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Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli 11 dicembre 2021Foto di Riccardo Siano

Un colpo di fortuna e siamo riusciti a visitarlo, il parco segreto che la città non sa di possedere. S’è formato da solo, in cinquant’anni, sotto i piloni monumentali della Tangenziale, all’ombra del “piatto di spaghetti”, il dedalo incredibile di rampe e svincoli con i quali la superstrada s’aggancia spericolatamente ai palazzi sopra i trampoli del Vomero.

Dopo Capodimonte e il bosco dei Camaldoli è una delle aree verdi più grande della città, ma è un verde segreto, ci passiamo sopra ogni giorno, distratti nelle auto, come sorvolando un mondo alieno, che invece ci appartiene. L’occasione è un intervento di manutenzione dei viadotti, il cancello anonimo su via Pigna è rimasto aperto, non è il caso di formalizzarsi, ci infiliamo, inoltrandoci lungo una sterrata che dolcemente sale verso via Cilea, tra lembi di bosco che alla fine sono tornati, dopo settecento anni.

Gli Angioini avevano tagliato la selva costruendo l’area agricola più importante della città: una platea di ciglioni digradanti dal casale del Vomero a quello di Soccavo, un mosaico fantastico di arboreti tradizionali con tutti i fruttiferi possibili – noci, ciliegi, pomacee, drupacee, fichi nespoli e vite – e poi gli ortaggi, le patate, il grano e le stalle per il latte. Una campagna-salotto totalmente immersa nella storia: il colombarium sul bordo di via Pigna è uno dei monumenti funebri greco- romani più importanti della città, ora è imprigionato tra gli sterpi, dietro una miserabile protezione di tubi innocenti e stracci. Come è imprigionata nel disordine edilizio la torre secentesca elegante del convento dei Domenicani, al confine con il caos brulicante di via Epomeo.

La campagna millenaria c’era ancora alla metà del Novecento, è perfetta nelle foto aeree che gli alleati scattarono nel 1954 per il Piano Marshall, e ha resistito immutata fino alla fine degli anni Sessanta, quando lo schiaffo ineluttabile della modernità è arrivato con la Tangenziale: l’opera ciclopica ha scacciato i coloni e s’è impossessata della valle, occupandola con un sistema monumentale di piloni, una città calviniana sospesa nel vuoto, alta più di un palazzo di venti piani.

Sotto i pilastri enormi di questa cattedrale della mobilità ora camminiamo, in mezzo al bosco che nel frattempo è tornato, perché la natura non ammette il vuoto, e lavora ogni giorno, che noi lo vogliamo oppure no. Sulle terre sconvolte cinquant’anni fa dai lavori, trovi ora, in mezzo al silenzio e ai versi degli uccelli, una nuova biodiversità di canneti e lembi nobili di castagneto, frassini e ontani, assieme agli scampoli dell’orto storico che fu, coi ciliegi e le piante di fico che a luoghi formano una lussureggiante foresta. Nel festival della natura che ritorna c’è pure posto per gli ospiti alieni, la robinia e l’ailanto, anche loro fanno il loro lavoro, e non è il caso di formalizzarsi.

Il bello è che in questo paesaggio nuovo e straordinario che s’è creato, totalmente fuori scala, non c’è contraddizione tra il bosco e l’infrastruttura gigante in mezzo al cielo, anzi c’è un ordine improbabile, ai limiti del fantastico, quello delle città future su pianeti lontani disegnate da Alex Raymond, dove Flash Gordon combatte lo spietato imperatore Ming.

Tornando a noi, verrebbe da dire che i trenta ettari del parco- che- non- c’è che stiamo attraversando, in una mattinata dorata e tiepida di fine ottobre, sono una metafora di Napoli e del Paese. Il 2021 passerà alla storia come l’anno nel quale per la prima volta, invertendo una dinamica di tre secoli, la superficie forestale in Italia supera quella agricola. Il bosco torna a occupare le terre abbandonate dagli uomini, non solo in Appennino ma anche in città.

Quello che non abbiamo ancora capito è che questo abbandono va gestito, che il concetto di forestazione è cambiato, non si tratta di piantare alberi, ma di prendersi cura di quelli che ci sono, che sono nati senza chiedere il permesso, e ora hanno bisogno di noi, se non vogliamo che il rischio ambientale del fuoco e delle acque sgovernate aumenti, in mezzo a questo clima impazzito, continuando a danneggiare noi, con le nostre case e le città. Per tutte queste ragioni fa bene il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, con la sua barca di denari, a puntare molto sulla forestazione urbana, anche per intrappolare il troppo carbonio e mitigare la bolla di calore che la città crea e non ci fa vivere bene e respirare, purché si capisca che non è questione di mettere a dimora nuovi alberi, inseguendo la buona azione e la foto sui giornali, ma di prendersi responsabilmente cura delle terre del Paese, di assumersi la responsabilità quotidiana di far vivere e governare luoghi dimenticati come questo, renderli fruibili, riumanizzarli.

Il parco- che- non- c’è, tra il Vomero nuovo e Soccavo, invece c’è, lo si percepisce, lo si scruta, ed è parte di questo paesaggio ibrido tipico della contemporaneità: infrastrutture, natura, urbano. Per questa terra di mezzo il piano regolatore utilizza la definizione di Zona F, inquadrandola, in particolare, nelle sottozone Fa2 “ Aree incolte” e Fa4 “ Aree a verde ornamentale” e Fe “ Strutture pubbliche o di uso pubblico e collettivo”. L’obiettivo di fondo del piano è di tutelare queste aree da nuova edificazione o dall’impermeabilizzazione dei suoli, con il fine futuribile di essere parti un più ampio “Parco territoriale e altre attrezzature e impianti a scala urbana e territoriale”. Tuttavia anche la frammentazione nominale e la complessità normativa non ha aiutato a strutturare visioni e progetti unitari in grado di vincolare, magari costringere, attraverso la perequazione, le diverse proprietà pubbliche, private o miste, a dare concreta attuazione a quanto previsto.

Questa stasi, almeno trentennale, ha lasciato il lembo finale del Vomero sospeso a quei telai in cemento armato su quest’area di pregio. Quasi un limite insuperabile, come il confine di cartapesta del film “ The Truman Show”. È anche vero per che il Piano regolatore generale non poteva tracciare scenari direttamente attuabili.Tuttavia un lavoro urbanisticamente più ficcante è contenuto in un altro piano, sempre elaborato dal Comune di Napoli, il Piano comunale dei trasporti e, in particolare, la parte riguardante la Rete stradale primaria. In quest’ultima, l’allora dirigente del Servizio infrastrutture studi e progettazione, l’architetta Elena Camerlingo, assistita da un ampio gruppo di lavoro interdisciplinare, introdusse delle verifiche di fattibilità, una sorta di progetti- norma che per alcune aree, tra cui questa, definivano (e definiscono, visto che il piano è ancora vigente) i caratteri essenziali di un progetto rigenerativo, sui modelli dell’ecological urbanism americano. Naturalmente anche in quel caso non ci si era inventato nulla. La buona pratica di non sprecare aree di pregio tra e sotto le infrastrutture della mobilità è un elemento essenziale del recupero di suolo, natura, agricoltura, spazio pubblico, in grado di ampliare la visione e la dimensione urbana.

L’Europa opera da tempo in questo senso. Mentre progettava le opere con cui strappò a Napoli facilmente la Coppa America, la città di Valencia aveva già realizzato un parco al di sotto dei viadotti dell’ex fiume Turia, il cui corso è stato addirittura deviato. A Genova, sotto il nuovo viadotto del Polcevera è in corso di realizzazione un nuovo grande parco urbano. A Roma il gruppo di giovani architetti G124, guidati da Renzo Piano, ha elaborato il progetto “ SottoilViadoTTo”, che ha trasformato e riqualificato un’area abbandonata e degradata situata al di sotto del “ Viadotto dei Presidenti”, nel terzo municipio della Capitale. Si tratta di zone spesso molto più complicate di quella di cui stiamo raccontando, eppure la realizzazione di quei progetti (con addirittura la deviazione di un letto di un fiume, come nel caso di Valencia) appare patafisica vista da queste latitudini.

In quest’area sotto il sistema di viadotti, rampe e svincoli della Tangenziale non c’è nulla da stravolgere, bisogna realizzare accessi adeguati a monte e a valle e definire un primo sistema di percorrenze, servizi minimi, illuminazione.

Un primo “fatto urbano” realizzabile in pochi mesi, con parti anche temporanee, in attesa del completamento definitivo, costituito sostanzialmente dal raccordo di alcuni dislivelli e dalla messa in sicurezza di alcune parti. L’esito finale potrà essere, in sintesi, una grande infrastruttura verde, un fantastico parco naturale- artificiale dove già oggi la natura ha preso il sopravvento sui piloni e sulle strade che la sovrastano a un’altezza tale da farli apparire lontani, silenziosi, quasi necessari e compatibili con uno stato di fatto comunque fortemente urbanizzato. Un parco- promenade, che aggancia, finalmente, il Vomero a Soccavo con un sistema di mobilità lenta, con corridoi ecologici e un’armatura verde restituita alla città e connessa con i residui agricoli della zona che ancora sono attivi. Le regole urbanistiche, come si è visto, non mancano e forse è inutile imbastirne di ulteriori, ma il nuovo piano urbanistico potrebbe farsi carico di rendere concrete idee e intuizioni del passato facendone strategie unitarie e in linea con i binomi urbani della contemporaneità: spazio pubblico e salute, infrastrutture e mobilità sostenibile, foreste urbane e climate change, temporaneo e definitivo. Basta partire, basta aprire.

Antonio Di Gennaro, Repubblica Napoli 26 novembre 2021

Finalmente segnali di vita da Bagnoli. Le novità sono diverse. C’è stato innanzitutto il lavoro intelligente della ministra per il Sud e la Coesione territoriale Mara Carfagna, che ha consentito finalmente di ridisegnare la governance per il recupero dell’ex area siderurgica, superando la paralisi completa durata sette anni, prodotta dalla legge “Sblocca-Italia”. Questa, allo sgangherato articolo 33, individuava il dominus assoluto delle operazioni nel soggetto attuatore Invitalia, una tecnostruttura autoreferenziale, anche proprietaria del suoli, affiancata a un commissario del tutto privo di poteri, ordinari o straordinari che fossero, relegato a funzioni coreografiche, di rappresentanza. Il recente decreto del governo Draghi rimuove quest’ambiguità, attribuendo – sono parole della ministra – «responsabilità definite e poteri chiari nelle mani del rappresentante eletto dai cittadini: il sindaco del Comune di Napoli, individuato ex lege come commissario, dotato di una struttura ad hoc di supporto».

Le prime dichiarazioni del sindaco Manfredi-commissario sono state confortanti, improntate a realismo e responsabilità: «Su Bagnoli si sta facendo una ricognizione molto dettagliata sullo stato di avanzamento, la quantificazione dei costi e il grado di copertura. Questo ci consentirà di avere una fotografia concreta e realistica della situazione, che poi condivideremo anche con i cittadini perché è opportuno che su questa vicenda ci sia chiarezza assoluta su quello che si è fatto, dei tempi e dei costi».

L’attenzione è ritornata anche sulle infrastrutture, del tutto assenti nel piano fantasioso predisposto da Invitalia, che pure fu definito nel parere ufficiale del ministero dell’Ambiente, proprio per queste lacune, come un esercizio “puramente virtuale”. Ora il sindaco Manfredi pensa opportunamente di finanziare le infrastrutture con il Piano nazionale di recupero e resilienza, mentre la ministra si è offerta di coprire i costi di progettazione con il Fondo di Sviluppo e Coesione.

La sensazione di un cambio di passo è netta, come anche quella che uno scatto ulteriore sia assolutamente necessario, se davvero vogliamo uscire dalle paludi dell’ultimo settennio. Nelle sue dichiarazioni al parlamento la Carfagna ha sottolineato come il problema sia ora quello delle coperture finanziarie: manca all’appello un miliardo di euro per completare la bonifica, e nessuno sa dove possano andare a finire gli inerti e i fanghi provenienti dalla rimozione della colmata e dal dragaggio dei fondali per la bonifica a mare.

Se questo è vero, siamo ancora nella trappola senza uscita congegnata da Invitalia: quella di una bonifica ideologica, fine a sé stessa, non basata su alcuna seria analisi di rischio, come ha dichiarato nero su bianco l’Istituto superiore di protezione ambientale, bocciando in conferenza dei servizi uno strampalato e costosissimo progetto di bonifica del lotto di quindici ettari adiacente via Bagnoli, che prevedeva uno sbancamento fino a sei metri di profondità, imponendo invece una sobria messa in sicurezza.

È questa la strada, il cambio di paradigma necessario, se proprio vogliamo salvarlo questo pezzo di città: dalla bonifica alla messa in sicurezza, con le tecniche che tutto il mondo usa, sia ingegneristiche che agro-biologiche, sulla base di analisi di rischio rigorose, in tempi rapidi e senza dilapidare importanti risorse pubbliche che potrebbero essere indirizzate su obiettivi più motivati e urgenti.

Evitando assolutamente operazioni spericolate e inutili, come il dragaggio dei fondali, un’operazione sconsiderata che finirebbe per sconquassarlo definitivamente l’ecosistema marino.

Ha ragione il sindaco, il coinvolgimento della città è di fondamentale importanza per ricostruire un legame con i luoghi che s’è completamente perso. Prima del mare e della colmata, ha giustamente affermato, pensiamo a quello che avviene a terra.

Parole sacrosante, e la verità è che la terra non è più pericolo per gli uomini: nel frattempo che le cose a mano a mano si realizzano, non c’è più alcun motivo per non restituire l’area ai napoletani: una mattina d’azzurro, il sindaco che apre alla città il cancello del grande parco provvisorio, con la suggestione assoluta degli alberi ricresciuti in silenzio attorno all’enorme acciaieria rossa. È un esercizio di democrazia del quale la città ha bisogno, per avvertire davvero il senso della ripartenza. Sindaco, ministra, per favore, pensateci.