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Paolo Pileri, da http://www.casadellacultura.it
Dopo un intervento su youtube Paolo Pileri torna a ragionare su “Ultime notizie dalla terra”, con una recensione scritta per “Casa della cultura”. Paolo insegna urbanistica al Politecnico di Milano, è la figura di riferimento in Italia per le ricerche sul consumo di suolo, con un lavoro di studio e divulgazione instancabile. Il pezzo che ha scritto è molto bello, mi ha spiazzato e commosso, perché Paolo si è letteralmente immerso nel libro, facendone venire fuori cose ignote pure a me.
Impossibile non innamorarsene. Di cosa? Della Campania o, meglio, degli spazi aperti campani, agricoli e naturali, periurbani o montani, che Antonio di Gennaro racconta nel suo libro dal titolo meraviglioso: Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018, pref. di Ottavio Ragone). Ma è il sottotitolo a darci la misura dell’impegno e della sfida che ci lancia: La Terra dei fuochi: questioni per il paese intero, dove la parola terra è scritta con la “T” maiuscola e la parola paese con la “p” minuscola. Già perché Antonio è indignato. E come tutti gli indignati che si rispettino, è arrabbiatissimo con quanti hanno ceduto alla tentazione della maledetta equazione terra dei fuochi = tutta la Campania. Nelle sue pagine c’è un insieme di storie che si fondono assieme in un’unica storia di territorio e di genti orgogliose della terra su cui hanno i loro piedi.
Se alcuni fatti criminali e mafiosi, cruenti e vergognosi, hanno sporcato la terra campana, si sappia chiaramente che è stato solo un ‘di cui’, perché quella terra è sempre stata ed è densa e ricca di persone, aziende, natura, luoghi, territori, bellezza, bontà, tradizioni che non sono seconde a nessuno. Eppure ‘tutta la Campania’ l’abbiamo spedita in un embargo mai dichiarato di fatto, ma subito dalle aziende agricole e dalla filiera alimentare campana. Per mesi e mesi nelle città del nord abbiamo boicottato i prodotti campani nonostante ci dicessero che erano pulitissimi. E lo abbiamo fatto convinti di fare il giusto, con il sorriso magari, senza farci sfiorare né dal dubbio che stavamo sbagliando, né dal pensiero che stavamo facendo un danno enormemente peggiore di quello ignobile fatto dalla camorra maledetta. Già perché se per dodici mesi nessuno compra mozzarelle, quelle aziende falliscono, quegli agricoltori sono sul lastrico, i giovani perdono lavoro. E se falliscono chi se le compra le aziende con le loro terre? Il nostro embargo diviene una sorta di favore alla criminalità che vuol far fallire ciò che di buono c’è sui territori per poi appropriarsene.
Quindi quell’inversione di maiuscole io non la biasimo, ma la capisco e mi ha aperto gli occhi. L’ho trovata perfetta per ricordare quanto fragile sia la solidarietà nel nostro Paese e mia. E Antonio con questo libro coraggioso e appassionato non si sottrae alla fatica di voler mettere le cose a posto. Ci lancia un salvagente, forse l’ultimo come scrive nel titolo, per toglierci i pregiudizi dagli occhi. Lo fa portandoci a spasso per decine e decine di realtà locali. Con lui scopriamo i ritratti straordinari di donne, uomini, giovani, vecchi che in Campania hanno dato vita a formidabili aziende agricole dove la produzione non è mai, e sottolineo mai, indifferente ai luoghi, alla terra, ai paesaggi anche se si tratta di paesaggi tra i più arditi d’Italia come le limonaie sulla costiera amalfitana o i vigneti del Cilento o gli oliveti a Posillipo. Vi giuro che se leggete questo libro vi si apre davanti agli occhi un racconto di territorio che vi lascerà senza parole. Leggi e vedi vibrare un territorio. Ci entri dentro. Senti i passi. I profumi. Vedi le ginestre a Camaldoli. Senti il profumo dell’olio e la mozzarella di bufala Stella Bianca di Casal di Principe che conoscevi solo per essere paese di camorra. Senti su di te lo spirito potente del paesaggio di Casale di Teverolaccio, di Massa Lubrense, del Formicoso, di San Giorgio La Molara, della Riviera di Chiaia, di Capodimonte, di Miradois, di Napoli.
La Campania è tanta biodiversità umana, agricola e naturale. Ed è impossibile non dire: “ma cosa mi sono perso in questi anni?”. In queste pagine capisci che un’albicocca in Campania non è mai solo un’albicocca. Perché Antonio riesce a dirci che dietro ogni singola azienda agricola che lui ci presenta c’è una storia di amore, rispetto e cura per il paesaggio. Non solo: è amore consapevole e voluto. Tutti i protagonisti del libro fanno quel che fanno, perché lo vogliono fare. E così impariamo che curare il suolo e produrre un buon olio sono cose inseparabili e fatte di proposito. Tutelare il paesaggio e ottenere un’ottima falanghina sono la stessa cosa e fatto con proposito. Che dietro un’ottima mozzarella di bufala ci sono, di proposito, i prati verdi della Campania. Che una pasta come si deve, biologica e senza trattamenti all’origine, è stata ottenuta perché, di proposito, si è deciso di migliorare la fertilità dei suoli. Che la cacioricotta ha alle spalle dei giovani che hanno deciso di rimanere di proposito a fare i pastori. Capite?
Di proposito migliaia di persone ogni giorno tengono in vita un paesaggio che noi non vediamo e che in un nanosecondo ci permettiamo di obliterare prendendo una parte e facendone il tutto. Ognuno di noi, con le sue scelte vuoi alimentari, vuoi turistiche, vuoi culturali può tenere in vita i migliori paesaggi in Italia. Può donare resistenza a quei paesaggi. Se vuole. Ognuno di noi è parte di un progetto di territorio, se vuole. Possiamo essere anche noi, di proposito, energia che dà energia a chi resiste e tiene vivi e vegeti i migliori e più difficili paesaggi italiani. Pochi libri riescono a raccontarti con tale coinvolgimento il paesaggio.
Antonio però non è solo innamorato della nostra Campania (perché la Campania non è solo dei campani, come la Lombardia non solo dei lombardi), ma è anche competente (è un agronomo) di una competenza che ha deciso di non tenere per sé, ma di trasformare in conoscenza per tutti noi. Non solo, Antonio è animato dal fuoco sacro del riscatto della sua Terra (con la T maiuscola). È un patriota. Secondo me è proprio questo, un patriota del contemporaneo. Antonio ha macinato chilometri a piedi, in auto, in elicottero per dirci che la Campania è innanzitutto un’altra cosa. Che la Campania è un crocevia di progetti di territorio unici e belli e che quei progetti di territorio sono l’argine migliore alla criminalità. Che l’urbanistica che ha sventrato le campagne ha avuto vita facile ogni volta che ci siamo dimenticati del valore del suolo e di chi lo lavora. Se dimentichiamo il suolo, lasciamo spazio al peggio. Capita davanti a casa nostra, ma capita anche lontano dalle nostre finestre. Perché il progetto di territorio non è un fatto esclusivo di una comunità amministrativa, ma di un sistema di relazioni complesso e non sempre riconoscibile che si riconosce in una patria i cui confini sono sempre meno amministrativi e sempre più di buon senso, di questioni, di sfide, di valori. I valori di Riccardo, Vittoria, Fabrizio, Mariachiara, Peppino, Mario sono i valori di tutti noi. Gli stessi. E dobbiamo capirlo. Il loro progetto di territorio non può non essere anche il nostro. L’avido individualismo che è stato, ed è, la cifra dell’umore di questo presente ci ha reso egoisti e l’egoismo, in realtà, ci rende ciechi della bellezza che sta dietro un muro di pregiudizi di cui ci convinciamo tropo facilmente. A Capodimonte, la foresta reale è stata aperta a tutti proprio abbattendo un muro e oggi i ragazzini di quei quartieri disagiati hanno prati su cui correre e giocare a pallone. Quella foresta, aperta, è il riscatto sociale di una comunità come può esserlo un nuovo posto di lavoro in una delle aziende agricole che Antonio ci fa visitare.
Eppure siamo ancor tentati di immaginare che tutta la Campania sia terra dei fuochi e, con facilità, giriamo la testa altrove. Peccato perché potremmo scoprire che sono solo una trentina gli ettari da interdire alla coltivazione a causa dei contaminanti da rifiuti mafiosi contro i cinquantamila monitorati (p. 131). E noi per trenta ettari, lo 0,06%, abbandoniamo tutto? Lasciamo tutto alla criminalità? L’antimafia la facciamo tutti assieme, conoscendo come vanno le cose per davvero. La famosa lotta italica per proteggere il suolo e il paesaggio, che Luigi Einaudi nel 1951 chiedeva agli italiani di fare perché era proprio la lotta più dura e necessaria, non la stiamo facendo ancora. Anzi consumiamo suolo con mille trucchi e offendiamo la buona terra che abbiamo inquinandola con indifferenza e boicottaggi. Ci permettiamo di girarci dall’altra parte abdicando al nostro ruolo di alfieri del territorio.
Con questo libro possiamo raccogliere da terra l’atto d’amore e riscatto che Antonio dà a tutti noi e, giustamente, capire che è una questione che ci riguarda. Riguarda tutti noi. Se non ce ne interessiamo ci troveremo per sempre in un paese con la “p” minuscola. Davvero è l’ultima notizia dalla terra: dopo non ce ne saranno più perché le forze verranno meno. A tutti noi decidere di tornare protagonisti della buona sorte di tanti territori del nostro bel Paese: non dimenticandoli mai, mettiamo gli occhi oltre la cortina della menzogna e dell’indifferenza per capire che i territori sono abitati da storie fantastiche e sono queste a fare da argine al peggio. E abitati devono rimanere. Ognuno di noi può essere motore di fragilità e di scoraggiamento altrui o, al contrario, di forza e incoraggiamento per gli altri. A Noi la scelta.
Grazie Antonio della tua ultima notizia dalla terra. La buona terra.
Paolo Pileri
N.d.C. – Paolo Pileri, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, è tra gli ideatori e animatori del progetto VENTO: il progetto di dorsale una cicloturistica tra Venezia e Torino considerata parte integrante del sistema nazionale della ciclabilità turistica, ma che soprattutto è progetto di territorio (www.cicloviavento.it). Cura la rubrica ‘Piano Terra’ della rivista “Altreconomia”.
Tra i suoi libri: Interpretare l’ambiente (Alinea, 2002); Compensazione ecologica preventiva (Carocci, 2007); con E. Granata, Amor loci: suolo, ambiente, cultura civile (Cortina, 2012); con A. Giacomel e D. Giudici, Vento: la rivoluzione leggera a colpi di pedale e paesaggio (Corraini, 2015); Che cosa c’è sotto: il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo (Altreconomia, 2015 e 2016); 100 parole per salvare il suolo (Altreconomia, 2018); con A. Giacomel, D. Giudici, R. Moscarelli, C. Munno e F. Bianchi, Ciclabili e cammini per narrare territori. Arte design e bellezza dilatano il progetto di infrastrutture leggere (Ediciclo 2018); Progettare la lentezza. Linee antifragili per rigenerare l’Italia a piedi e in bici (People, 2020); con R. Moscarelli editors, Cycling & Walking for Regional Development. How slowness regenerates marginal areas, (Springer, 2020)
Per Città Bene Comune ha scritto: Laudato si’: una sfida (anche) per l’urbanistica (2 dicembre 2015); Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio 2017); La finanza etica fa bene anche alle città (3 novembre 2017); L’urbanistica deve parlare a tutti (21 settembre 2018); Udite, udite: gli alberi salvano le città! (9 novembre 2018); Contrastare il fascismo con l’urbanistica (21 marzo 2019); L’ossessione di difendere il suolo (e non solo) (25 ottobre 2019); Per fare politica si deve conoscere la natura (31 gennaio 2020).
Sui libri di Paolo Pileri, v.: Bernardo De Bernardinis, Per una nuova cultura del suolo (28 ottobre 2016); Roberto Balzani, Suolo bene comune? Lo sia anche il linguaggio (12 ottobre 2018).
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 24 novembre 2018
Ci sono molte buone ragioni per leggere l’ultimo libro che Francesco Erbani ha dedicato a Venezia (Non è triste Venezia. Pietre, acqua, persone. Reportage narrativo da una città che deve ricominciare, Manni Editori, 230 pp.), alcune delle quali ci riguardano piuttosto da vicino. Intanto, il libro di Erbani è il racconto di cosa succede quando una città – e quale città – smette di essere tale, il luogo della vita vissuta, dei mille lavori, mestieri, relazioni, per diventare qualcos’altro, un luogo il cui significato prescinde ormai dal destino dei suoi abitanti.
Oggi infatti nei millesettecento ettari di città lagunare vivono poco più di cinquantamila residenti, erano centosettantamila nel 1951, il crollo è stato del 70%, così Venezia s’è drammaticamente spopolata, come un borgo appenninico, con le morti che ora superano le nascite nel rapporto di 3 a 1, e il ricambio che non c’è, perché le case che si liberano finiscono inesorabilmente nel giro più lucroso dei fitti turistici a breve termine, gestito da piattaforme globali tipo Airbnb. Resta una città di superstiti, sempre più anziani, in quartieri dove la diversità dei commerci, dei mestieri e dei servizi si spegne, cede il posto alla monocoltura dei souvenir e del cibo veloce per i turisti.
Eppure, osserva Erbani, la trasformazione di Venezia da città storica a parco a tema per il turismo globale, un processo che nessuna politica pubblica si è preoccupata di governare, né tantomeno mitigare, riguarda quella che, secondo Le Corbusier, era la città ideale, l’ecosistema urbano più sostenibile, proprio perché conscio dei suoi limiti, dei delicati equilibri di terra e acqua che sono alla base della sua esistenza; una città dove il pedone è padrone assoluto degli spazi – i campi, i ponti, le calli; che dispone addirittura, nei canali, di una rete specializzata per i trasporti, con l’energia del remo che, fino non molti decenni fa, come ricorda Eddy Salzano, il grande urbanista al quale è dedicato l’ultimo capitolo del libro, scandiva ancora con efficienza tempi e ritmi delle attività umane.
Ad ogni modo la grande mutazione è un fenomeno complesso, a più dimensioni; i pezzi di conoscenza necessari a comprendere sono ancora frammentari, sfuggenti, ed è per questo che il libro è soprattutto una grande inchiesta, un’indagine sul campo, con Erbani – la figura imponente chiusa nel paltò – che come Maigret percorre ostinatamente la città, incontra e interroga luoghi, testimoni e protagonisti: chi l’ecosistema Venezia l’ha studiato e chi l’ha amministrato; chi ancora ci vive e ci lavora; chi asseconda il vento, e chi invece resiste, nell’idea che le ragioni del vivere e dell’abitare possano ancora guidare le scelte d’uso e la destinazione degli spazi, al di là dei diktat sbrigativi dell’industria turistica e dei grandi investitori ed eventi internazionali.
In tutto questo, il fascino del libro sta anche nel fatto che l’autore, mentre costruisce il dossier più esauriente sullo stato e i possibili destini della città lagunare, ricco di dati, fatti e preziose ricostruzioni, ci regala anche il racconto intenso del suo viaggio, un diario di momenti, immagini, situazioni che alla fine sono parte viva ed essenziale di questo percorso personale di conoscenza.
Sui temi del libro, è intanto nata sulle pagine nazionali di Repubblica una discussione accesa, con gli interventi dell’urbanista Pier Luigi Cervellati e dell’economista della cultura Alessandro Leon a sostenere le ragioni di una strategia pubblica in grado di imporsi alla monocultura turistica; e dell’ex sindaco Cacciari che invita invece a non demonizzare questi processi, visti come un’evoluzione ineluttabile, forse necessaria.
E’ un dibattito cruciale, che non risparmia la nostra città, che negli ultimi anni sta vivendo, per ora in limitate parti del suo centro storico, che complessivamente è esteso proprio quanto Venezia, dinamiche assolutamente spontanee assai simili a quelle raccontate nel libro di Erbani, seppur allo stato embrionale, e la domanda è quanto la vitalità e gli equilibri di queste aree siano in prospettiva minacciati dallo svuotamento progressivo di abitanti, la loro sostituzione con city users di diverso tipo, l’omologazione turistica dei commerci e dei servizi.
Insomma, il libro di Erbani riguarda anche Napoli, oltre che l’Italia, perché quella di Venezia e dei centri storici è questione nazionale, decisiva per il destino del Bel Paese, e il viaggio che Francesco sta compiendo per noi – nel quale questa di Venezia è solo l’ultima tappa dopo Roma, l’Aquila, Pompei, i reportage de l’Italia maltrattata – sta producendo la riflessione più seria e avvertita della quale disponiamo.
Francesca Santagata ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una riflessione – recensione piena di affetto e intelligenza del librino “La Terra ferita”. Eccola.
“Suggerisco la lettura di questo libricino nel quale Antonio di Gennaro, con i suoi abituali modi semplici e pacati e la sua competenza, fa una cronistoria dei fatti accaduti dal settembre 2013 al giugno 2015, intorno a quello che è ormai definito con l’espressione Terra dei Fuochi.
La tristezza nel finire questo libro è l’evidenza che attorno a questo “vissuto collettivo” non si sia riusciti a coagulare nessun progetto nessun riscatto. parlavo con Antonio di questa mia impressione e lui mi ha raccontato di aver ascoltato Petrini (Slow Food) raccontare che dallo scandalo del vino al metanolo, che rischiò di compromettere nel 1986 in modo definitivo la produzione enologica delle Langhe, un intero territorio ha superato il clima di sospetti e di diffidenze, riuscendo compatto a sprigionare nuove energie e a dare una forza maggiore a quel comparto e a quella terra.
Ecco noi qui non sappiamo far questo.. non impariamo dagli errori ma semplicemente li accantoniamo, facciamo finta che non esistano..
così facendo purtroppo invece questi logorano e distruggono se possibile ancora di più…
Leggere anche per capire, per non dimenticare e per forse riuscire a fare…“
E’ in uscita per le edizioni Clean “La terra ferita”, il libricino nel quale ho raccolto tutte le cose scritte in questi due anni sull’agricoltura e il territorio della Piana campana, cucendole insieme, e inserendole in una riflessione generale su quanto è accaduto. Un modo di mettere ordine nei pensieri, nelle cose che faticosamente abbiamo appreso, lavorando sul campo. La recensione di Francesco Erbani di “La terra ferita” è comparsa sulle pagine nazionali di Repubblica il 4 ottobre scorso ed è consultabile qui.
Martedì 22 Settembre ore 18:00 – la Feltrinelli, via Santa Caterina a Chiaia 23
Presentazione del libro
“Pompei, Italia”
di Francesco Erbani
Intervengono con l’Autore: Antonio Di Gennaro, Fabrizio Pesando, Ottavio Ragone
“Pompei crolla”, “Pompei inaccessibile e transennata”, “Pompei ingovernabile”. Titoli di cronaca, ogni giorno che passa sempre meno sorprendenti. Dietro questi titoli c’è una storia millenaria di arte, distruzione e archeologia. Ci sono secoli di scoperte, visite, fascino e leggende. Ci sono decenni di convivenza con un territorio sempre più urbano e sempre più degradato, con una popolazione di cui sono cresciuti sia i numeri sia i problemi, con uno Stato che ne ha fatte un po’ di tutti i colori.
Raccontare Pompei, come fa Francesco Erbani in questo libro, è meritorio di per sé, perché illumina un luogo in cui si giocano alcuni temi fondamentali del passato, del presente e del futuro dell’Italia: la gestione dei beni culturali tra emergenza e manutenzione, l’uso e l’abuso del territorio in un paese che ha la più alta densità di bellezza del mondo, l’importanza del turismo come volano economico e il rischio che lo stesso turismo distrugga invece di costruire. E così via.
Ma raccontare Pompei, oggi, significa anche farsi rapire dalla forza delle metafore e delle allegorie, perché la città distrutta e sepolta dal Vesuvio diventa ben presto in questo libro di Erbani l’Italia intera: i problemi e le soluzioni tentate, i disastri accidentali e quelli colpevoli, il folto cast di personaggi che popola la scena (commissari e camorristi, archeologi e vescovi, artigiani e disoccupati) rimandano a un microcosmo che rispecchia perfettamente il macrocosmo italiano.
Anche per questo, raccontare Pompei è necessario.
Pompei è una metafora della condizione generale del nostro patrimonio storico, di un atteggiamento politico, culturale e finanche antropologico fondato sulle emergenze; dei rapporti fra l’Italia e il resto del mondo e in particolare con l’Europa; della dialettica fra la Grande Opera e la manutenzione puntuale, fra intervento pubblico e privato, fra conservazione e fruizione. Pompei è una metafora dello stato del nostro paese. (dal sito della Feltrinelli Editore)
Tempofertile è il blog di Alessandro Visalli, che così condivide in rete la sua biblioteca di scienze sociali e i suoi appunti di lettura. Buon cibo per la mente, per “aprire il proprio pensiero al mondo…”.
http://tempofertile.blogspot.it
(Immagine tratta da bioenergyitalyblog.it)
La periferia di Napoli, luogo in gran parte inesplorato, è questa volta protagonista di un volume di Gianni Fiorito, di mestiere fotoreporter, intitolato “Terra Buona- Ponticelli, il paesaggio e la memoria” e accompagnato dai testi di Luca Rossomando, che narra senza stilemi e abbellimenti di una quotidianità popolare, alla ricerca di tracce che raccontino del passato agricolo di Ponticelli e l’ incedere del presente industriale. Così le fotografie si fanno a strati, ad anonimi casermoni si intervallano terriccio e distese di verde; serre e natura dividono l’ inquadratura con orizzonti fatti di case. Passato e presente non solo si allineano, ma si sovrappongono. Ecco allora che la terra si fa buona, perchè è terra dove si lavora, sbocciano peschi a ridosso di palazzi e i campi di papaveri fanno da contraltare a sgraziate residenze operaie. Terra buona che semina e produce associazionismo. Lo stesso ritratto nelle marce ambientali, nei murales che dicono della vita dei ragazzi di una periferia che stenta a trovare un propria identità, ma che conserva valori buoni, di una volta, e coscienza civile. Quella di cui parla anche Rossomando nei racconti-interviste: sette testimonianze che comunicano parallelamente con i segni visivi. I passanti, catturati con foto che sembrano rubate, emergono come presenze indistinte di un’ affamata pampa napoletana, che tutto inghiotte, tranne le ciminiere. D’ altro canto è questo il merito maggiore del volume, cercare se non la bellezza ovunque, almeno l’ interessante, perchè è proprio come osservò Pasolini, che «quello che va difeso è questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare»
Giuliana Calomino, Il passato e il presente di Ponticelli ‘terra buona’ della coscienza civile,
Repubblica Napoli, 15 giugno 2013
Gianni Fiorito e Luca Rossomando, “Terra Buona- Ponticelli, il paesaggio e la memoria”, 44 edizioni”
Disegno di OTTOEFFE per Napoli Monitor
“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire
fu come le nevi…”
“No, i fuochi di un tempo
non trovano pace…”
“La cenere al vento
riscopre la brace…”
“Una cosa il giudizio…”
“Un’altra la pietà…”
“Lottare per la morte…”
“O per la libertà …”
“L’unica dignità
della nostra storia
è la memoria
della verità …”
“Alla vecchia e alla nuova
Resistenza italiana…”
“Contro l’odio che odia…”
“Per l’amore che ama…”
“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire
fu come le nevi…”
Gianni D’Elia, Trovatori, Einaudi, 2007.
Prosegue con l’ultimo libro di Vezio De Lucia “Nella città dolente”, uscito per le edizioni Castelvecchi, il racconto del paese e dell’Italia repubblicana iniziato con Se questa e una città. La storia si arricchisce di nuovi capitoli e spunti di riflessione, e trova ora una sua compiutezza, non foss’altro per il fatto che l’eclissi del governo del territorio in Italia ha conosciuto nel 2008, con il “Piano casa” e lo scempio de l’Aquila, il suo esito per così dire ultimativo. Questo rende possibile un bilancio di un’intera fase storica – il trentennio lungo del liberismo e della deregulation – ed obbliga anche l’autore, con Brecht (“sulla mia tomba vorrei fosse scritto: “Fece delle proposte”), ad avanzare le sue idee per il rilancio su nuove basi della pianificazione pubblica della città e dei paesaggi di questo martoriato paese.
Il libro inizia onorando la memoria di uno strano “democristiano giacobino”, Fiorentino Sullo, ministro ai lavori pubblici nei primi anni ’60, e del suo tentativo fallito di dare al paese una legge sul regime giuridico dei suoli, che allineasse l’Italia alle migliori esperienze europee, recidendo il nesso perverso tra trasformazione urbana e rendita fondiaria. L’insurrezione dei conservatori, dai fascisti ai liberali, che strumentalmente accusarono Sullo di “voler abolire la proprietà edilizia privata e togliere la casa agli italiani”, costrinse la DC a disconoscere il disegno di legge, con il politico irpino che scontò una spietata damnatio memoriae, mentre il generale De Lorenzo addirittura architettava il suo tentativo di colpo di stato.
Da allora, il libro racconta la lunga rincorsa a quella riforma mancata, che i governi successivi affrontarono mai più in chiave complessiva, strategica. Il paese rimase privo di una legislazione organica di attuazione dei principi costituzionali di regolazione della proprietà fondiaria, per assicurarne la funzione sociale, come avviene nelle democrazie liberali europee, nei paesi normali insomma. Nel frattempo, l’assegnazione progressiva ai poteri locali della materia urbanistica, generava a scala nazionale un mosaico differenziato di esperienze ed esiti, con il Mezzogiorno a fare da desolata retroguardia, tra abusivismo e usi criminali del territorio.
De Lucia racconta tutte queste cose, in un libro che si legge come un romanzo, e che deve l’acqua della vita alle competenze e al rigore dell’autore, ma anche al suo ruolo di testimone, spesso di protagonista dei fatti raccontati, in una narrazione sospesa tra storia civile, cronaca e vita vissuta. Non sottraendosi nemmeno ad un giudizio sugli avvenimenti più recenti, quali ad esempio i nuovi governi comunali di Milano e Napoli, che per De Lucia rischiano di rappresentare un’occasione persa, per l’incapacità (o la mancata volontà) di porre l’urbanistica al centro dell’azione riformatrice, ripiegando invece su atteggiamenti inerziali, tattici.
Il finale del volume è dedicato alle proposte. Se vogliamo salvare quel che rimane della straordinaria eredità del paesaggio italiano, è urgente per De Lucia mettere mano a una legislazione sul consumo dei suoli. Nel far west attuale, infatti, l’Italia continua a consumare 35.000 ettari di suolo fertile ogni anno – l’equivalente di quattro nuove città come Napoli – per i tre quarti concentrati nelle poche pianure pregiate del paese. La soluzione sta nell’assegnare al territorio rurale residuo la stessa importanza che in Italia, a partire dagli anni ’60, è stata attribuita ai centri storici, riservando le nuove edificazioni alle aree già urbanizzate, degradate, dismesse, legando così indissolubilmente rinnovamento urbano e riqualificazione. E’ una strada praticabile, come dimostra il piano territoriale della provincia di Caserta, approvato nel 2012, del quale De Lucia è stato coordinatore.
E’ una questione di sopravvivenza, perché la democrazia italiana resterà perennemente incompiuta, senza un territorio in ordine. “Nella città dolente” è un contributo avvincente ed autorevole, un gesto concreto per restituire al paese una capacità di governo, per una nuova urbanistica, che per De Lucia continua ad essere la prosecuzione della politica con altri mezzi.
L’articolo è stato pubblicato da Repubblica Napoli del 24 aprile 2013, con il titolo:” De Lucia, la salvezza è nell’uso del suolo”.
Un disegno di Botticelli per l’edizione della Divina Commedia del 1481.
Quando sfoglio Napoli Monitor provo le stesse sensazioni di quando ero ragazzino con il Linus di Oreste del Buono: una miscela densa di parole, disegni, intelligenza, impressi su carta buona e pesante.
Napoli Monitor è un giornale “di inchieste, cronache, reportage e disegni che una volta al mese racconta i fatti di Napoli e delle altre città italiane, e le storie dal mondo. Dopo due numeri zero nel 2006, esce con regolarità in edizione cartacea dal gennaio 2007. In occasione del numero 50 la rivista è diventata bimestrale. Il sito di informazione www.napolimonitor.it è aggiornato quotidianamente dal settembre 2010. La redazione è nei Quartieri Spagnoli a Napoli, in via Concordia 72. È un giornale indipendente, le sue fonti di finanziamento sono le vendite, gli abbonamenti, la pubblicità e i contributi dei sostenitori. “
Traina l’impresa Luca Rossomando, giornalista di razza, col suo stile apparentemente distaccato, che copre volontà, passione e concretezza ferree. Luca ha pensato il giornale anche come scuola, come laboratorio per imparare il mestiere di reporter, fotografo, illustratore. Intorno a lui sta crescendo tutto un gruppo di giovani professionisti dell’informazione critica.
Il loro modo di lavorare lo raccontano così: “Per chi dispone di pochi mezzi, il modo migliore per raccontare una storia è quello di fidarsi dei propri sensi: andare a vedere con i propri occhi, ascoltare con le proprie orecchie, toccare con mano. Non ci interessa stabilire una definizione di reportage. Per noi è quella cosa a metà tra giornalismo e letteratura che ci consente di descrivere la realtà con sufficiente libertà e ci chiede in cambio senso di responsabilità, precisione e profondità.”
Con Napoli Monitor, Napoli è una città un po’ migliore.
P.s. Ho visto sul sito che è possibile acquistare la collezione completa del giornale al costo di 50 euro. Devo averla subito.
Disegno dall’archivio di Napoli Monitor
… Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso di un cavallo, pertugio di un tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.
Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città.
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