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Antonio di Gennaro, 22 marzo 2014
La pubblicazione del rapporto governativo sulla Terra dei fuochi ha innescato, come era prevedibile, un acceso dibattito. Roberto Saviano, in un lungo articolo comparso lo scorso 20 marzo sull’edizione nazionale di Repubblica, ha illustrato i motivi per i quali il rapporto non costituirebbe a suo avviso una risposta adeguata all’emergenza. Il documento, secondo l’autore di “Gomorra”, tenderebbe alla fine a minimizzare la portata dei danni all’ambiente e alla salute; a ridimensionare in qualche modo l’importanza delle denunce e delle indagini sui traffici criminali di rifiuti speciali; a limitare conseguentemente l’entità degli interventi di bonifica che sarà necessario predisporre. A Saviano ha risposto, sempre su Repubblica, il ministro all’agricoltura Martina, difendendo la correttezza del rapporto, ed annunciando tra le altre cose l’estensione delle indagini ai siti ancora coperti da segreto istruttorio.
Uno degli aspetti maggiormente contestati del rapporto è la superficie delle aree sospette: nel complesso si tratta di 2.100 ettari, dei quali 920 ad uso agricolo, che rappresentano, come da più parti enfatizzato, il 2% circa del territorio investigato (108.000 ettari). Al di là delle semplificazioni, della contrapposizione priva di senso tra “apocalittici” e “integrati”, resta da stabilire in base a quale scala di valutazione sia possibile stabilire se 2.100 ettari siano da considerare pochi oppure molti. La verità è che si tratta di una superficie pari a 10 volte quella della bonifica di Bagnoli, che pure non riusciamo ancora ad affrontare: un dato drammatico, da far tremare le vene e i polsi, che è veramente difficile minimizzare; una stima che non si presta a sostenere alcuna consolatoria rilettura del trentennio di illegalità e di sfascio territoriale che abbiamo alle spalle.
Quello che si può dire, a prescindere dalle perplessità sul decreto “Terra dei fuochi” evidenziate nei precedenti interventi su questo giornale, è che alla fine i dati e gli approcci utilizzati per la stesura del rapporto governativo, devono essere considerati adeguati, alla luce degli obiettivi posti dalla legge (la caratterizzazione delle sole aree agricole), e del tempo limitato (60 giorni) che gli esperti hanno avuto a disposizione. La maglia di dati geochimici sulla qualità dei suoli che è stata impiegata è infatti estremamente dettagliata, con circa 2.500 punti di campionamento, ed anche l’identificazione dei movimenti di terra, gli scavi e le ricoperture sospetti, è stata condotta con rigore, attraverso l’analisi sistematica delle immagini aree relative all’ultimo ventennio.
Insomma, il rapporto governativo propone una misura fondata, per nulla edulcorata o “orientata” dei problemi, che certo potrà ancora essere migliorata nelle fasi successive del lavoro. Già così, rimettere le cose a posto sarà dura, e fa bene Saviano ad affermare che siamo solo all’inizio. La procedura indicata dal decreto prevede che, entro il termine di 90 giorni, sia condotta una valutazione sito-specifica del rischio sui 920 ettari agricoli, compresi i 64 ettari già sottoposti a blocco precauzionale della vendita dei prodotti, effettuando i necessari sondaggi, analizzando le produzioni agricole e il contenuto biodisponibile nel suolo dei potenziali contaminanti. In questa stessa fase, raccogliendo la sollecitazione di Saviano, meglio sarebbe estendere le indagini a tutte le aree agricole – altri 400 ettari circa – ricadenti nelle “aree vaste” del Piano regionale di bonifica, cioè nell’intorno delle grandi discariche, anticipando ciò che il rapporto governativo in verità pure prevede.
Dopo di che bisognerà definire il programma di interventi, e qui è condivisibile la posizione di esperti come Benedetto De Vivo, che proprio in considerazione dell’ampia superficie interessata, invitano pragmaticamente a privilegiare, sull’esempio delle migliori esperienze internazionali, obiettivi realistici di “messa in sicurezza” dei siti, piuttosto che di bonifica tout curt, disponendo caso per caso gli usi del suolo compatibili con il livello di contaminazione, risanando i suoli agricoli con tecniche di fitodepurazione e l’impianto di specie forestali. Si tratta di approcci a costo relativamente basso, cui il rapporto governativo fa espresso riferimento, che hanno anche il vantaggio di ridurre i livelli di rischio, evitando che una bonifica senza fine si trasformi in un lucroso affare per le stesse forze malate responsabili del disastro.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 25 marzo 2014 con il titolo “Le dieci Bagnoli della Terra dei fuochi”.
Sono gli inviti del conte zio al padre provinciale, ed è un po’ quello che dice Roberto Saviano, nel suo lungo articolo di oggi su Repubblica, del rapporto governativo sulla “Terra dei fuochi”, che avrebbe il solo obiettivo di minimizzare i problemi. In realtà gli appunti mossi sono più forti: sin dal titolo, e fino alla citazione finale che chiude l’articolo, la parola chiave è “menzogna”. L’altro concetto utilizzato è quello di “falsificazione”, con la citazione del polacco Mrozek sul “presente falsificato”, che condanna ad un futuro malato.
Il problema è capire qual è il corpo di fatti, la verità accertata che sarebbe stata minimizzata, negata, falsificata dalla menzogna.
Non ho condiviso sin dall’inizio l’impostazione del decreto “Terra dei fuochi”. Queste non sono cose che si affrontano con provvedimenti emergenziali e commissariamenti più o meno camuffati. Però so che il rapporto governativo è stato redatto con onestà e con proprietà di approcci, mezzi e strumenti. Il suo torto è quello di fornire una prima misura del problema, che è preoccupante. Due chilometri quadri di territorio da porre sotto osservazione sono una superficie ragguardevole, equivalgono a un quinto della città di Napoli, dieci volte la bonifica di Bagnoli, che pure è frutto di un secolo di siderurgia. E’ un dato che è impossibile minimizzare, prenderlo sul serio non significa cedere al “negazionismo”.
Non bisogna dimenticare una cosa. L’obiettivo del decreto era circoscritto all’identificazione delle aree agricole interessate dalla contaminazione da rifiuti. Ed è questo il lavoro che gli esperti hanno fatto, mettendo in campo i migliori strumenti e conoscenze che avevano a disposizione. Per inciso, i prodotti agricoli della piana campana sono ora i più controllati d’Italia, e sino ad ora non si è evidenziato alcun problema di sicurezza. E’ difficile affermare che la via critica che minaccia la salute sia legata al consumo delle produzioni locali. Nonostante tutti gli oltraggi, gli errori e le infedeltà, il presidio agricolo è l’elemento del sistema che sembra aver retto meglio, e questo dovrebbe essere un dato confortante, dal quale ripartire.
Ci sarà tempo ancora per ragionare su questi argomenti, in modo laico, dati alla mano, senza sentenze preventive. Su un punto Saviano ha ragione, siamo solo all’inizio, il percorso di conoscenza, per il restauro dell’ecosistema, del paesaggio e del territorio massacrato della piana campana è appena cominciato.
Vedi anche le riflessioni di Massimo Fagnano sulla sua pagina facebook
Antonio di Gennaro, 11 marzo 2014
Sono circa 920 gli ettari della pianura campana a rischio, le aree agricole sulle quali si dovrà indagare per accertare eventuali contaminazioni da rifiuti. E’ questo il dato ufficiale fornito ieri a Roma, nel corso della conferenza stampa congiunta, con la quale i tre ministri Lorenzin (sanità), Martina (agricoltura) e Galletti (ambiente) hanno presentato, con il presidente della Regione Campania Caldoro, il rapporto della commissione di esperti insediata lo scorso dicembre col decreto “Terra dei fuochi”. I responsabili dei tre dicasteri hanno nell’occasione sottoscritto un decreto interministeriale, che dispone per queste aree l’effettuazione di indagini dettagliate sui prodotti agricoli, i suoli e le falde, da completarsi entro 90 giorni. Le analisi accerteranno l’eventuale necessità di adottare misure di contenimento del rischio, che potrebbero andare dal restringimento della gamma delle colture praticabili, optando per quelle a minore capacità di assorbimento/traslocazione dei potenziali contaminanti; alla fitodepurazione con colture non alimentari; sino alle tecniche tradizionali di bonifica (soil washing ecc.) per i siti a più elevata contaminazione. Ad ogni modo, lo screening effettuato dalla commissione di esperti ha evidenziato come le situazioni più critiche si restringano a una sessantina di ettari, nei comuni di Acerra (località Calabricito), Giugliano (loc. Masseria del Pozzo), Villa Literno (loc. Soglitelle), tutte situazioni già note, per lo più ricadenti nelle cosiddette “aree vaste” del piano regionale di bonifica, nelle due versioni del 2005 e del 2013. Solo per questi 60 ettari, il decreto interministeriale prevede opportunamente, a titolo precauzionale, il divieto immediato di vendita della produzioni agricole, nelle more delle indagini dirette che saranno effettuate nei prossimi 90 giorni.
I 920 ettari agricoli a rischio costituiscono lo 0,9% della superficie territoriale dei 57 comuni delle province di Caserta e Napoli interessati dal decreto “Terra dei fuochi”, che si estende complessivamente per circa 108.000 ettari. L’identificazione è avvenuta incrociando i dati geochimici disponibili (circa 2.500 campionamenti), con l’interpretazione delle foto aeree dell’ultimo ventennio, che ha consentito di identificare gli scavi e i movimenti di terra sospetti.
I dati ufficiali presentati nella conferenza stampa di ieri confermano quanto scritto nei precedenti articoli su questo giornale: le aree agricole della piana campana interessate dal problema rifiuti sono estremamente circoscritte e limitate, non è dunque lecito parlare di un degrado generalizzato. Il profilo ambientale che emerge per questi territori, è molto simile a quelli delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione. D’altro canto, i risultati analitici della campagna straordinaria di controlli, attualmente in corso, confermano la totale sicurezza e salubrità delle produzioni agricole, perfino di quelle coltivate nelle aree sequestrate dalla magistratura a Caivano, per le quali si è infatti resa necessaria una sostanziale retromarcia. L’ecosistema agricolo, per grazia di Dio, è una macchina assai complessa, in grado di bloccare, con una molteplicità di meccanismi, il passaggio negli alimenti dei potenziali contaminanti.
Sin qui gli aspetti positivi, se così si può dire, della vicenda. Perché per il resto, il decreto “Terra dei fuochi” è figlio del tempo che viviamo, nel quale anche la produzione legislativa sembra mirare più all’annuncio e alla rassicurazione, che a produrre risultati concreti. Così, per l’esecuzione delle analisi di controllo sui 920 ettari, il decreto non stanzia un euro, né tantomeno propone un programma dettagliato delle indagini, rimandando la palla agli esperti e ai loro Enti di afferenza (CRA, ISS, ISPRA, ARPAC), che dovranno utilizzare propri fondi, a bilancio inalterato, con la Regione Campania chiamata alla fine a rimborsare il tutto, a piè di lista. Vedremo se con soluzioni tanto improvvisate si riuscirà a centrare l’obiettivo dichiarato, quello di completare, nel tempo breve dei 90 giorni, il lavoro di caratterizzazione delle aree a rischio.
Così come restano assai vaghe le misure per mettere una volta per tutte sotto controllo pubblico ciò che rimane dell’agro campano, la grande cintura verde intorno alla città, massacrata dal disordine urbanistico, dai piani casa, dalla speculazione sfrenata, prima ancora che dai traffici di rifiuti. Vanno bene le analisi, ma qui quello manca è il governo del territorio. In queste terre in disordine, le più fertili dell’universo conosciuto, una conoscenza che non sfocia in azione, come nell’Amleto, produce solo cattivi fantasmi.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 11 marzo 2014.
Antonio di Gennaro, 13 febbraio 2014
Certo la politica, sin dai tempi del Conte di Cavour, è anche l’arte di cogliere le occasioni, le “finestre di opportunità”, come si dice. Le tragedie collettive, compresa quella della “Terra dei fuochi”, si prestano alla perfezione allo scopo: sotto la spinta della bolla emotiva e dell’emergenza, diventa improvvisamente possibile far passare decisioni pubbliche altrimenti inattuabili, che spesso con le difficoltà reali non c’entrano proprio niente. E’ quanto accaduto nei giorni scorsi, con l’annuncio dell’Assessorato regionale alle attività produttive di un sontuoso programma di comunicazione, per riscattare l’immagine delle aziende campane dell’agroindustria, travolte dalla crisi della Terra dei fuochi. Un’iniziativa che presenta molti aspetti bizzarri, a partire dal costo, che è di cinquanta milioni di euro, destinati all’organizzazione di eventi, alla partecipazione a fiere e mostre, al lancio di campagne promozionali, con aiuti distribuiti in larga misura sotto forma di vaucher per le aziende.
Restano paradossalmente fuori le aziende di produzione agricola, cioè quelle più danneggiate dalla crisi, e l’intervento si configura allora come un generosissimo sostegno al settore della comunicazione e della pubblicità. Per comunicare cosa, non è assolutamente chiaro, considerato che la maniera migliore di rassicurare il consumatore dovrebbe essere quella di procedere ad interventi concreti, impiegando una cifra così ragguardevole per farle veramente le bonifiche, anziché raccontarle. Oppure per attuare su vasta scala progetti seri, come quello pure presentato nei giorni scorsi, di etichettatura dei prodotti campani con il Qr-code, quello strano geroglifico, che inquadrato con lo smart phone, consente di visibilizzare istantaneamente sullo schermo del tuo telefonino vita, morte e miracoli del prodotto che stai acquistando, compresi i certificati di analisi, la localizzazione dell’azienda, finanche la foto dell’agricoltore.
Altro esempio di progetto faraonico, frettolosamente intrapreso sull’onda della crisi, è quello per lo screening sanitario della popolazione, un’iniziativa aspramente criticata dagli specialisti, fumosa negli obiettivi come nei risultati attesi, per la quale dovrebbe arrivare dallo Stato un finanziamento di venticinque milioni, ma qui ha ragione il presidente Caldoro, che preferirebbe venisse invece evitato il taglio di quattrocento milioni ai trasferimenti per la sanità, con la riduzione all’osso dei servizi di base per i cittadini campani, che rappresentano la prima ed essenziale forma di prevenzione.
Cinquanta più venticinque fanno settancinque milioni, una cifra incredibile in questi tempi di crisi e di revisione della spesa. Risorse cospicue, che indirizzate su obiettivi concreti, contribuirebbero a risolvere alla radice i problemi, e che vengono mestamente impiegate per politiche placebo o elettorali. Tutti soldi letteralmente buttati dalla finestra, di opportunità s’intende.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 15 febbraio 2014 col titolo “Terra dei Fuochi, 75 milioni buttati”.
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