitana, saranno possibili altri interventi per Scampia e i Comuni vicini. Eliminando una grave condizione di degrado abitativo (le Vele così come sono oggi), migliorando lo stato di edifici scolastici e delle strade dei dintorni, si promette una rigenerazione urbana di un’area che potrebbe essere una delle zone omogenee della città metropolitana.

 Si sa che a Scampia sono ancora da completare altri cantieri edilizi: per la stazione della metropolitana, l’asse di via Gobetti, la sede di un corso di laurea dell’università (prima destinata alla Protezione civile), dopo che per circa quindici anni sono stati costruiti alloggi con tipologie più idonee per realizzare un effetto città, edifici più bassi con negozi sul fronte strada, migliori connessioni fra le parti del rione. Gli investimenti statali puntano a riqualificare le periferie delle città confidando più in generale su di una vecchia convinzione: quando lavorano le imprese edilizie a cascata si smuove un’ampia parte dell’economia. In alcuni casi i programmi finanziati in altre città prevedono qualche piccolo intervento immateriale, per i servizi alla popolazione, la dinamizzazione di attività culturali ma la grande mole degli investimenti (il totale a Napoli) è tutta concentrata sugli interventi fisici.

 Viene così riproposta una concezione che è sempre stata egemonica: la qualità della vita dei quartieri è determinabile dalle trasformazioni dello spazio fisico e dalla sola messa a disposizione di contenitori per servizi come scuole, attività sportive, poli artigianali, piazze telematiche. In diversi casi i contenitori costruiti sono stati vandalizzati senza mai diventare sedi di servizi oppure sono stati riconvertiti avendo constatato l’impossibilità di avviare le azioni previste dai programmi.

 È evidente una scarsissima propensione a riflettere dalle esperienze già fatte, anche a Napoli. Certamente il miglioramento del patrimonio edilizio come dell’assetto urbanistico dei quartieri può essere una buona cosa, come quella di dare ossigeno all’economia finanziando lavori edilizi. Si deve constatare però che, quando questi investimenti sono isolati e non affiancati da rilevanti investimenti che puntano sulla riqualificazione del capitale umano, l’efficacia è poca e in alcuni casi gli esiti sono rovinosi.

 In una prospettiva di europeizzazione delle politiche, dopo le pionieristiche esperienze francesi, in Italia con i contratti di quartiere e i Pic Urban, si provò a immaginare e realizzare interventi più integrati. Con pregi e difetti alcuni risultati sono stati molto positivi, per esempio a Torino. Il Mibac e alcune fondazioni da qualche anno provano a selezionare e sostenere progetti che nelle periferie mettono al centro iniziative culturali come lievito per sostenere e dinamizzare le comunità locali.

 Evitando posizione ideologiche va detto che è facile profezia dire che con l’impostazione centrata sulle pietre, gli investimenti saranno ben poco efficaci, fra venti anni avremo ancora le stesse periferie in cui sarà concentrata la sofferenza urbana e di molti contenitori dismessi o recuperati non si saprà bene cosa fare. Molti esperti delle amministrazioni pubbliche hanno imparato a costruire o restaurare contenitori ma non riescono a pensare e attivare in modo efficace i contenuti. Non riescono ad assumere in alcun modo un approccio place-people- based.

 La destinazione di una quota significativa di investimenti per le attività economico sociali, l’implicazione della popolazione locale, fatta anche attraverso il coinvolgimento delle associazioni meglio radicate, l’attivazione in ruoli apicali di esperti di social e cultural planning, la costituzione da subito di dispositivi sul modello delle missioni locali di quartiere, sono condizioni necessarie per sperare in una qualche efficacia degli investimenti. Così sarà possibile fare molto meglio con meno.

In foto, i ragazzi dell’Orchestra di Scampia

Barbara Ardù, la Repubblica del 15 marzo 2017

Lo Stato mette in vendita 8mila ettari coltivabili

Se non il lavoro, almeno la terra. Che è bassa, dura, a volte crudele, ma che, messa in mano ai giovani, potrebbe trasformarsi in risorsa economica. È anche a partire da questo semplice ragionamento che il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina darà il via a una delle più grandi vendite di terre pubbliche. Si parte con ottomila ettari che verranno collocati a partire da oggi.

CAMPI, piccoli appezzamenti incolti o già coltivati. E gli under 40 avranno un accesso privilegiato all’asta. D’altra parte, i laureati in Agraria crescono (gli iscritti nell’anno accademico 2015/16 sono saliti del 20 per cento rispetto a dieci anni prima), aumentano le esportazioni di prodotti agricoli, il made in Italy tira e l’imprenditorialità giovanile nel settore primario è più vivace che mai, soprattutto al Sud (dove sono nate più di 20mila aziende costituite da ragazzi nei primi mesi del 2016).

Tornare alla terra, per i giovani, sempre più spesso è anche una scelta di vita, per dire basta a lavoretti, voucher e anni di studi buoni, a volte, solo per andare all’estero. Mentre l’Italia invecchia e nei campi rimangono gli anziani, tant’è che spesso c’è un problema di ricambio generazionale. I figli sono andati via, in fabbrica o negli uffici. Oggi ci sono i nipoti, per i quali, però, i cancelli delle fabbriche e le scrivanie sono sempre meno.

Gli ottomila ettari di terreno che oggi verranno messi all’asta saranno i primi, ma non gli ultimi. Perché nasce per la prima volta in Italia una Banca delle terre agricole nazionali, ora frammentate tra Demanio, Ismea, Regioni, Province, Comuni e istituzioni varie.

«La Banca può rappresentare uno strumento fondamentale — dichiara il ministro Martina — per rispondere alla richiesta di terreni e per valorizzare meglio il patrimonio fondiario pubblico ». Ma sempre con una corsia preferenziale per i giovani, cui il bando offre vantaggi per l’acquisto e la conduzione dell’azienda.

Tant’è che all’asta possono partecipare tutti: non solo chi è già coltivatore diretto, bensì chiunque abbia in testa l’idea di coltivare o allevare animali. Anche un laureato in Agraria o un ragazzo che, dopo aver acquisito competenze in chimica o in agricoltura, decida di mettersi in proprio, può tentare. Dovrà iscriversi come imprenditore, ma sarà esonerato per tre anni dal versare i contributi previdenziali.

E non sono pochi i vantaggi di partenza studiati appunto per gli under 40: l’acquisto può essere finanziato con un mutuo a un tasso più basso di quelli di mercato. Gli investimenti, dalle stalle ai macchinari, potranno contare su prestiti a tasso zero, mentre gli aiuti europei sono aumentati del 25 per cento.

Di più. La burocrazia, nelle intenzioni del ministero, dovrebbe essere abbattuta. Ci sarà un sito ad hoc, sul portale del ministero, che darà una schermata dell’Italia. Da lì si potrà navigare seguendo due indicatori: l’ampiezza della terra che si cerca o la Regione dove si va a caccia di suolo. Il primo clic lo farà questa mattina il ministro Martina. Poi l’accesso sarà libero, basterà registrarsi per vedere cosa c’è in vendita, con tanto di valore catastale e tipo coltivazione.

Non è la prima volta che lo Stato mette in vendita terre. Tre anni fa, l’agenzia del Demanio lanciò il progetto Terrevive. E andò bene. Federico Ninivaggi, oggi 38 anni, agricoltore alla terza generazione, acquistò 66 ettari nel brindisino a carciofi e cereali. Ma in testa aveva tutt’altro progetto: piantare melograni. Si è associato con altri 24 produttori per vendere il prodotto in tutta la Ue. Le prospettive? «Conto di fatturare 2 miliardi — dice oggi soddisfatto — e impiegare a regime 160 persone». All’asta erano in 27, l’ha spuntata lui. In Toscana un giovane veterinario, 23 anni, s’è aggiudicato 88 ettari a Monticiano per farvi un allevamento. Chianina? No, cinta senese e asinelli amiatini.

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Luciano Brancaccio, Repubblica Napoli del 15 marzo 2017

Con il diniego della Mostra d’Oltremare per la manifestazione di un parlamentare della Repubblica il sindaco de Magistris ha dato prova ancora una volta della sua personale concezione della politica. Della sovrapposizione, visibile fin dai primi mesi del suo mandato, tra la propria sfera egotica, il mandato amministrativo ricevuto dagli elettori e le velleità di capo politico. Della combinazione strumentale e della confusione temporale tra il magistrato, il politico e l’amministratore. E infine della primazia della vocazione di capopopolo sul governo della città, sulla tutela degli interessi concreti dei cittadini, sulla cura delle sue funzioni di base: i trasporti – incredibilmente azzerati in questi giorni di tafferugli urbani e verbali – i servizi sociali, le politiche per la casa, i vincoli della burocrazia, le inefficienze e le zone oscure del corpo di polizia municipale e altro ancora.

Il capo politico che vediamo schierarsi a parole con gli ultimi della società è lo stesso amministratore al vertice della macchina che dovrebbe erogare servizi essenziali, sul piano materiale, per i cittadini più svantaggiati. Quella macchina che nel suo ordinario funzionare allarga le disuguaglianze piuttosto che ridurle. Ma questa elementare identità (capopopolo e amministratore) è offuscata dallo sproloquio mediatico, dal tweet guevarista. Una sorta di “falsa coscienza di classe” a danno dei più indifesi, per dirla con una terminologia che, se non lui direttamente, i suoi consiglieri certamente frequentano.

Il dibattito che è scaturito da queste vicende ci costringe ad andare al di là di questa rappresentazione a tratti macchiettistica. Interrogandoci con più contezza sul come si sia arrivati a questa situazione e quali vie si possano percorrere.

A tal proposito Biagio De Giovanni sulle colonne de Il Mattino si chiede correttamente dove sia il “noi”. Dove sia l’argine, il bastione della civiltà, la radice illuminista del nostro convivere per cui le opinioni politiche (nobili o volgari che siano) restano elementi relativi, e non assoluti sui quali fondare la ragione della propria stessa identità. Dove sia la matrice culturale per cui le posizioni politiche (soprattutto quelle dei parlamentari, le sole in questa vicenda a potersi avvalere di un superiore sigillo di garanzia costituzionale) vengano tutelate dal diritto “sacrosanto” di esprimerle – sacrosanto non perché rivelato da un qualche messia, ma perché scolpito nel sangue dei molti che hanno combattuto per affermarlo, compresi i nostri ascendenti diretti nell’ultima guerra. Dove sia il “noi” che limita le pulsioni personali, i deliri di onnipotenza, i vaneggiamenti rivoluzionari e contiene il comportamento istituzionale e politico entro il limite di una minima sobrietà, che a un certo punto del degrado che ci tocca in sorte diventa semplicemente la soglia del rispetto per la comunità che si governa e per le intelligenze che la costituiscono.

Il problema è proprio che quel “noi” è morto, e non da oggi. È stato ripetutamente calpestato proprio dalle amministrazioni di centrosinistra della città. Delle stagioni di Iervolino e Bassolino, soprattutto quest’ultima nata con ben altre prospettive, questo resta: uno spirito civico avvizzito e mortificato. Quel “noi” è stato lacerato, disperso in mille rivoli e infine sovrastato da un’onda montante fatta di apprendisti stregoni e furbizia mediatica che si poteva ben prevedere. E se non si è prevista, se non si è curato quell’argine è perché quel “noi”, quando ancora sopravviveva, seppur in forme caricaturali, conteneva già i germi dell’attuale condizione politica della città. Li conteneva non nel suo pensare astratto e di facciata, nelle parole ostentate, nei riferimenti solo dichiarati ai valori fondanti e alla costituzione, ma nel suo realizzarsi, nella pratica della gestione di un potere fatto di soli ventri, di autoaffermazione cieca, di narcisismi, di doppia morale, di circuiti chiusi, di sottili e meno sottili intimidazioni nei confronti di chi non sta dalla parte giusta. E quando le competenze, i tecnici illuminati, i consiglieri di corte hanno cercato di porre rimedio a una immagine pubblica ormai palesemente deteriorata, quando hanno cercato di puntellare una facciata che mostrava crepe da tutte le parti, il risultato è stato qualche pannicello caldo che aggiungeva al danno lo sberleffo del potere. Alcuni ricorderanno il rituale dei tavoli partecipati promossi dalla Iervolino durante la campagna elettorale del 2006 che la vedrà riconfermata alla guida della città: un vuoto simulacro di pratiche trasferite asetticamente dai libri di sociologia politica.

Dalle amministrazioni Iervolino e Bassolino abbiamo ereditato la pulsione all’amministrazione corporativa, all’azione politica autoreferenziale, alla divisione del corpo della città secondo grumi di potere. Al distacco dalle esperienze virtuose che non hanno mai trovano un punto di coagulo, una sponda istituzionale: classi dirigenti abortite prima di dare prova di sé. L’elenco potrebbe essere lungo.

Ma è un problema solo della politica? Non credo. Nel 2006, quando i segnali erano già chiari, l’offerta politica presentatasi alle elezioni comunali conteneva l’alternativa. La lista di Marco Rossi- Doria, che oggi lavora in perfetta solitudine ventre a terra nel cuore della città su progetti di emancipazione degli ultimi, ottenne un numero di voti neanche sufficiente a eleggere un consigliere comunale.

Da dove ripartire allora? Dalla società reale, dagli ordini professionali, dalle associazioni di categoria, dai gruppi accademici. Laddove c’è potere in questa città c’è intolleranza verso il nuovo, verso il pensiero indipendente, il solo che può aprire nuove prospettive, ma che in questa città viene sistematicamente affossato, percepito, probabilmente con qualche ragione, come il cuneo che fa franare la terra sotto i piedi di qualche grand commis. Ben oltre la compagine di de Magistris, le responsabilità si estendono.

 

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 12 marzo 2017

Evidentemente anche gli equilibri spontanei del “grado zero” di governo, il lasciar andare la città un po’ come gli pare, a volte pure saltano, e così è stato venerdì mattina, per motivi ignoti in tangenziale la coda per uscire a corso Malta era un serpente sonnolento di più di dieci chilometri, che iniziava a srotolarsi dalla conca di Agnano.

Dopo quaranta minuti incolonnato in fila mi viene l’impulso di uscire a Fuorigrotta, di cercare  fortuna sul lungomare, e in effetti le cose sembrano migliorare, a piazzale Tecchio la circolazione è più fluida, mi torna il pensiero che questo è il quartiere più europeo della città, quello che per tutta una serie di motivi, alla fine, funziona meglio.

Esco dal tunnel, a via Caracciolo inondata di luce si cammina ancora, è una mattinata stupenda di primavera anticipata, ma l’entusiasmo si raffredda a viale Dohrn, dove la coda si riforma. Ho tutto il tempo di ammirare la statua equestre di Armando Diaz stagliarsi contro il cielo azzurro, di ricordare nonno Gennaro, che con lui combatté a Vittorio Veneto, soldato semplice ventottenne, nel reggimento dei Bersaglieri.

In lontananza, Castel dell’Ovo è solo una sagoma grigia in un mare di schegge scintillanti, davanti al generale c’è un traliccio incongruo di tubi innocenti, con una baracca pensile da stabilimento balneare, è il famigerato albero metallico delle feste di Natale, mi dicono che lo stanno smontando, ma non c’è persona viva, evidentemente non c’è fretta, c’è tutto il tempo.

Si procede a passo d’uomo fino a piazza Vittoria, via Chiatamone, la grotta, via Acton, fino all’Immacolatella, e qui i motivi dell’imbottigliamento si svelano finalmente, tre operai stanno lavorando a un tombino in mezzo alla carreggiata, ma ora stanno fumando, proprio accanto s’è fermato un suv nero, il proprietario parla animatamente al telefono, guai a dirgli che sta bloccando tutto, desolatamente scopri che dopo il restringimento improvvisato via Marina è assolutamente libera, e ti viene da piangere.

Profitto per buttare un occhio al cantiere infinito per il rifacimento della strada, anche qui, come sull’albero metallico, non c’è anima viva, la cabina del bagno chimico ha un che di metafisico, niente operai né persone, c’è un trionfo assoluto dell’elemento minerale, solo una geologia primordiale di cumuli di detriti, grosse schegge di roccia lavica, scatolari di cemento precompresso, in attesa.

Di vivente, alla fine ci sono solo le povere palme, le stesse dello Starbucks in piazza Duomo, forse meno famose, ma le vedo sofferenti, le foglie già stropicciate e ingiallite, la terra dove le hanno messe a dimora non mi sembra un gran che, e provo pena per loro, spero veramente ce la facciano a resistere in mezzo a questo deserto, a questo tempo senza uomini e senza cura, senza una regola minima per vivere insieme.

La foto di Castel dell’Ovo è tratta da http://www.cosavisitare.com

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 2 marzo 2017

E’ veramente difficile non cedere allo sconforto, leggendo le anticipazioni di stampa sulla super perizia commissionata dal Tribunale di Napoli, che doveva dire una parola definitiva sulla conduzione della bonifica di Bagnoli. Le conclusioni cui i periti giungono sono raggelanti: le operazioni di bonifica, anziché migliorare lo stato ambientale dei luoghi, ne avrebbero addirittura compromesso la possibilità d’uso futura, rendendo comunque necessaria una nuova attività di caratterizzazione, di messa in sicurezza, bonifica.

“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, avrebbe sbrigativamente concluso Bartali. Considerato che le prime attività di caratterizzazione risalgono al  1997, il senso della perizia è che abbiamo perso un ventennio, oltre a una barca di soldi, e la prospettiva è ora quella di ricominciare da capo, rituffandoci in un brutto sogno che non vuole finire mai.

Un incubo che non riguarda solo noi, perché il fallimento di Bagnoli è solo un capitolo di una storia più vasta, se in Italia in un quarto di secolo siamo riusciti a portare a termine meno dell’un per cento delle bonifiche previste nei Siti di Interesse Nazionale. Insomma, le bonifiche sono una pagina nera della storia della Repubblica, e questo fatto merita una riflessione seria, lasciando da parte le fumisterie specialistiche, l’atmosfera esoterica, da iniziati più che da addetti ai lavori, che ammanta solitamente queste cose.

C’è, innanzitutto, una difficoltà di governance, perché le competenze alla fine sono distribuite lungo tutta la filiera istituzionale, dallo Stato centrale al Comune, e la cooperazione tra i diversi organi dell’Amministrazione non è mai stato il nostro forte, con una inclinazione piuttosto al rimbalzo di responsabilità. In più c’è l’instabilità istituzionale: nella pluridecennale vicenda di Bagnoli si sono succeduti quattordici governi centrali, cinque amministrazioni regionali, e quattro diversi sindaci, con momenti di stallo e incomunicabilità che si sono pure verificati, soprattutto quando ai diversi livelli sedevano amministrazioni di differente segno politico.

A complicare ulteriormente le cose, c’è stata poi l’evoluzione legislativa, nel caso di Bagnoli le leggi di riferimento sono cambiate ben due volte, con la difficoltà, che si è puntualmente verificata, di dover decidere se e come adeguare i piani di bonifica, faticosamente approvati in conferenza dei servizi, alle nuove regole e ai nuovi standard.

Esiste poi senz’altro un problema di comunicazione e partecipazione pubblica, che alla fine conta, e fa la differenza. Nei paesi che queste cose le sanno fare, con approccio sobrio e in tempi rapidi, proprio la consapevolezza della delicatezza di questo tipo di operazioni, che toccano nel vivo interessi economici rilevanti, ma anche la vita dei cittadini, il diritto alla salute, la qualità degli ambienti di vita, spinge le amministrazioni a sollecitare la partecipazione pubblica, con la produzione di rapporti periodici sullo stato di avanzamento dei lavori, la possibilità di visitare i cantieri, tutte cose che rafforzano la credibilità e la fiducia nelle istituzioni, e che aiutano gli stessi attuatori a non smarrire la rotta. A Bagnoli tutto questo è mancato, l’area è stata di fatto negata alla città per un lungo ventennio, il muro di cinta ha funzionato da limite invalicabile, e nessun racconto, nessun rendiconto è stato fatto alle comunità, con l’effetto di alimentare il disamore, la diffidenza, il distacco.

Ora, con la super perizia, sembra giunto il momento della verità, della resa dei conti. Come altre volte è successo in Italia, la risposta di ultima istanza ad un fallimento politico-amministrativo è di tipo giudiziario, ma anche qui bisogna mantenere i nervi saldi, e intendersi. Perché dopo una lettura attenta della perizia, e della minuziosa ricostruzione tecnico-amministrativa che essa contiene, è possibile e doveroso sottoporre le conclusioni cui giungono gli esperti ad un vaglio critico, con tutto il rispetto dovuto al poderoso lavoro svolto.

Tra le diverse cose che i periti hanno fatto, c’è stato lo scavo e il campionamento di quindici trincee nelle aree funzionali del Parco dello Sport e del Parco urbano, con il prelievo di una quarantina di campioni di suolo. Ebbene, il 90% dei campioni prelevati nel Parco urbano, e il 45% dei campioni prelevati nel Parco dello Sport, hanno evidenziato un contenuto di inquinanti organici (IPA e idrocarburi nel Parco urbano, IPA e PCB nel Parco dello Sport), superiori agli obiettivi di bonifica che erano stati previsti. Questo sia nello strato profondo, di riempimento con materiali più grossolani, sia nello strato superiore, a granulometria più fine, servito a ricostruire il suolo superficiale.

Sulla base di questi dati, gli esperti giungono alla conclusione che “… gli interventi di bonifica certificati, così come realizzati abbiano compromesso la futura fruibilità dei luoghi, perlomeno quelli a destinazione d’uso residenziale, arrivando talora a incrementare le concentrazioni esistenti prima della bonifica. Tale compromissione determina la necessità di una nuova attività di caratterizzazione e di bonifica/messa in sicurezza, finalizzata a rendere tali luoghi a tutti gli effetti conformi ai sensi di legge, nei termini di un’analisi di rischio”.

Ora, se è senza dubbio deprecabile il fatto che una bonifica costosa e complessa non abbia condotto, foss’anche solo nei punti di campionamento interessati dalla perizia, alla risoluzione dei problemi iniziali di contaminazione,  è sul giudizio netto di “compromissione dei luoghi” che non è possibile essere d’accordo, proprio perché, alla luce della procedura prevista dalla legge, esso può essere legittimamente espresso solo dopo aver realizzato ad un’analisi di rischio sito-specifica, la stessa chiamata in causa dai periti, i quali però, nell’ansia di giungere comunque a un verdetto netto e definitivo, sembrano incorrere in un curioso loop logico.

Quello che si vuole affermare è che “compromissione dei luoghi” significa una cosa ben precisa, e cioè che quei luoghi non possono essere utilizzati dalle persone in condizioni di sicurezza, senza che ci siano ragionevoli rischi per la salute, dovuti all’esposizione concreta a sostanze pericolose, per  contatto, inalazione o ingestione. Per sapere questo occorre l’analisi di rischio.

Resta il fatto, che i dati epidemiologici di scala comunale, pure citati dalla perizia, dicono che la mortalità per tumore è più bassa a Bagnoli che nel resto della città, mentre le analisi effettuate dall’ABC hanno evidenziato come le acque di falda risultino pulite anche a monte della barriera idraulica, e questa è la migliore conferma che i potenziali contaminanti presenti nei suoli hanno una bassissima mobilità, e non se ne vanno in giro per l’ambiente.

Alla fine, anche la perizia deve riconoscere, seppur con formula involuta, che “non sono emersi elementi che ci permettano di concludere con certezza che esiste un rapporto fra inquinamento ed eventuale danno alla salute nel caso specifico, poiché mancano dati epidemiologici e dati di monitoraggio biologico, che esprimono la reale dose assorbita.”

Insomma, se sono stati fatti errori devono essere perseguiti, ma l’insieme delle cose che oggi sappiamo su Bagnoli ci dice che, per grazia di Dio, la catastrofe ecologica e il disastro ambientale, non abitano qui. E’ un pezzo di città da mettere a posto, ed è a questo punto assolutamente necessario che le attività di caratterizzazione e analisi del rischio, recentemente decise nel tavolo istituzionale tra Governo, Regione e Comune, procedano il più velocemente possibile, per dare risposta ai dubbi e alle inquietudini che la perizia ha lasciato in sospeso.

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