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Antonio di Gennaro, 23 gennaio 2015

Quale può essere il senso dell’esposizione pubblica del dolore irreparabile; cosa c’è dietro la scelta del parroco di Caivano di pubblicare in rete le foto dei bimbi malati di tumore? E’ difficile dare una risposta. Ci prova Aldo Masullo, nella sua intervista a Repubblica del 22 gennaio. L’ipotesi più plausibile è quella di una forma estrema di denuncia, insieme a una richiesta ultimativa e ineludibile di attenzione. Quei bambini sono presentati come vittime innocenti di un’ingiustizia non tollerabile, di un oltraggio insanabile all’ambiente, del crimine più efferato, l’ecocidio; il fatto che questo possa succedere in un paese che si dice civile, è materia di scandalo. Questo appare il messaggio di quelle foto shockanti, che sono un pugno in faccia, un sasso nella coscienza.

Il fatto è che è pure difficile parlarne, perché ogni ragionamento rischia di apparire irriguardoso dinnanzi al dolore totale, concreto, personificato. Ma il rischio deve essere corso, se l’obiettivo di chi compie la scelta ultima di pubblicizzare il dolore è anche quella di sollecitare una risposta operativa, una soluzione. Ed è qui che le cose si fanno difficili. Perché, prima dei bimbi, c’era stata l’esposizione dei pomodori sull’altare, lo scandalo dei frutti avvelenati di una terra avvelenata, portatori di morte per chi la abita, anziché di ristoro e di energia buona. Ma quest’equazione data per certa, che lega la terra, i prodotti, la salute delle persone, non ha retto i controlli scientifici. I dati epidemiologici, ambientali, agronomici, se vogliamo stare ai fatti, dicono altro.

Ed allora la domanda ritorna: perché affidare al rumore scomposto dei social network il dolore estremo? Se ogni tentativo di distinguere l’inferno da quello che inferno non è, viene respinto come negazionismo. Se l’unico racconto ammissibile è quello della compromissione irrimediabile dell’ambiente di vita. Cosa rimane alla fine? E’ vero, la testimonianza profetica non è tenuta ad indicare soluzioni, ma neanche a negarle, altrimenti è profezia di sventura, che non serve a niente. Ecco allora quello che proprio non convince: il fondare sull’esposizione del dolore un’autorità superiore, che si propone come unica interprete dei territori che soffrono. Irridendo quanti, senza certezze precostituite, in onestà, riconoscendosi come tutti fallibili, si ostina a voler capire, a lavorare a un progetto per quell’hinterland abbandonato dallo Stato, senza servizi, senza assistenza, senza lavoro; periferia d’Italia deprivata delle cose essenziali che occorrono a ciascuno di noi per proteggere, giorno dopo giorno, la propria salute e il proprio futuro.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 24 gennaio 2015 con il titolo “L’esposizione del dolore e le profezie di sventura”

Antonio di Gennaro, 12 gennaio 2014

C’è qualcosa che non va in un paese che ha addirittura bisogno di una sentenza di Cassazione per sapere se un suolo agricolo è coltivabile, se una certa acqua può essere utilizzata o meno per irrigare le colture; un paese nel quale la magistratura è chiamata sistematicamente ad agire come arbitro di ultima istanza, su questioni delle quali, in tutti gli altri posti del mondo, si occupano amministrazioni e servizi tecnici ordinariamente competenti.

Così è avvenuto per i pozzi agricoli sequestrati a Caivano. La Cassazione aveva imposto al Tribunale del Riesame di riconsiderare l’istanza di dissequestro presentata da uno degli agricoltori, in primo tempo rigettata. Il ragionamento alla base della sentenza di Cassazione non fa una grinza: se i prodotti agricoli, come a Caivano, alla fine sono risultati del tutto in regola, il reato di avvelenamento non sussiste, tanto più che gli elementi chimici in eccesso nelle acque irrigue sono naturali, fanno parte del “valore di fondo”: a questo punto, il sequestro cautelativo e le limitazioni imposte alle attività agricole non hanno più alcun fondamento.

Ieri c’è stato il nuovo pronunciamento del Riesame, con un colpo di scena che proprio nessuno poteva prevedere. Come nel Monopoli, si torna tutti alla casella di partenza, perché il Riesame, anziché pronunciarsi nel merito, ha scovato un vizio procedurale nell’originaria ordinanza di sequestro dei pozzi, che invalida tutti i passaggi successivi: il ricorso dell’agricoltore, la prima sentenza del riesame, il pronunciamento della Cassazione. Tutto inutile, abbiamo scherzato, bisogna iniziare daccapo.

Il problema è che, nel frattempo, questi atti ora dichiarati non validi dal Riesame, questi ectoplasmi giuridici, hanno avuto conseguenze maledettamente concrete sull’attività degli imprenditori agricoli, le cui aziende e i cui investimenti sono andati in malora. Tre cicli colturali sono saltati: i fondi sequestrati, da luoghi del lavoro, sono diventati terre di nessuno, spazi vuoti di senso e civiltà.

Cosa succede ora è difficile prevederlo. La cosa più ragionevole sarebbe quella di spazzare via i fantasmi, e tornare alla sostanza delle cose, ripartendo dai criteri di legge, scientificamente fondati, che la Cassazione ha indicato per valutare e dirimere la questione. Dopo mesi di incertezza, sarebbe il modo migliore per proteggere davvero l’interesse dei consumatori, e la reputazione di un’economia agricola che, tra mille difficoltà, tiene ancora viva la grande piana, ai confini della città.

Antonio di Gennaro, 8 gennaio 2015

Poi dici la coerenza: avevo scritto che non me ne sarei interessato più, ed ecco invece un altro pezzo… Il fatto è che ero stato contattato da Servizio Pubblico, insieme a Mario Fusco, per partecipare ad una puntata sul tema (poi rimandata a causa della barbarie criminale che ha travolto i giornalisti di Charlie Hebdo), e volevo riordinare le idee. Naturalmente il punto non è più l’uso che si è fatto dello show di Capodanno al Plebiscito, rispetto al quale ho espresso per tempo le mie perplessità (vedi il post “La finestra di opportunità”, pubblicato da Repubblica lo scorso 15 febbraio con il titolo  “Terra dei Fuochi, 75 milioni buttati”, e anche il più recente “Viva Zapata!“). Qui si parla delle cose che Gigi D’Alessio ha detto, che sono sacrosante, ed allora è utile ragionare sui motivi che possono aver scatenato reazioni contrarie così forti. Adg

 Il povero Gigi D’Alessio non se l’aspettava proprio la gragnuola di reazioni sdegnate e di commenti critici alle sue affermazioni durante lo show di Capodanno. Il problema non riguarda la verità delle cose che il cantante ha detto, che sono sacrosante: migliaia di analisi sui prodotti agricoli della piana campana hanno confermato la loro assoluta qualità e sicurezza. Il problema è che queste affermazioni mettono in crisi lo schema di ragionamento implicito ché sta dietro lo slogan della “Terra dei fuochi”, e che potrebbe essere sintetizzato così: “La pianura tra Napoli e Caserta è stata massicciamente oggetto nel corso di un trentennio di pratiche di sversamento e seppellimento illegale di rifiuti, che hanno causato l’inquinamento generalizzato dei suoli e delle acque. I prodotti agricoli coltivati su questi suoli sono irrimediabilmente avvelenati, e il loro consumo è una delle cause della più elevata incidenza in quest’area di malattie tumorali”. L’espressione “Terra dei fuochi” si è trasformata tecnicamente nel luogo comune che condensa queste diverse affermazioni, collegate tra loro in una catena stringente, auto-evidente di ragionamento, che a questo punto può, anzi deve essere assunta nel suo complesso, senza possibilità di confutazione o smentita, pena il cedimento a forme odiose di negazionismo. In quanto luogo comune di uso corrente, l’espressione “Terra dei fuochi” è entrata addirittura, come neologismo, nel dizionario Treccani.

Il fatto è che questo schema di ragionamento si è rivelato inconsistente, non ha retto la prova dei fatti, i rilevamenti, le misurazioni, il check-up approfondito dell’ecosistema. I dati a nostra disposizione dicono che l’ecosistema della piana campana non è perso per sempre, e soffre degli stessi acciacchi delle pianure europee ad elevato gradi di antropizzazione; che una strada per uscire dalla crisi c’è, e non è quella di inattuabili bonifiche globali, ma la messa in sicurezza delle ferite, già ben individuate da ben due piani regionali e, soprattutto, il governo e la cura quotidiana di un territorio maltrattato.

Quello che i critici di D’Alessio dovrebbero comprendere è che i fenomeni territoriali e sociali sono eventi complessi. La crisi della piana campana lo è in modo particolare. Nessuno di noi possiede le competenze per un’analisi esaustiva e definitiva. Occorre avere l’umiltà e l’intelligenza di ragionare e lavorare insieme.

Quando parliamo della storia e del funzionamento delle organizzazioni criminali l’autorità di Roberto Saviano è fuori discussione. E’ vero però che le conseguenze ecologiche e sanitarie dei fatti criminali, la loro effettiva portata territoriale, non sono meri corollari, un dato sociologico o letterario, teoricamente deducibile a tavolino. Si tratta di cose che vanno verificate, misurate, sapendo che il funzionamento degli ecosistemi è una cosa complessa.

Analizzare sul campo i fatti ecologici non significa per nulla negare i fatti sociali e criminali che sono stati faticosamente accertati. Interpretare correttamente i dati sulla salute degli uomini e degli ecosistemi agricoli della Terra dei fuochi non significa minimamente sminuire, circoscrivere o relativizzare la gravità dei crimini commessi, come anche la necessità impellente di politiche pubbliche adeguate. E’ evidente però che per uscirne fuori, per un progetto di ricostruzione della società e del suo territorio, non c’è bisogno di maledizioni bibliche, di un surplus di terrore. Né di screditare un settore, quello agricolo – e qui D’Alessio ha ragione da vendere – che si è rivelato alla fine, nel caos informe dell’hinterland, l’unica cosa che funziona. Il disastro vero sarebbe se le 38.000 aziende agricole della piana fossero davvero costrette a chiudere. Allora si che avremmo creato un immane deserto economico e sociale, proprio quello che le forze criminali e speculative stanno febbrilmente aspettando.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 21 gennaio 2015 con il titolo “Terra dei Fuochi nella Treccani”