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Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli del 25.05.2021

Il mare è dietro le sbarre, in fondo allo Sbarcatoio tra le palazzine del piccolo borgo ai piedi della montagna solenne di Coroglio. Come per tutti i luoghi in attesa di questo quartiere in attesa, c’è sempre un muro, una cancellata, una paratoia di qualche tipo a sbarrare la percezione e l’accesso. Ma il sistema misterioso di enclosure ha i suoi varchi, uno sbrego nel muro o nella recinzione, un paio di sbarre segate, ed allora ci incamminiamo verso la spiaggia, tra i cespi di ammofila e di eringio che hanno resistito allo spianamento, sulla prateria spelacchiata ci sono bagni chimici abbandonati, grandi mucchi di inerti, ma superata la scogliera sepolta la sabbia è pulita, come rastrellata da poco, due mamme coi bambini in costume giocano sul bagnasciuga, il mare è una tavola, l’acqua trasparente, Nisida è verde e rigogliosa sullo sfondo.

Subito ci raggiunge un tizio robusto in maglietta, ha un pass al collo, chiede dove andiamo, stanno montando il set per “Gomorra 5”, ci sono i camion con gli attrezzi, la troupe al completo festeggia in un vicino privè su via Coroglio, ci dice di non fare fotografie. Questa sintesi di degrado, precarietà e grazia invincibile è perfetta per loro, sullo sfondo le grandi strutture fantasma della Cementir sono inquietanti quanto basta, gli scenografi non avrebbero saputo inventare di meglio.

Risalendo via Leonardi Cattolica non è accessibile neanche  la ventina di ettari del Parco dello Sport, un muro verde di rovi e di clematide sta seppellendo e rovinando tutto, ingoia la pista, coi pali dell’illuminazione e gli altoparlanti, i campi di tennis; dopo le indagini e il sequestro giudiziario per la storia della bonifica, il collaudo delle opere lo stanno facendo i ragazzi che si intrufolano per giocare a pallone, corrono e respirano inebriati ai piedi della foresta verticale che viene giù da Posillipo, unici provvisori abitanti di questo pezzo di città caduto in rovina prima d’essere stato mai vissuto dagli uomini.

Il Parco dello Sport è una delle poche cose fatte, assieme alla Porta del Parco, da “Bagnolifutura”, la società di trasformazione urbana cui la città aveva affidato, senza molta fortuna e con infinite traversie, l’attuazione del piano.  Visibile risalendo via Coroglio, il Parco, nelle intenzioni del progettista Massimo Pica Ciamarra, doveva riprodurre i metameri di questa terra vulcanica: i gruppi di campi sono posizionati in “crateri” che servono anche a delimitarli e a posizionare gli spalti, gli accessi. i servizi. Dello stesso architetto anche l’intervento di “Città della Scienza”, una realtà positiva che oggi si contende il territorio con l’abbandono e l’inedia delle istituzioni.

Risalendo a nord, percorriamo la teoria di spazi chiusi lungo via Campegna. Alcuni episodi architettonici di pregio ci ricordano che le politiche dei primi decenni del ‘900 avevano un’altra idea di questi luoghi, soprattutto per quanto riguarda la residenza pubblica di un certo pregio, come le case a torre Ina Casa progettate da Mario Ridolfi e Wolfang Frankl o gli edifici cosiddetti “ultrapopolari” dell’immediato dopoguerra, sempre in via Campegna, progettati da Sbriziolo.

Proseguendo, dietro i muri di questa strada rurale ai bordi della Shangai popolosa di Cavalleggeri, ci sono il Centro Universitario Sportivo, con persino un piccolo campo di golf, il poligono di tiro, e poi ancora le aree militari e ferroviarie dismesse ai piedi della montagna che vanno diventando bosco. Un capitale straordinario, ettari e ettari di spazi pregiati da riconquistare e restituire alla città, anche qui tutto inesplicatamente serrato, inaccessibile.

Giriamo su via Nassirya, c’è la Caserma Battisti, le palazzine anni ’30 in rovina stanno in mezzo a un parco arboreo di acacie ed eucalipti grande come la Floridiana, nell’attesa basterebbe solo pulire e mettere qua e là una panchina per regalare un po’ di verde e nuovo spazio pubblico al quartiere. C’è il muro alto coi cartelli gialli che dicono “Zona militare”, su Google Map la sagoma è immediatamente riconoscibile perché i muri disegnano un enorme quadrato perfetto. Seguiamo il perimetro sino a un varco nel tufo, dentro c’è un canto di uccelli nel silenzio tra i rami, l’erba tenacemente cancella l’asfalto, la suggestione è totale: questo grande quadrato verde è uno dei gioielli di Bagnoli, in posizione centrale, strategica per il nuovo assetto dell’intera area, ma un paio di ministeri e il Demanio hanno deciso che proprio qui sorgerà il nuovo carcere, non si capisce se è un modo per liberare Nisida, ma è proprio vero comunque che ogni tentativo di strategia esplicita per questo quartiere che vuole rinascere è definitivamente saltato.

Ora siamo su via Bagnoli, l’area sterminata dell’ex acciaieria in attesa da trent’anni è dietro il muro: al di là, nella grande fascia di una quindicina di ettari lungo l’asse stradale, la trasformazione urbana rimane una chimera. Proprio nelle ultime settimane, l’Istituto Superiore di Protezione Ambientale (Ispra), in conferenza dei servizi, ha bocciato un incomprensibile progetto di bonifica redatto da Invitalia: volevano sbancare tutto e pulire il suolo fino a sei metri profondità, non si sa bene perché, visto che l’analisi di rischio non spiega niente.

Sono cose che non si vedono in nessuna parte del mondo, le democrazie occidentali queste aree non le bonificano, le mettono sobriamente in sicurezza, in tempi ragionevoli, senza spreco di soldi. A Bagnoli abbiamo speso 600 milioni nella gestione precedente, ora ce ne sarebbero altri 400, ma sembra non bastino, il commissario straordinario ne chiede altri 700, francamente un po’ troppo per continuare col movimento terra.

Stesso discorso, per i fondali marini, per i quali è previsto un costosissimo e arrischiato piano di dragaggio che oltre a sconvolgerlo per davvero l’ecosistema, pone un problema insolubile di destinazione dei sedimenti. Al contrario, come ci spiega Carlo Donadio, geomorfologo costiero e subacqueo del Dipartimento di Scienze della Terra della Federico II, che la chimica di questi fondali e degli organismi che ci vivono la studia da anni palmo a palmo, la strategia dovrebbe essere quella di stabilizzare i sedimenti contaminati, come è stato fatto in progetti importanti di recupero in giro per il mondo, reimpiantando le praterie di Posidonia (che non è un’alga, ma una straordinaria pianta superiore che si è riadattata alla vita subacquea),  che da millenni hanno sempre popolato questi ecosistemi.

Insomma, dovrebbe essere venuto finalmente il momento di lasciare per sempre alle spalle questa bonifica Stranamore, che da strumento si trasforma in opera interminabile, fine a sé stessa, mettendo in secondo piano tutto il resto. La parola d’ordine è “messa in sicurezza”, come richiesto da Ispra, puntando a un confinamento appropriato dei suoli, anche valorizzando, come ci dice Massimo Fagnano, docente di agronomia del Dipartimento di Agraria che ha coordinato il progetto europeo su terra dei fuochi, un’appropriata copertura verde: prati cespugli e alberi come quelli che già crescono, anche spontaneamente, nel parco che c’è già, tra i grandi monumenti di archeologia industriale.

Ma evidentemente gli interessi concreti vanno in un’altra direzione, e anche la pianificazione urbanistica per questi luoghi si è oramai trasformata in un dedalo complicato, difficile da raccontare. Si è cominciato nel 1998 con l’approvazione della Variante Occidentale al Piano Regolatore – impostata da Vezio De Lucia, che un anno prima aveva già lasciato la carica di assessore -, e confluita poi nel PRG del 2004; quindi il Piano Urbanistico Attuativo per Bagnoli, passando per  i concorsi internazionali di architettura i cui progetti vincitori sono stati prima pagati e poi mandati al macero; giungendo infine nel 2014, con il finto redde rationem dello Sblocca Italia, al commissariamento, quindi alla redazione, da parte del soggetto attuatore Invitalia, di un documento strampalato chiamato (Praru) Programma di Risanamento Ambientale e di Rigenerazione Urbana, di cui non è dato conoscere l’efficacia e la cogenza.

Uno strumento qualitativamente non all’altezza e lontano da progetti simili già conclusi in tutta Europa, privo di indicazioni chiare sulle urbanizzazioni, le infrastrutturazioni, i trasporti – come rilevato anche dalla Corte dei Conti, e dal Ministero dell’Ambiente, che l’ha definito nel suo parere un esercizio “puramente virtuale” – senza i quali neanche il più sprovveduto degli immobiliaristi ci metterebbe un euro.

Intanto, l’ultimo dei tanti concorsi fatti si è chiuso poche settimane fa, con l’ennesimo vincitore e con l’ennesimo rendering di cartapesta, per ora l’unico elaborato progettuale diffuso da Invitalia. Nulla da obiettare sui progettisti, poco noti, che la giuria ha ritenuto migliori di tanti altri studi di architettura di caratura internazionale che hanno partecipato, ma è difficile pensare che quel disegno immaginifico si realizzi senza un programma serio che lo sostenga. Quando l’impalcato di questo programma di interventi, ancora del tutto assente, sarà finalmente definito, ci si accorgerà che il rendering sarà in buona parte inadeguato e inattuabile. Insomma, siamo ancora alle trovate di urbanistica creativa: invenzioni prive di prospettive concrete, che solo negli annunci e sul sito di Invitalia possono essere pensate come attuabili.

La verità è che oggi, per citare Bernardo Secchi, uno dei maggiori urbanisti italiani, “le condizioni sono cambiate” e, al di là dell’inefficacia di quanto programmato finora e dell’insipienza di una governance sistematicamente non all’altezza, è arrivata probabilmente l’ora di ribaltare completamente lo sguardo su questo ambito fantastico della città di Napoli.

Innanzitutto bisogna separare e discretizzare le questioni, quando si nomina Bagnoli si fa riferimento, il più delle volte, all’area di sedime del sito industriale. E invece è alla Bagnoli oltre Bagnoli che bisogna guardare: i grandi parchi già pronti per l’uso: quello dello sport, quello della caserma Battisti, quello del CUS, l’Auditorium (progettato dal napoletano Silvio D’Ascia e Amanda Levete) e le sue aree di pertinenza su via Diocleziano, la passeggiata a mare del pontile Nord, monca alle estremità, il quartiere ottocentesco e il bellissimo viale Campi Flegrei, fino al Collegio Ciano e la collina verde di San Laise.  Basterebbe ricucire e mettere a sistema. Anche solamente ripulire.

Sulla grande area industriale, da bonificare, da rivalutare, in alcuni casi ancora da smontare (come nel farsesco tira e molla sulla colmata a mare) è invece giunta l’ora non di ri-finanziare, non di ri-bonificare, non di rilanciare, ma di rallentare, attendere, mettere i fondi da parte e capire. Approcci di grande respiro e trasformazioni elefantiache non sono oggi alla portata della città nel suo complesso, né di chi si trova, a volte per caso, nei gangli decisionali. Rallentare ma non fermarsi.

Al contrario, l’intera area, compresa la spiaggia, può diventare da subito, cadute le barriere, spazio di vita per gli abitanti del quartiere e della città metropolitana in questi tempi complicati di pandemia: un’arena per usi temporanei, set cinematografici, concerti, luogo per passeggiate urbane à la Jane Jacobs, alla scoperta di quello che il paesaggista francese Gilles Clement chiama “terzo paesaggio”: la natura che riconquista il terreno e ricostruisce se stessa, magari accompagnata da object trouvé funzionali a fruire di questi spazi. Natura che ridisegna il suolo, lentamente depura, simboleggia speranza e insegna a fare a chi, finora, non è stato capace di fare.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 aprile 2021

Ha usato proprio la parola “fiasco”, in italiano, il New York Times per titolare l’articolo sulla deludente performance dell’Europa in materia di vaccini. S’è detto tante volte: il coronavirus non crea nuovi problemi, ma amplifica quelli che c’erano già. Questo riguarda anche il funzionamento dell’Unione europea, e la cosa ci riguarda da vicino. Il fragile equilibrio finanziario del Mezzogiorno dipende grandemente dai fondi comunitari che – come è scritto con chiarezza nei rapporti dell’Agenzia per la coesione – sono serviti nell’ultimo ventennio a coprire il buco dei mancati trasferimenti dallo Stato centrale.

Nella partita dei vaccini la differenza con i paesi che hanno fatto meglio, Regno Unito, Israele e Stati Uniti, è semplice da raccontare: in tutti e tre questi casi lo Stato è sceso in campo come socio finanziatore e acquirente privilegiato, investendo tanti soldi nell’impresa, fin dall’inizio, dalla sperimentazione, con le sue università e centri di ricerca, alla produzione industriale.

Alla fine, il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato che il suo paese ha ottenuto i suoi vaccini “…grazie a capitalismo e avidità”, e una cosa abbastanza simile l’ha ripetuta in un intervista a “Repubblica” Larry Fink, numero uno di Black Rock, il più grande fondo di investimento privato al mondo, secondo il quale “grazie al capitalismo abbiamo battuto la pandemia”.

E’ evidente che si tratta di uscite propagandistiche, perché è vero esattamente il contrario: Inghilterra, America e Israele hanno agito proprio come avrebbero fatto Marshall e Keynes, usando potentemente la leva dell’investimento pubblico, assieme alla propria sovranità, come strumento di grado superiore per conseguire finalità di interesse generale, e fare cose che il mercato da solo non è  proprio in grado di fare. Insomma, in quei tre paesi lo stato ha fatto bene il suo mestiere.

L’Unione europea, che pure si vanta col resto del mondo per il suo sistema di programmazione economica e sociale che protegge i cittadini, ha sciaguratamente scelto in questa vicenda di agire sul piano asettico delle regole e della negoziazione, dismettendo la propria sovranità e comportandosi come un acquirente privato qualunque, come se la soluzione al problema fosse quella di stipulare sul mercato ben confezionati contratti di fornitura.

Il risultato è stato deludente, un fiasco per dirla con il New York Times, evidenziando un difetto di autorevolezza e pure di politica: i  programmi di vaccinazione procedono a rilento, il conto delle vite resta alto, il contenzioso legale con le ditte non porterà a nulla, e la conclusione è che in tutta questa vicenda l’Unione non è riuscita ancora a comportarsi come uno Stato vero.

La speranza è che questa amara lezione possa servire all’Europa. Per attuare bene l’ambizioso piano di recupero che è stato messo in campo servono politiche pubbliche coraggiose, anche dure, ma mirate all’obiettivo, piuttosto che formalismi procedurali asettici.

Pure i pregiudizi non aiutano, e bene ha fatto Draghi nei giorni scorsi a troncare a un certo punto le polemiche sterili con ambienti di Bruxelles e pezzi rilevanti dell’opinione pubblica nord europea, sulla credibilità del Recovery plan italiano, chiedendo direttamente alla signora von Der Layen più rispetto per un paese che ha pagato in Europa il prezzo più alto alla pandemia. E’ una partita che il capo di governo aveva già dovuto affrontare da presidente della Banca centrale europea, quando riuscì a imporre una gestione più equa e lungimirante del quantitative easing. Per noi cittadini del Mezzogiorno d’Italia, che è Mezzogiorno d’Europa, sono parole giuste, e va bene così.

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