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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 23 agosto 2020

Il viaggio nelle campagne al tempo della pandemia comincia dove la storia ha avuto inizio, la piana di Quarto, l’ecosistema agricolo dentro il più grande cratere flegreo, che per tremila anni ha prodotto, instancabilmente e in silenzio, cibo e alimenti per le città antiche di Cuma e Pozzuoli, poi per quella nuova, Napoli.

Affacciandosi da S. Rocco, la frazione di Marano sul ciglio del cratere, la veduta dall’alto è ancora verde, coi boschi di castagno e querce sui versanti, tutt’intorno la grande conca, che è un mosaico intricato di case viti e coltivi. Mi accompagna Raffaele Verde, la sua cantina “IV Miglio” da più di vent’anni produce, proprio in questi vigneti superstiti, una delle migliori falanghine che sia dato gustare a queste latitudini.

“Nel 1950 nella piana di Quarto vivevano 5.200 persone, assieme a 5.000 capi bovini. Qui si produceva la carne per Napoli, il latte, e il vino naturalmente. Le famiglie contadine abitavano le piccole frazioni sparse tutt’intorno la piana, in ognuna c’era la masseria con i beni in comune, l’aia, il forno, il torchio e la cantina, le regole di convivenza erano quelle dei pagus, i villaggi di duemilacinquecento anni fa”.

Chiedo a Raffaele in che momento la modernità è arrivata davvero. “La vita di questi luoghi è cambiata con le emergenze telluriche, il bradisismo negli anni ‘70, poi il terremoto del 1980. Un uno-due micidiale, la storia ha messo il turbo, le stalle divennero case, il mondo antico s’è sbriciolato, ed è iniziato quello nuovo”.

Nel paesaggio avanti a noi la corona di piccoli villaggi persi nell’arboreto medievale non si vede più, ora c’è una città reticolare diffusa di 41.000 abitanti. I primi diecimila arrivarono col bradisismo, gli altri 25.000 dopo il sisma dell’80, in un flusso che in questi quarant’anni non s’è mai interrotto. Le aree edificate si sono moltiplicate per 30, ora sono 600 ettari, sui circa 1400 del territorio comunale. Vuoi chiamarla città, ma è un’altra cosa, un reticolo fitto di palazzine spontanee, ai bordi di strade rurali senza marciapiede, che prima o poi ti riportano alla campagna.

Da quasi tremila anni queste sono terre di passaggio, il toponimo non indica un luogo, ma solo che siamo al quarto miglio della via Campana, l’arteria vitale tra Pozzuoli e Roma, per realizzarla fu necessaria un’opera immane di ingegneria, col taglio della montagna, lo spacco buio nel Gauro, che attraversi oggi proprio come allora in silenzio, tra i muri altissimi in opus reticulatum.

Quando riesci alla luce, Via Campana sembra periferia d’America, coi negozi i bar le pompe di benzina le insegne dove prima era solo campagna, e la vita che scorre veloce, lungo la strada di attraversamento. Oltre le palazzine costruite a memoria dai capomastri, il tipo edilizio più ambìto è la villetta col tetto a doppia falda, come fossimo in montagna, cose che non c’entrano niente coi luoghi ma l’effetto, nella grazia invincibile del paesaggio flegreo, resta nonostante tutto gradevole.

Nei racconti di Raffaele Verde, Quarto è un luogo di ruralità ancestrale, che non si è mai fatta municipalità. Fino al decreto del 1948 che ne stabilì l’autonomia,  Quarto è rimasta frazione di Marano: il castello, la torre, il palazzo del principe e il municipio erano lì, in alto, qui era solo la riserva silenziosa di uomini e terre fertili, e infatti un centro storico vero e proprio non c’è, a stento riconosci nel mare della nuova edificazione ciò che resta dei minuscoli nuclei rurali, e il solo monumento identitario è la piccola chiesa duecentesca di S. Maria.

Già, i monumenti. Il patrimonio archeologico è diffuso, con Raffale visitiamo il mausoleo della Fèscina, vicino i binari ferroviari, la cuspide misteriosa sembra la traccia di un’architettura arcaica, o aliena; poi i ruderi della Villa del Torchio, i resti di una importante masseria romana, con i locali e le opere per la produzione del vino. Il sito si conserva miracolosamente, recintato e protetto da una copertura lignea, nell’interstizio tra il viadotto della superstrada, lo sterminato centro commerciale, e i grandi capannoni inutilizzati di un acetificio che ha chiuso i battenti.

Chiedo a Raffaele com’è finito, lui veterinario, a produrre vino. “Papà era pilota di guerra, il sogno era seguire le sue orme in aviazione ma fui scartato per un’anomalia cardiaca. Lui era anche un bravo allevatore, e fu questa alla fine la strada”. La carriera di medico veterinario Raffaele l’ha fatta tutta nel servizio sanitario nazionale, fino alla dirigenza, poi venne il problema di cosa farsene delle terre di famiglia, erano frutteti antichi, non specializzati, lui scelse invece di puntare tutto sulla vite.

Così ha impiantato il vigneto, che gestisce come un salotto, sperimentando nuove tecniche di allevamento, inerbimento e difesa, l’obiettivo è incrementare l’humus e la fertilità del suolo, riducendo al minimo la chimica. Tornati in azienda percorriamo i filari ordinati, Raffaele racconta, e a ogni passo si ferma a sfogliare un tralcio, per dare luce a un grappolo.

Da medico veterinario, professionista della vita, ha sempre creduto che un grande vino comincia dal benessere e l’equilibrio della vigna, la cantina deve solo rispettare ed esaltare questi valori. E i suoi ragazzi l’hanno accompagnato nell’avventura. Ciro è un enologo di prim’ordine, Alessandro invece segue la ristorazione, perché a “IV Miglio” puoi sperimentare oltre i vini anche una delle migliori cucine dell’area flegrea.

Insomma, intorno alla falanghina e alla ristorazione di qualità Raffaele ha costruito un’azienda che dà da vivere a una comunità di una ventina di persone, un’economia del territorio che nasce dal basso, partendo dal terroir, dai valori unici del suolo e della storia: una possibilità diversa per questi luoghi, che non sia il gioco a perdere dell’edilizia di rapina. In mezzo al caos dell’urbanizzazione veloce, è proprio partendo da questo centro storico verde, fatto di vigneti in mezzo alla città, che anche a Quarto un ordine potrebbe ritrovarsi, una nuova qualità dei luoghi, un senso di appartenenza, cura, responsabilità.

Resta il fatto che la pandemia, questa forza cieca che ha distribuito inegualmente dolori, costi, perdite e opportunità, ha colpito duramente proprio l’agricoltura multifunzionale, questa economia nuova del territorio e della convivialità. Come altre cantine di qualità “IV Miglio” ha sofferto nei mesi del lockdown il blocco dell’export, e il fermo completo dell’HO-RE-CA, la filiera che comprende alberghi, ristoranti e caffè.

Seduti nel giardino che guarda le vigne, ragioniamo di queste cose, mentre Ciro ci presenta in anteprima l’ultima nata, una falanghina senza solfiti, da brividi. Davanti al bicchiere fresco, Raffaele parla dei problemi gravi del momento con pacatezza, un’apprensione temperata dalla ragione, la forma mentis è quella della medicina umanistica di vecchia scuola, dove prima della malattia c’è la necessità di comprendere gli equilibri che sono alla base della buona vita.

“Siamo ripartiti con la ristorazione, la struttura dei locali e degli spazi aperti fortunatamente ci consente di applicare meticolosamente i protocolli di prevenzione e distanziamento, ma non è questo il punto. Il problema è come restituire serenità alle persone, che non c’è ancora, e io penso che proprio in questa fase la comunicazione istituzionale e dei media non ci stia aiutando. E’ una continua doccia scozzese di allarmismo e rassicurazione, messaggi contrastanti vengono dati nello stesso comunicato governativo, pagina di giornale, scaletta di telegiornale. In una situazione di oggettiva incertezza, non è questo il modo migliore per aiutare le persone ad adottare comportamenti consapevoli, a vivere responsabilmente questo momento di transizione.”

Raffaele alza il calice, osserva controluce il colore della nuova creatura. “Per il vino poi, la pandemia non ha fatto altro che evidenziare le nostre antiche debolezze, l’incapacità dei produttori di un territorio come i Campi Flegrei di fare alleanza, cooperare veramente, perché è evidente che nessuno si salva da solo. Il mercato internazionale è spietato, puoi affrontarlo solo se concentri tutte le forze, condensando davvero in un solo racconto credibile il vino, i vulcani, la natura particolare di questa terra, dove la storia dell’uomo è cominciata, insieme a un progetto, un impegno serio per farla vivere ancora.”

Antonio di Gennaro, 27 giugno 2020

Alla fine del suo viaggio alla ricerca vana dell’immortalità Gilgamesh torna a Uruk, la città sulle sponde dell’Eufrate che ha edificato e di cui è re, l’osserva dall’alto e descrive com’è fatta: all’interno delle mura “un terzo di tutto è città, un terzo giardino, un terzo campagna”. E’ il primo racconto scritto di un ecosistema urbano di quattromilacinquecento anni fa, un millennio e mezzo prima dei poemi omerici.

Gli habitat dell’uomo sono ancora quelli – la città, il giardino, la campagna – è da questi che dobbiamo partire per discutere della nostra vita in tempo di emergenza, perché attraverso parole d’ordine come “distanziamento” e “confinamento”, la pandemia ha cambiato prima di ogni altra cosa la metrica dei nostri spazi di vita.

La cosa urgente ora è capire come sono attrezzati gli ecosistemi nei quali viviamo – Napoli, l’area metropolitana, la Campania – per adattarci alle nuove condizioni di vita; che possibilità abbiamo di farcela, tenuto conto che l’emergenza Covid non porta problemi nuovi, ma presenta tutto insieme il conto di quelli vecchi, lasciati lì a marcire.

Un primo aspetto è che, almeno per un po’, la densità non è più una virtù. La concentrazione di relazioni, occasioni, scambi che costituiscono la forza inarrivabile dell’ecosistema urbano, si è trasformata nel suo tallone di Achille, e c’è ora chi decanta le virtù del borgo, della periferia dispersa, della vita a bassa intensità.

Per una regione come la Campania, dove il 75% degli abitanti vive stipato sul 15% del territorio regionale, nell’area metropolitana più scombinata e pericolosa d’Europa, la pandemia appare l’occasione per un affrontare il riequilibrio demografico verso la green belt appenninica, la costellazione dei  trecento piccoli comuni che ha perso in mezzo secolo più di un terzo della popolazione.

Per l’area metropolitana invece, tornando a Gilgamesh, l’emergenza rappresenta il momento buono per riscoprire il valore delle campagne urbane. Proprio come l’antica Uruk infatti, in maniera sorprendente la metropoli è fatta ancora per il 60% di spazi verdi – aree coltivate, boschi, pascoli – in un mosaico caotico con le aree urbanizzate e il reticolo di infrastrutture, che coprono il restante 40% dello spazio.

Se fino ad ora abbiamo considerato queste campagne come una specie di terra di nessuno, spazio di riserva per l’espansione edilizia, è questo il momento di riassegnare loro la funzione primaria: quella di spazi verdi multifunzionali nei quali, accanto all’agricoltura di qualità, si produce cultura, vita all’aria aperta, educazione e didattica, sport. Un bene pubblico insomma, il giardino della metropoli, al posto dell’immagine desolata della Terra dei fuochi. Ricordando che nella civiltà della Piana campana “giardino” è propriamente il frutteto, l’arboreto promiscuo tradizionale, col groviglio multiforme di piante da frutto e viti, sulle terre vulcaniche più fertili del mondo.

In altri termini, la metropoli ha al suo interno i suoi spazi pregiati di decompressione e distanziamento, quello che dobbiamo fare è rimuovere la coltre di incuria e degrado che li imprigiona, curarli un po’, viverli, vigilare, fare ordine, ricostruire una toponomastica e una leggibilità dei luoghi.

Per il capoluogo il discorso è simile, seppur a una scala diversa. Gli ecosistemi verdi in città coprono 3.500 ettari, 3.100 dei quali sono campagne, tutte protette dal Piano regolatore, e i restanti 400 ettari, che è invece la somma dei 52 parchi e giardini, dai maggiori come Capodimonte, Floridiana, il Parco dei Camaldoli e il Virgiliano, a quelli della Ricostruzione, fino ai più piccoli di quartiere e vicinato.

E qui veniamo al punto. Queste aree sono in potenza uno strumento formidabile, sono spazi sociali che la città può mettere in campo per attrezzarsi in tempi di pandemia. Sono beni pubblici, come sono beni pubblici le altre armi che abbiamo per vincere il male, il Cotugno, le terapie intensive, i centri di ricerca e i laboratori. Il problema delle aree verdi, dal Parco delle colline (in freezer da un decennio), ai parchi storici in disarmo, senza più manutenzione, è la loro accessibilità effettiva per gli abitanti, atteso che la lotta al virus non si fa con numeri, slogan e proclami, ma migliorando giorno per giorno la qualità dei nostri desolati ambienti di vita.

L’articolo è pubblicato in: COVID. Le cento giornate di Napoli. la Repubblica Novanta-Venti. Guida editori, pp. 171-173

Antonio di Gennaro, 18 aprile 2020

E’ il mio contributo al libro sui trent’anni di Repubblica a Napoli. La pubblicazione è andata a ruba. Chi è rimasto senza può leggerlo ora su horatiopost.

E’ vero, l’agricoltura, o meglio le agricolture sono un pezzo importante del futuro della Campania, ma diffidate di chi dice che è il solo destino che c’è rimasto, che l’economia regionale debba puntare tutto su agricoltura e turismo. Sono sciocchezze, se va bene queste due voci, con i loro indotti, fanno un terzo del prodotto interno lordo, il resto sono manifattura, industria, servizi: è lì che si produce il lavoro e il reddito per buona parte della popolazione attiva. Pure, una regione europea moderna ha un disperato bisogno di buona agricoltura, per tanti motivi.

Uno di questi è la sicurezza. L’ottantacinque per cento del territorio della Campania non è fatto di città ma di campagna: campi coltivati, pascoli, boschi, aree naturali. E’ la straordinaria matrice rurale che tiene insieme i grandi paesaggi regionali, dal Matese al Cilento, lungo tutta la green belt d’Appennino, passando per le pianure, i vulcani, le isole. Dietro questo mosaico di agricolture, con tremila anni di storia, c’è una comunità reticolare di agricoltori che lavora ogni giorno per tenere in ordine i suoli,  le acque, la sintassi unica dei paesaggi.

Di tutta questa macchina ecologica l’area metropolitana regionale – la caotica città continua da Capua a Battipaglia, che vale il quindici per cento del territorio, ma ospita il settantacinque per cento della popolazione – è debitrice netta. E’ il territorio rurale con i suoi fantastici suoli che produce l’acqua da bere, pulisce l’aria, condiziona il clima, assorbe la CO2, mantiene la biodiversità e la sicurezza idrogeologica. Ora li chiamano “servizi ecosistemici”, sono quei processi invisibili che rendono possibile la nostra vita quotidiana, tutta roba che si fabbrica in campagna, e la parola chiave in questo caso è “multifunzionalità”: la capacità dello spazio rurale di produrre simultaneamente cibo e servizi ecosistemici, a vantaggio dell’intera società.

Il problema è che mentre il cibo si vende e si compra al mercato, un mercato per i servizi ecosistemici non c’è, o almeno non c’è ancora. Uno degli obiettivi della politica agricola comunitaria è proprio questo: ricompensare gli agricoltori di almeno una parte dell’opera ambientale che svolgono, altro che assistenzialismo.

In più, l’agricoltura, e quella campana in particolar modo, per motivi che vedremo, è stretta nella morsa ferrea di costi di produzione crescenti e prezzi bassi dei prodotti, che il mercato globale mantiene al di sotto di una soglia decente di remuneratività. Un’umiliazione insostenibile, ed allora chiudono le stalle in Appennino, è una frana economica, demografica e sociale. Le montagne della Campania hanno avuto la loro popolazione dimezzata nell’arco di un cinquantennio, i giovani vanno via, la rete dei trecento piccoli comuni di presidio si spegne.

Una delle conseguenze, in questi tempi difficili di cambiamento climatico, è che senza più gli agricoltori a curare il pascolo e l’animale, senza manutenzione, l’Appennino diventa una macchina pericolosa: la boscaglia si riprende il paesaggio, il suolo frana e l’acqua inonda il fondovalle assieme alle città, le infrastrutture, le fabbriche. La catena del rischio in questo modo si chiude, e il costo per l’intera collettività è drammatico.

In pianura i problemi sono diversi, anche se è qui che ci sono i suoli più fertili dell’universo conosciuto. E’ il motore vulcanico di Campania felix, una produttività che è il quadruplo della media nazionale: è grazie a questo capitale prodigioso di fertilità che la Campania, con metà della superficie agricola, si colloca nel gruppo di testa delle regioni agricole italiane.

Se in Appennino è il bosco che avanza a spese dei coltivi, in un desolato paesaggio medioevale di ritorno, in pianura è la città a mangiare i suoli e cancellare aree agricole. Nel 1960 c’erano ventimila ettari di città, ora sono centoquattordicimila, la città si è moltiplicata per sei, anche se la popolazione è aumentata solo del venti per cento. Ora Campania felix è fatta di pezzi di campagna inframmezzati alla città, in un mosaico rur-urbano disordinato, privo di coordinate.

Eppure, questa agricoltura metropolitana, fatta di trentamila aziende, è in grado ancora di produrre, sul dieci per cento circa della superficie agricola regionale, quasi un terzo del valore della produzione agricola della Campania. Si tratta di ortaggi, fragole e mozzarelle di qualità assoluta, che le filiere lunghe della grande distribuzione organizzata portano sulle mense di mezza Europa. Molteplici livelli di controlli hanno confermato come questi cibi, diversamente dalle grida manzoniane di pochi sconsiderati, siano assolutamente sani, più sicuri addirittura delle produzioni provenienti da altri territori italiani.

Una sola regione per tanti territori e tante agricolture diverse, anche se per progettare il futuro il problema alla fine è sempre lo stesso, la gracilità del tessuto aziendale, la dimensione media delle unità produttive, intorno ai quattro ettari, la metà della media nazionale (per inciso, in Francia l’azienda media è di cinquanta ettari). Un fenomeno che giunge proprio nei paesaggi rurali più fertili  – la piana flegrea, il Vesuvio, la Penisola sorrentina-amalfitana, l’Agro nocerino-sarnese – alla polverizzazione estrema, con dimensioni aziendali medie di uno-due ettari.

Lasciando decisamente da parte le cose che non sappiamo fare, come la ricomposizione fondiaria, la soluzione praticabile è antica e nuova insieme, ed è quella della cooperazione: mettere insieme le forze, ricucire in progetti solidali, finalmente competitivi, le persone, le produzioni, le terre. I buoni esempi non mancano, anche in Campania: i produttori di fragole di Parete, i viticoltori del Sannio, gli allevatori di marchigiana del Fortore, gli olivicoltori del Cilento hanno saputo costruire negli anni organizzazioni cooperative in grado di stare credibilmente sui mercati globali, pur conservando una maglia produttiva fatta di piccoli produttori.

E’ questa l’unica chance per la Campania, quella della costruzione di paesaggi cooperativi, pensati e gestiti come un’unica azienda. Tornando a considerare l’economia regionale nel suo insieme, questi paesaggi rurali di qualità, adeguatamente connessi e infrastrutturati, possono diventare il brand distintivo, il vantaggio competitivo non riproducibile altrove, del quale finiscono per tener conto anche le attività extragricole nelle loro scelte localizzative. In conclusione, la strada è una sola: mettere insieme progetti e destini, pensando di vivere questa terra come fossimo foresta, piuttosto che alberi isolati.

L’abstract dell’intervento che con Fabrizio Cembalo faremo al convegno della Fondazione Benetton “Il suolo come paesaggio”

Se provi a digitare su Google la parola “terra”, è l’algoritmo a completare la frase, e tra le primissime opzioni compare proprio “terra dei fuochi”. È una conferma della risonanza mondiale delle vicende della piana campana massacrata dall’abusivismo e dai rifiuti, tanto da fare della locuzione un simbolo, un luogo comune, uno stereotipo. Qualcosa che viaggia nel discorso pubblico globale, spogliata alla fine di ogni aspetto misurabile, tecnico, territoriale. L’areale problematico è assai circoscritto, ma nei negozi del centro-nord i cartelli portano scritto “non si vendono prodotti agricoli della Campania”. La cosa singolare è il fatto che sia l’agricoltura il principale imputato, anche se dopo sei anni neanche uno dei 40.000 campioni di prodotti agricoli analizzati ha rivelato problemi. Circoscrivere il problema è essenziale per definire le possibili soluzioni. Il modo generico ed emotivo con il quale la faccenda ha girato sui social network è proprio quello giusto per allevare paure, guardandosi bene dall’indicare possibili strade d’uscita. Quello che abbiamo capito, alla fine, è che “terra dei fuochi” è una malattia del paesaggio. Malattia generata dall’assenza di pianificazione pubblica. Le 140 città intorno al capoluogo partenopeo si sono saldate in un’unica, informe periferia lunga 90 chilometri. In questa città malcresciuta sono rimasti intrappolati i lacerti di Campania felix, i suoli agricoli più fertili della galassia, con 20.000 aziende agricole che, su meno del 10% della SAU producono il 40% del valore della produzione agricola regionale. Terra dei fuochi è la tragedia dei due milioni di italiani che vivono faticosamente questo spazio che sfida l’umana comprensione. In questa situazione complessa, abbiamo lavorato a numerosi progetti di paesaggio per curare le ferite: gli spazi agricoli mortificati, le cave, le discariche. Alcuni di questi luoghi simbolo, come l’ex Resit di Giugliano, la madre di tutte le discariche, ora sono spazi verdi pubblici, abbelliti dai murales di Jorit e dalle istallazioni di land art degli studenti del Liceo artistico di Napoli. Lì vicino, nel podere di San Giuseppiello, dove i camorristi sversavano i fanghi delle concerie toscane, un bosco di 20.000 pioppi lavora per tenere in sicurezza i suoli e le terre. Ancora, a contenere tutte queste cosei Comuni lavorano ora alla realizzazione di un Parco Agricolo che salvaguardi e curi i margini,  ricucendo i paesaggi. È un laboratorio verde all’aperto in continuo progresso, dove migliaia di studenti delle scuole pubbliche della Campania vengono a studiare e comprendere come si ricostruiscono i suoli e gli ecosistemi, restituendo dignità ai luoghi, un futuro diverso alle comunità che li abitano.

 

Francesco Erbani, Repubblica Napoli 8 settembre 2019

Tornare, restare, arrivare. Quanti verbi si coniugano all’infinito ragionando delle regioni meridionali. Ognuno di essi prova a squarciare un velo reso impermeabile da qualche pigrizia mentale, dall’abitudine di guardare a queste regioni come a un universo compatto, punteggiato solo da buchi neri.

Franco Arminio su queste pagine ha intrecciato i primi due verbi. Le cronache rimandano costantemente le immagini di arrivi e si spera che i prossimi non siano più accompagnati da manfrine disumane. Si promuovono iniziative e manifesti per politiche pubbliche che fronteggino lo spopolamento – questione di fondo che i tre verbi raduna e mette in fila.

A questi tre verbi se ne può aggiungere un altro, sempre all’infinito. Interpretare. E ad esso agganciare un complemento oggetto. Territorio.

Prima di procedere, però, occorre lavorare di fino sul senso della parola territorio e sgomberare dal suo repertorio di significati quelli che hanno a che fare con un aggettivo possessivo. Mio. Al massimo, nostro. Una volta ripulito il vocabolario da tutto l’armamentario di recinti, di fisime e di vere fantasie indentitarie, di tradizioni tanto ossificate quanto inventate, il territorio si libera di una mistica proprietaria e torna a brillare delle tante potenzialità visibili e latenti che ne costituiscono l’essenza. E si predispone ad essere interpretato, scandagliato nelle sue caratteristiche.

Il territorio – come ripete a proposito del suolo Antonio Di Gennaro – non è una piattaforma neutra, il supporto indifferente capace di sopportare, e supportare, qualsiasi oggetto. Né possiede una dimensione solo fisica. Come insegnano le più aggiornate discipline che trattano del paesaggio, anche il territorio può dirsi composto di tanti elementi, fisici e non solo fisici, oggettivi e soggettivi.

Un territorio ha una storia, non è stato sempre così come oggi lo vediamo, né possiamo immaginare di trattenerlo in una ipotetica fissità. Su di esso hanno agito donne e uomini, si sono esercitate trasformazioni. Ha poi espresso valori, saperi, bisogni, persino aspirazioni.

In questa condizione multifunzionale, un territorio, un territorio delle aree interne, per esempio, si presta a essere interpretato, appunto per comprendere come può vivere al meglio, come i suoi bisogni possono essere soddisfatti e le sue aspirazioni assecondate. Tornare, certo. Restare, d’accordo.

Arrivare, ottimo. E però anche interpretare che cosa lo rende un luogo e non semplicemente uno spazio. E quali sono le sue virtù, quali relazioni si possono stringere al suo interno e verso l’esterno, quali bellezze esibisce, quali beni culturali, materiali o immateriali custodisce, quali doti nasconde, quali possono essere aggiornate, quali inventate.

Le aree interne possiedono tanti vuoti. Ecco un caso concreto in cui fare esercizio di interpretazione di un territorio: come trasformare questi vuoti da segno irrimediabile dell’abbandono in occasione per ripartire (mettendo al bando, è ovvio, occasioni speculative o di profitto a breve). In alcune zone delle regioni meridionali questo già avviene, dalla Calabria al Cilento al Sannio, tanto per riferirsi a quanto di più interno c’è nell’interno. Nulla è esemplare, nulla si propone come modello, nulla è esente da conflitti, ma il movimento anche se non è tutto, come si diceva un tempo, è molto. È appena un mormorio, ma ascoltarlo conviene.

Ma quali sono gli attori di questa campagna d’interpretazione (chiamiamola così per convenzione)? Chi abita quel territorio, certamente.

Può disporre di tanti strumenti, possedere le chiavi per aprire lo scrigno dei saperi, delle consuetudini agricole, artigiane, manifatturiere. È in grado di conoscere la storia, il lungo e il breve periodo, di trasmettere i canti popolari, i riti, le feste. Ma anche chi abita quel territorio può essere vittima dei luoghi comuni, delle abitudini sbrigative e stereotipate. Può guardare senza vedere. Rischia, per esempio, di non afferrare appieno le potenzialità latenti, quelle che lo sconforto e la disillusione possono occultare.

È restato, ma in qualche modo deve ri-abitare il luogo in cui è sempre vissuto.

Ecco perché per interpretare meglio è necessario che qualcuno arrivi, da vicino o da lontano, o che torni, portando nella valigia tanti attrezzi culturali appresi altrove. Anche perché le cose che si sono sempre fatte non è detto che bastino. Interpretare consente di capire che cosa manca. E che cosa di nuovo è più appropriato.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 22 luglio 2019

Devi venire tra queste colline serene, una miniatura rinascimentale di filari di viti, boschi e oliveti ai piedi del Taburno, dove sembra che mai nulla possa mutare, per capire davvero cosa significa vivere al tempo del cambiamento climatico globale. Cammino nel vigneto con Marco Giulioli, l’enologo che segue i mille viticoltori della Guardiense, sono gli uomini che coltivano e accudiscono tutta questa bellezza: sotto i tralci verdi i nuovi grappoli si vanno riempendo di succhi, lui li scruta con attenzione, nel percorso verso la qualità siamo a un momento cruciale.

“Il cambiamento climatico ci ha cambiato la vita” mi spiega Marco “Dobbiamo lavorare in condizioni di rischio e incertezza sconosciute in passato: la frequenza degli eventi climatici estremi è aumentata. Prima da una calamità all’altra passava del tempo, ora non è più così. In questa stessa valle abbiamo avuto l’alluvione dell’ottobre 2015, poi nel 2016 la gelata forte di fine aprile; Nel 2017 ancora la gelata, seguita dalla grande siccità e dagli incendi nei boschi. Nel 2018 la grandinata di fine maggio che ha martoriato tralci e grappoli in formazione, nel 2019… incrociamo le dita” dice pensieroso, e continua a carezzare i tralci.

“Il problema” continua Marco “è che non sai più da quale nemico difenderti: grandine, gelo, siccità. Per i nostri viticoltori stiamo pensando a nuovi strumenti mutualistici per proteggerli dai rischi, perché altrimenti sul risultato economico di ogni annata incombe un’incertezza insostenibile per queste famiglie.”

Oltre l’imprevedibilità di pioggia grandine e tempeste, c’è un altro aspetto, che è l’innalzamento delle temperature. Antonello Bonfante del Consiglio Nazionale delle Ricerche è uno degli scienziati che studia queste cose. Usa modelli sofisticati per capire come il clima sta cambiando, e come stanno reagendo i suoli, le piante, i paesaggi. “La falanghina del Sannio sino ad oggi per maturare ha avuto bisogno di 1.800 gradi Winkler, che è l’indice della quantità cumulata di calore necessaria per portare l’uva a maturazione. I modelli climatici ci dicono che in Valle Telesina questo indice toccherà valori intorno a 3.000 nel giro di pochi decenni. Come reagiranno le piante noi non lo sappiamo. Di certo, ci sarà  bisogno di irrigazioni di soccorso, non per produrre di più, ma per mantenere la qualità. E’ una pratica che in California è già d’obbligo, per l’Italia è una novità, e comunque bisognerà anche capire, in uno scenario di scarsità idrica, quest’acqua dove e come andremo a prenderla.”

Giulioli annuisce. “E’ proprio così, la nostra falanghina è già cambiata. Rispetto a quindici anni fa la vendemmia è anticipata di due settimane, un’eternità. E i grappoli arrivano a raccolta con un grado zuccherino più alto, e un profilo acidico più basso. Più alcool e aromi, meno acidi, questo significa un gusto più moderno e vicino alle preferenze del consumatore.”

Il cambiamento climatico è portatore quindi di rischi, ma anche di opportunità inattese. Resta il fatto che garantire la qualità delle uve e del vino, in questa roulette che è diventata il clima, è un obiettivo che richiede un’attenzione quotidiana. “La viticoltura di precisione è una necessità” mi dice ancora Giulioli. Mentre camminiamo ci raggiungono Alessio e Gianfilippo, sono due giovani tecnici della cooperativa. Monitorano il vigneto, tablet alla mano, contano e misurano i grappoli pianta per pianta, i dati sono memorizzati sulla cartografia satellitare che appare sul display. Se il clima è imprevedibile, l’unica è sopperire con la conoscenza e l’adattamento continuo. Lo sviluppo di ogni vite, nei millecinquecento ettari della cooperativa, è quindi seguito giorno per giorno – stato vegetativo, stress, avversità, grado di maturazione – in modo da poter intervenire con tempestività, con le cure agronomiche necessarie. L’idea è ora quella di dotare ognuno dei mille soci di questi strumenti.

“Una cosa nella quale l’Italia e l’Europa rischiano di restare indietro” prosegue ancora Giulioli “rispetto agli altri grandi produttori a scala mondiale, è la ricerca genetica. Per produrre grandi vini in questo clima che cambia abbiamo bisogno di viti più resistenti agli stress e alle malattie. Negli Stati Uniti sta nascendo, con un importante investimento pubblico, un grande centro federale di ricerca sulla genetica della vite, con il compito di produrre super-varietà resistenti alla siccità, all’oidio, alla peronospora. La tecnica impiegata è il “genome editing”, in pratica si trapianta, con una specie di taglia-incolla, il gene della resistenza da una varietà di vite all’altra, senza snaturare l’identità di ogni vitigno. Qui in Europa non è possibile, perché questi organismi sono considerati OGM, organismi geneticamente modificati, quando non è così, perché si opera in seno alla stessa specie, proprio come faceva Nazareno Strampelli col grano novant’anni fa.”

“La genetica è importante, ma da sola non basta” è l’opinione di Bonfante “perché bisogna fare i conti con la variabilità dei terroir. Quindi, abbiamo certo bisogno di vitigni resistenti, ma anche di conoscere come queste varietà si comportano nei diversi tipi di suolo, intervenendo con una gestione del vigneto intelligente, diversa caso per caso.”

E’ proprio quello che stanno facendo Marco Giulioli e i mille viticoltori della cooperativa. “La diversità dei paesaggi e dei terroir del Sannio” osserva Marco “sino ad oggi ci ha salvati: nella valle ci sono una quarantina di tipi di suolo diversi, e ogni annata c’è sempre per fortuna una parte dei terroir che reagisce bene a quel particolare andamento climatico, ed è in grado di assicurare una produzione di qualità.” Con l’innalzamento delle temperature però questa resilienza, questa capacità di adattamento potrebbe non bastare più.

Con Marco torniamo in cantina, la giornata è stata afosa, due dita di spumante fresco di falanghina aiutano a inquadrare meglio le cose. La prima è che il cambiamento climatico non è un accidente che verrà, ma ci siamo già dentro fino al collo. La gente del vino, con quelle antenne sensibili che sono i vigneti, sta già affrontando le conseguenze, e la parola d’ordine è “adattamento”.

Vivere in tempo di global change richiede intelligenza, un’attenzione smisurata alle cose che succedono, la capacità di reagire tempestivamente, compiendo le azioni giuste. Il cambiamento climatico ci mette bruscamente di fronte ai limiti e alla sostenibilità dei nostri stili di vita, dei modi di consumare e produrre, alla nostra vulnerabilità.

Occorre una grande capacità di innovazione, se non ne sei capace sei fuori. Il popolo del vino, con testardaggine e umiltà, queste cose le sta già facendo, ne va della sua sopravvivenza, ed è una lezione anche per noi, povera gente di città, che di antenne per ascoltare la natura e i cicli che cambiano ne abbiamo assai meno, viaggiamo a fari spenti nei nostri gusci tecnologici, pronti solo a lagnarci delle conseguenze, quando il mondo vero alla fine si ribella.

Una pagina del sito web dell’Assessorato regionale all’agricoltura dedicata ai paesaggi rurali. Che rimanda a sua volta a un blog, che propone un viaggio veloce attraverso gli straordinari paesaggi agrari della regione. E’ una piccola novità, ed è solo l’inizio. Abbiamo bisogno di politiche agricole incentrate sui paesaggi. Il 90% del territorio regionale è fatto di aree coltivate, boschi, pascoli. Sono gli agricoltori a prendersi cura di questo patrimonio, nell’interesse dell’intera collettività. Il loro lavoro è poco compreso, sottovalutato. Come al solito, bisogna partire dalla conoscenza.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 16 luglio 2018

Visto da qui il tratturo è una striscia verde d’erba che si srotola tra i campi, sembrerebbe il segno più tenue nel paesaggio, e invece è il più tenace, c’era già duemilacinquecento anni fa, prima che iniziasse la costruzione dell’Appia antica. Davanti compare Zungoli, nel vento della sua collina, tutt’intorno si stende il mare di argille ondulate, dall’Alta Irpinia all’Ufita al Fortore, le terre estreme della Campania, quelle più povere d’uomini. In queste aree la densità demografica tocca i minimi – 53 persone per chilometro quadrato, la media regionale è 426, nella fascia costiera sono più di 2.600 – che è come se gli abitanti di Chiaia–Posillipo si distribuissero, da soli, in un’area grande una volta e mezzo la provincia di Napoli. La demografia è un bollettino di guerra, nell’ultimo cinquantennio l’Alta Irpinia ha perso il 43% degli abitanti, l’Ufita addirittura il 46, il Fortore il 34; alla fine, 66.000 persone sono andate via, ed è una tendenza inarrestabile, che non conosce pause.

Proprio accanto al regio tratturo, a Zungoli, è la sede della cooperativa La Molara, l’ha fondata Genesio De Feo nel 1971, lo incontro col figlio Enzo nel piccolo ufficio ordinato dove c’è l’amministrazione. Dall’inizio Genesio ha creduto che in queste terre belle e difficili l’unica strategia è tessere reti solidali d’uomini. Così ha riunito i piccoli allevatori – 20 vacche e dieci ettari di terra ciascuno – e ha riscoperto e valorizzato il caciocavallo di podolica, che è tra i formaggi più buoni al mondo. In tutto questo tempo, pure in un mercato del latte spietato con i piccoli, il prezzo ai soci è stato garantito, e ogni litro è stato pagato. La cooperativa affina e stagiona i caciocavalli nelle grotte di tufo, e c’è pure un caseificio, che lavora solo il latte delle podoliche al pascolo, 15-20 quintali di latte al giorno, non di più, perché il ritmo di questo ecosistema antico non lo devi stravolgere né superare.

Ma il vento continua a soffiare, ora parla Enzo: “Avevamo quattrocento soci, ora sono 250, ce la mettiamo tutta ma comunque ci sono stalle che chiudono. La normativa di produzione è uguale per tutti, i grandi allevamenti di pianura e quelli piccoli di montagna, come noi, che lavoriamo in condizioni estreme. Quando la cooperativa partecipa a un bando di finanziamento deve concorrere con gruppi agro-industriali che hanno altra forza, fatturato, capacità tecnica e finanziaria. Non capiscono che vivere e produrre qui è una prova continua di resistenza. Dovrebbero proteggerci. Puntare sulle aziende agricole anche per la manutenzione del territorio, che non c’è più: la multifunzionalità è anche questo, un lavoro di presidio, estate e inverno, nell’interesse dell’intera collettività, per tenere queste terre vive”.

Chiedo a Enzo come mai, nonostante lo spopolamento drammatico, l’abbandono agricolo sia ancora limitato: il paesaggio davanti a noi è un salotto, un mosaico continuo di prati, grano e olivo, e ogni metro è coltivato, non c’è insomma come in Cilento il bosco nuovo che avanza, nel medioevo ancora poco compreso della post-modernità. “C’è un legame profondo con la terra, l’impegno preso con i padri che l’hanno trasmessa, al di là delle convenienze e dell’economia. Ogni altra scelta suonerebbe come diserzione, tradimento”.

Da Zungoli risaliamo a nord, verso il Fortore. A Buonalbergo la piazza è aggraziata col tiglio verde e la pavimentazione di pietra calcarea, bianca e pulita, il bar, la piccola chiesa è spalancata; la ragazza che mi indica la strada, poi la signora con la spesa che incrocio sulle scale, salutano per prime, con garbo. In piazza trovo Giuseppe Leone, che qui è nato, ha insegnato a Napoli all’Accademia di Belle Arti, ora è tornato, e a Buonalbergo, nel palazzo Angelini affacciato sulla vallata, con lavoro titanico ha allestito, senza un euro di finanziamento, il Palazzetto delle Arti, con il Madre il più bel museo d’arte contemporanea della Campania, visitatelo per credere.

Percorriamo le stanze sobrie ed eleganti, le prime opere d’arte sono le finestre, con scorci mozzafiato sul paesaggio immenso che spazia fino ai Lattari, ma tutti i pezzi esposti sono di grande bellezza, parlano al cuore e al cervello, è un luogo di scoperta e ricerca, dove ti senti vivo. C’è una serie di opere dal titolo “Guardando ad Occidente”, sono di giovani artisti asiatici che si confrontano e dialogano coi capisaldi della nostra cultura, reinterpretando ad esempio Modigliani, come Van Gogh aveva fatto con le stampe giapponesi.  “Il Fortore ha bisogno della cultura per affermarsi, qui l’arte può aiutare a creare lavoro e sviluppo”. Ora Giuseppe sta organizzando un albergo diffuso per ospitare artisti dall’Italia e dall’estero, vuole fare del palazzetto un laboratorio permanente di scambi internazionali, c’è già una convenzione con l’Accademia di Belle Arti.

Su un grande muro bianco del centro storico, su un terrapieno panoramico che lo vedi da tutta la valle, Leone ha chiesto al suo allievo ora celebre, Jorit, l’artista dei murales di Maradona San Gennaro e Hamsik a Napoli, di realizzare qui una sua opera con i volti enormi di Alberada di Buonalbergo, la moglie ripudiata di Roberto il Guiscardo, e di suo figlio Boemondo, cavaliere alla prima crociata. I modelli sono ragazzi del paese, Jorit ha lavorato qui quindici giorni, col viso avvolto nel fazzoletto, il risultato è bellissimo, di grande suggestione: “Jorit è l’artista delle periferie del mondo, abbiamo pensato che il Fortore è periferia della periferia, luogo di scarto rispetto alle aree forti del paese. Invece è da posti come questo che può venire il riscatto”.

Nel frattempo mi ha raggiunto Nicola De Leonardis, è il direttore della cooperativa di allevatori di marchigiana di San Giorgio La Molara, un’altra delle straordinarie infrastrutture economiche e sociali, nate da sole, dal basso, che cercano di tenere vivo il Fortore. Del grande lavoro della cooperativa abbiamo già parlato in un articolo precedente: gli agricoltori di San Giorgio hanno riconvertito gli utili del tabacco per avviare una filiera zootecnica di alta qualità, con aziende sane, che hanno terra per produrre i loro foraggi, la bistecca ha lo stesso marchio di qualità della chianina, e sai davvero cosa mangi.

“La cosa che abbiamo dimenticato” mi dice Nicola “è che vivere in montagna costa di più, fare arrivare in ciascuno di questi borghi i prodotti di consumo e i combustibili, per queste strade maledette che salgono e scendono, una curva dietro l’altra, il fondo infido, deformato dai movimenti continui del versante, che nessuno più aggiusta, il riscaldamento delle case, l’ADSL che non funziona, insomma qui la vita costa un terzo in più. Prima c’erano le leggi sulla montagna, un regime permanente di agevolazioni per compensare questi svantaggi strutturali. Ora niente. Certo, posso prendere la Fortorina e andare per la spesa nei supermarket di Benevento, così poi i negozi e i servizi di paese chiudono uno a uno, e i borghi si spengono.”

Con Nicola arriviamo a San Marco dei Cavoti, ci aspetta il sindaco, Gianni Rossi, è medico, ha fatto ambulatorio tutta la mattina, andiamo insieme a mangiare qualcosa. Gli dico che San Marco in fondo è uno dei comuni che resiste meglio, il calo demografico à “solo” del 24%, lui scuote la testa: “Nel 2017 i numeri sono questi: 65 decessi, 16 nascite, una trentina di giovani cambieranno residenza perché hanno trovato lavoro fuori.” Gli chiedo cosa può fare un sindaco come lui per contrastare il declino. “Che vuole che le dica. Nel 2012, per salvare i conti pubblici, il trasferimento dallo Stato centrale si è dimezzato, da un milione e due a seicentomila euro, e quelli sono rimasti. Posso a stento fare le cose essenziali, ma i soldi per la manutenzione delle strade, ad esempio, non ci sono proprio più. Bisogna integrare, e ci sarebbe l’eolico, qui il vento non manca, ma il comune la convenzione l’ha fatta più di vent’anni fa, non c’era consapevolezza, al territorio restano le briciole, una settantina di migliaia di euro l’anno, i comuni che sono arrivati dopo prendono dieci volte di più. Almeno potessi installare una pala nell’area industriale e poter dire alle aziende che l’energia gliela pago io, ma non si può fare”. Già, l’area PIP, una sventagliata di milioni per realizzare aree industriali in ogni comune, naturalmente sono mezze vuote, quando ce ne voleva magari una sola, intercomunale, ben agganciata alla Fortorina.

“Certo c’è il distretto dolciario, è un’eccellenza di San Marco, fino a quindici anni fa c’era anche il tessile, una quindicina di aziende che lavorava per le grandi case del lusso, ora è tutto delocalizzato fuori d’Italia”. Il suo cruccio ora sono le scuole, a San Marco ci sono due istituti superiori di buona tradizione, il classico e ragioneria, prima ogni anno si formavano due nuove classi di una trentina di ragazzi da tutti i paesi vicini, ora le iscrizioni si sono quasi dimezzate, e anche il bonus per i trasporti della Regione paradossalmente non ha aiutato perché, mi spiega il sindaco “è più facile beneficiarne impiegando le linee maggiori che portano a Benevento, le famiglie così risparmiano anche mille euro l’anno a ragazzo, l’abbiamo fatto presente, contiamo che a questa distorsione si trovi rimedio.”

La discussione continua sul corso bello di San Marco, le facciate colorate, i portali e le cornici in pietra, tutto curato, tutto pulito, fino al negozio storico di Borrillo, qui il tempo si è proprio fermato, insegna vetrine arredi sono quelli originali fin de siècle del 1891, come li realizzò il Cavalier Innocenzo, classe 1871. “Da ragazzo il nonno aveva lavorato a Napoli da Caflish in Via Toledo. Era innamorato della città, una volta impegnò l’orologio per una prima del San Carlo. Si fece le ossa, poi  tornò a San Marco per aprire il primo laboratorio artigianale, e s’inventò i piccoli torroni baci ricoperti di cioccolato.” Col nipote Innocenzo sediamo ai tavolinetti, nel frattempo arriva una cassatina profumata, la glassa di mandorle siciliane, ma la ricotta finissima è quella del Fortore. Gli chiedo cosa significa per loro, che ora vendono in tutto il mondo, rimanere qui tra le colline, lui sorride come a dire: è la nostra identità, non potremmo lavorare altrove; però poi gira le fiere internazionali per tenere il passo con l’innovazione, i ragazzi fanno l’università a Napoli, il torroncino sta costruendo il suo futuro e l’intuizione di nonno Innocenzo comunque è germogliata, ora sono nove le aziende dolciarie di San Marco, un minuscolo distretto di altissima qualità.

Seduto qui, al centro del Fortore, penso che Rossi-Doria nella sua relazione sul terremoto dell’’80 aveva proprio ragione, queste sono terre di altissima civiltà. Nel titolo c’era scritto “situazione, problemi e prospettive”, parole di un tempo – ma stava già finendo – in cui si ragionava ancora come se ci fosse comunque un orizzonte per migliorare le condizioni del vivere comune.

Se solo per un attimo silenziamo i cinguettii dei social, possiamo ancora ascoltare le richieste ragionevoli, basiche di questi territori: lavoro, scuole, mobilità. Qui non si tratta di Cilento o Fortore, è l’80% dell’Italia che lo chiede, le parti dello stivale che nella fotografia notturna della NASA appaiono più in ombra, mentre le aree metropolitane sfavillano. Agganciate alle supply chain internazionali loro in qualche modo ce la faranno. Ma è qui, in queste colline piene di vento che lo Stato è chiamato a fare il suo mestiere, a ritrovare una ragione d’essere, altro che le favole sul sovranismo: nell’Italia di oggi, come ieri nella Tebe di Edipo “a niente vale una torre né una nave – né un paesaggio, è il caso di dire –  vuoti di uomini che in essi vivano insieme.”

I link agli articoli sul sito web di Repubblica

L’articolo sul Cilento

L’articolo su Alta Irpinia e Fortore

 

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 9 luglio 2018 

Un viaggio nella Campania che non vuole spegnere le luci, i trecento piccoli comuni della cintura appenninica che lottano per sopravvivere, in questo inverno della demografia che l’ISTAT prevede per il Mezzogiorno nel prossimo quarantennio, con la perdita di tre milioni e mezzo di abitanti, il 25% in meno, e la popolazione del Sud Italia che passerebbe così dal 34 al 29% di quella nazionale. Un declino legato al crollo delle nascite – in questa che pure era la terra più giovane d’Italia – e all’emigrazione economica, come la chiamano ora, che è ripresa con forza: 700.000 persone nell’ultimo quindicennio hanno lasciato il Sud, per tre quarti sono giovani tra i 15 e i 34 anni, spesso i più preparati e motivati.

E’ evidente che il “depauperamento del capitale umano”, come lo chiama ISTAT, non colpisce allo stesso modo le due Campanie: la metropoli costiera da Capua a Battipaglia, dove vive assiepato, sul 15% appena del territorio, il 75% della popolazione regionale, e nella quale comunque si produce un quarto del PIL dell’intero Mezzogiorno. E la Campania fragile dell’Appennino, l’orizzonte rarefatto di colline, altopiani e montagne, dal Matese al Cervati, la “regione di antica e solida civiltà”, come ricordava Manlio Rossi-Doria, punteggiata di piccoli centri, per i quali lo spopolamento non è una minaccia futura, ma una condizione esistenziale già a lungo sperimentata.

Per capire qualcosa di questa Spoon River appenninica la prima tappa è in Cilento, dove i tre quarti del territorio, 75 comuni su 98, sono in fase di spopolamento. Dal 1961 il calo medio è del 30%: cinquantasettemila persone sono andate via da questi paesi, 51 dei quali hanno ora meno di duemila abitanti. Una legge spietata dice che il calo demografico è più alto proprio nei comuni più piccoli, in una spirale che si autoalimenta. In minuscole realtà con meno di 500 abitanti, come Valle dell’Angelo, Sacco, Sant’Angelo a Fasanella, il crollo è del 70-80%.

Di queste cose parlo con l’urbanista-contadino Fabrizio Mangoni. Fabrizio è da poco in pensione, è stato docente di urbanistica alla Federico II, qui in Cilento a San Mauro ha restaurato un casale, circondato da oliveti e alberi da frutto; assieme alla sua Caterina ha faticosamente rimesso le terre a coltura, tagliando a mano rovi e cespugli, col trattore si sarebbero distrutti i preziosi muretti storici di pietra arenaria.

Ora Fabrizio produce olio, ma non ha smesso con l’urbanistica, si è gettato anzi in una nuova impresa, il piano urbanistico di Pollica, che nascerà coordinato con quelli dei comuni vicini di S. Mauro e Serramezzana. “Molte delle riunioni di lavoro, e gli incontri con i cittadini, li facciamo ai tavolini del bar. La prima cosa che ho imparato lavorando qui è l’importanza del senso di comunità, di appartenenza, far circolare proposte e idee nella vita quotidiana del paese, ascoltare le persone, ragionare con loro, altrimenti è tutto inutile. La seconda cosa è che non ci sono scorciatoie, il turismo balneare da solo, concentrato in una quarantina di giorni, non è una risposta allo spopolamento e alla mancanza di lavoro, anzi aumenta gli squilibri. Tanto più che in questi luoghi incantati il capitale territoriale ha limiti fisici precisi, pensa solo alla capacità della stretta fascia di litorale di contenere bagnanti e automobili. Questi limiti non vanno superati, se non vogliamo creare, invece del turismo sostenibile, solo congestione e degrado”.

Poi c’è il calo demografico e l’invecchiamento, che colpiscono duro anche qui: la popolazione dei tre comuni si è dimezzata rispetto al 1961, ora gli abitanti sono 2.600 in tutto, ma c’è un intera fascia che manca, quella in età riproduttiva. Diradati gli uomini, l’agricoltura ha abbandonato gli antichi spazi, velocemente coperti da macchia mediterranea e boscaglia. “Alla fine” mi dice Fabrizio “è anche attraverso il recupero del paesaggio agrario storico che è un riequilibrio è possibile. Dispersi nel territorio, ci sono un centinaio di  magazzeni  – gli annessi rustici per la conservazione e la lavorazione dei prodotti – oramai in abbandono. L’idea è, anziché costruire villette inutili, di recuperare questo patrimonio tradizionale, legandone il riuso all’impegno di riprendere la coltivazione dei suoli. Ai nuovi abitanti chiediamo di aiutarci a curare lo spazio agricolo inselvatichito, di diventare i nuovi agricoltori multifunzionali, seguendo le indicazioni del nuovo piano urbanistico”.

Tutte queste cose Fabrizio le ha raccontate lo scorso mese di maggio nel suo intervento al Festival sullo spopolamento, che si è svolto a Ceraso, a una trentina di chilometri da Pollica, verso sud. L’idea del festival è dell’editrice Maria Liguori, con l’associazione “Festinalente”, il nome riprende l’ossimoro di Augusto e Cosimo de’ Medici: “affrettati lentamente”; insomma, sii risoluto, ma con cautela, un’indicazione buona anche per le politiche per il Mezzogiorno.

Ceraso è un comune di 2.400 abitanti, cinquant’anni fa erano mille in più. Quando dopo la crisi dei migranti dell’estate 2017 il ministro dell’interno Minniti chiese aiuto ai comuni, il sindaco Gennaro Maione fu tra i primi ad aderire allo SPRAR, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Così il paese ha accolto 4 famiglie cristiane siriane, 20 persone, subito inserite in un percorso integrato di accoglienza, dalla scuola, allo sport, fino all’avviamento al lavoro, nel corso di un triennio. “Domenica scorsa” racconta Maione “il parrocco ha battezzato due bambini siriani, c’è stata una festa, con la partecipazione di tutte e cinque le frazioni del paese”.

Lo sforzo della piccola comunità non può essere sottovalutato: in proporzione è come se Napoli avesse accolto 8.000 profughi in un colpo solo. “Certo” continua il sindaco “occorre misura, tener conto della reale capacità di accoglimento. Non è solo così che possiamo contrastare il declino demografico, ma è comunque un passo per la rivitalizzazione dei nostri paesi”. La scelta di Ceraso non è isolata, il Cilento sta funzionando come laboratorio di integrazione, se a San Mauro la coltivazione dell’olivo è salva grazie agli immigrati indiani del Punjab.

Il viaggio prosegue, ancora 50 chilometri a sud, fino a Morigerati, minuscolo borgo di 600 abitanti, erano il doppio cinquant’anni fa, tra i querceti scuri sulle gole del Bussento, dove c’è l’Oasi WWF, coi fiotti di acqua gelida tra le rocce che accarezzano il mulino secolare. Qui con i ragazzi del paese il sindaco Cono D’Elia ha organizzato un efficiente servizio di promozione, con il paese che è diventato un unico albergo diffuso, puoi prenotare on line un appartamento in centro storico, un casale nel verde o un agriturismo in un paesaggio mozzafiato da Medioevo. Attorno al borgo, tutta una rete di produzioni agricole di qualità, con Bruno de Conciliis che su 8 ettari di incolti, dati in concessione dal comune, produce ora un gran fiano che si chiama Invitta; e i 50 ettari che la cooperativa di agricoltura sociale “Terra di resilienza” coltiva a grani antichi, le sementi recuperate dopo lunghe ricerche, con la filiera che si chiude al ristorante, dove le trafile puoi gustarle sapientemente cucinate. “Tutte queste esperienze” mi dice D’Elia con orgoglio “le abbiamo raccontate a New York lo scorso mese di maggio, con l’Università di Fisciano, al Forum delle Nazioni Unite sullo sviluppo locale”.

Il viaggio sta per concludersi. Gli ultimi quindici chilometri, verso il Golfo azzurro di Policastro, sulle colline di Santa Marina, dove c’è uno degli ultimi istituti comprensivi della Campania, su un territorio sconfinato, gli 8 plessi sono distanti anche 40 chilometri, per andare dall’uno all’altro occorrono tre quarti d’ora per strade montane tutte curve. La dirigente Maria De Biase è sconfortata: la scuola elementare su in montagna, nella frazione “Fortino” di Casaletto Spartano, al confine con la Basilicata, il prossimo anno chiuderà, solo quattro bambini iscritti, fino a pochi anni fa erano una decina.

“E’ triste doverlo dire, ma per noi che lavoriamo in frontiera, qui in Appennino, le soglie dimensionali sono le stesse che per una scuola di città. Ora abbiamo 500 studenti, ma siamo pericolosamente vicini alla soglia dei 400, alla quale scatta l’obbligo di ulteriore accorpamento. L’offerta didattica che proponiamo ai bambini e ai loro genitori è tutta incentrata sull’ambiente, l’alimentazione e la civiltà locale, la conoscenza di questa terra può essere uno stimolo a rimanere, ma il personale è risicato, se l’unico bidello della sede di montagna si ammala la scuola non apre.”

“A realtà diverse politiche diverse”, non si stancava di ripetere Rossi-Doria, ma il Paese in questo momento proprio non comprende. Per mantenere una presenza dello Stato e dei servizi essenziali qui dove ce n’è più bisogno ed è più difficile vivere, occorre uno recupero di equità, intelligenza, lungimiranza. Sennò le buone pratiche che abbiamo raccontato, in questo laboratorio vivo di natura e cultura che è il Cilento, rischiano di non farcela, ed anche le politiche per le aree interne si rivelano per quello che sono: risarcimenti simbolici per deprivazioni territoriali che noi stessi contribuiamo a creare, inseguendo un’efficienza di facciata, mentre l’inverno dello spopolamento avanza.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 3 maggio 2018

Se un museo è una macchina del tempo, anche questi corridoi lo sono, dov’è la Direzione dell’Archeologico, qui l’orologio si è proprio fermato, le pareti chiare, le stampe e le cornici austere e lucidate in legno, è un pezzo d’Italia d’inizio ‘900, potrebbe essere un ministero o un liceo, c’è aria di Risorgimento, Cuore e “questa è una carezza del re”; l’aria di uno Stato che sembrava ancora forte, e invece stava per incrinarsi, sotto i colpi della Grande Guerra. Paolo Giulierini arriva che sono passate le sei del pomeriggio, la fatica della giornata sul volto, ha appena chiuso un consiglio di amministrazione del Parco archeologico dei Campi Flegrei, la sua nuova avventura, in contemporanea con la direzione del MANN, il Museo Archeologico Nazionale, che già gli sta dando importanti soddisfazioni.

Gli chiedo subito cosa cambia con l’istituzione del nuovo Parco archeologico dei Campi Flegrei, e lui si rianima, s’accende, la stanchezza scompare di colpo: “L’intuizione dei Ministero di affidare ad un’unica soprintendenza speciale, per intero, l’immenso patrimonio archeologico flegreo è un cambiamento di rotta epocale. Prima questi beni erano figli di un dio minore: nella programmazione dei fondi e degli interventi finivano sempre per prevalere le Soprintendenze forti, come Pompei e Ercolano. Con l’istituzione del Parco archeologico dei Campi Flegrei abbiamo finalmente, per la prima volta, la possibilità di immaginare una strategia unitaria di tutela e valorizzazione di un patrimonio che comprende venticinque siti di straordinaria importanza, a cominciare dai parchi archeologici di Cuma, Baia, Liternum; e poi la serie strabiliante di anfiteatri, necropoli, grotte, ipogei, templi, cisterne monumentali, vestigia di città e ville imperiali sommerse… “.

Il fatto è che tutta questa magnificenza si trova in qualche modo dispersa nel caos rur-urbano di quattro comuni, un territorio di 15mila ettari, del quale fanno parte realtà tumultuose come Giugliano, ormai terza città della Campania, e Pozzuoli, che è quinta, oltre ai comuni più piccoli di Baia e Monte di Procida. In quest’area, alla metà del ‘900, la città occupava solo il quattro per cento dello spazio complessivo, ora è il quaranta. Ciò significa che il paesaggio imperiale di vulcani verdi, selve, solfatare, vigneti, masserie, laghi e litorali fantastici si trova adesso sbrindellato in mezzo a una colata urbana senza regole né forma.

In questo quadro territoriale complicato, l’idea di Giulierini è chiara: “I Campi Flegrei esprimono ancora, nonostante tutto, una natura e un paesaggio strepitosi. Geologia, flora, vegetazione, fauna, presentano aspetti unici al mondo, e tutto è interconnesso: senza il vulcanismo non ci sarebbero state terme e ville imperiali. Le attività di tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico non possono prescindere da questo, e devono essere pensate su base interdisciplinare. Nell’ultimo consiglio di amministrazione del Parco abbiamo approvato un programma di alleanze e collaborazioni con la comunità scientifica. Assieme a loro vogliamo progettare una rete di itinerari mozzafiato nella natura e nella storia, per ri-connettere e rendere leggibile al visitatore questa rete fantastica di monumenti, ecosistemi e aree verdi”.

Del resto, l’aveva annotato Goethe nel suo diario di viaggio, lui che era geografo e botanico insigne, prima che poeta, quando il primo marzo 1787 visita l’area flegrea, “la regione più meravigliosa del mondo”,  con le sue rovine “di un’opulenza appena credibile”, e la vegetazione lussureggiante, “che s’insinua da per tutto dove appena è possibile, che si solleva sopra tutte le cose morte in riva ai laghi e ai ruscelli e arriva fino a conquistare la più superba selva di querce sulle pareti di un cratere spento. Così, siamo continuamente palleggiati fra le vicende della natura e della storia”.

“Un’altra decisione importante del CdA” mi dice ancora Giulierini “è il piano strategico, che sarà pronto entro l’autunno. C’è chi ironizza su queste cose, ma è una novità fondamentale introdotta dalla riforma. Prima, il cittadino non poteva conoscere le intenzioni e gli indirizzi della soprintendenza. Con il piano strategico, vengono invece dichiarati in modo trasparente le linee di gestione, gli obiettivi, le risorse, i tempi. Vengono definiti i servizi che lo Stato si impegna a fornire alla collettività, ad ogni singolo cittadino.”

Gli chiedo quanto pesano i limiti di organico, l’età avanzata dei dipendenti, le scarse competenze informatiche. Su questi aspetti Giulierini non si mostra eccessivamente preoccupato: “Guardi, con le nuove regole il Museo Egizio di Torino riesce a gestire un milione di visitatori (il doppio di quanti ne fa oggi il MANN, che pure sta raddoppiando ogni anno) con un organico 35 persone. Non è solo una questione di numero. Del resto, i beni culturali non possono continuare ad essere come in passato un ammortizzatore sociale, pretesto per la creazione di occupazione pubblica poco qualificata. Con il nuovo concorso nazionale arriveranno 4-5 nuove risorse, altamente preparate. Alla fine, con un organico di 80 persone (50 custodi e 30 tra amministrativi, architetti e archeologi) penso di poter gestire il nuovo Parco. Certo, quelle che mancano sono le competenze specialistiche, come gli esperti di marketing e fundrising. Per gestire le donazioni liberali con le agevolazioni fiscali previste dall’Art Bonus abbiamo dovuto stipulare una convenzione con l’Ordine dei commercialisti”.

Mentre lo ascolto, penso che il lavoro di Giulierini in questi anni si è progressivamente esteso,  con onde concentriche che hanno coinvolto a partire dal MANN ambiti territoriali via via più vasti. E’ successo con l’ExtraMANN, la rete convenzionata di 16 musei, siti archeologici e storici della città, ai quali si può accedere col 25% di sconto acquistando il biglietto dell’Archeologico. Con la direzione del nuovo Parco dei Campi Flegrei il progetto di Giulierini si propaga ulteriormente, tanto più che dal punto di vista geologico i Campi Flegrei finiscono nella città di Napoli, con l’ultima collina di tufo giallo di Poggioreale, prima che inizi la valle del Sebeto. “La mia idea è che il MANN debba essere l’epicentro, il portale del nuovo Parco archeologico. Già nel museo ospitiamo importanti reperti che provengono dall’area flegrea, come il Giove di Cuma, e nel 2019 abbiamo in programma una mostra sui rinvenimenti subacquei. Tra il MANN e i Campi Flegrei dovrà esserci una fitta rete di scambi, iniziative, sinergie.”

“Certo” conclude Giulierini “ci sono tante cose da fare. Perché possa vivere, la rete di itinerari che innerverà il Parco deve essere supportata da un trasporto pubblico e una segnaletica all’altezza. In questi luoghi bisogna poter muoversi e arrivare in modo meno precario e avventuroso di quanto accada oggi. Lo Stato, attraverso la Soprintendenza, può aiutare le comunità locali in questa riorganizzazione dei servizi, superando localismi ed egoismi, in un’ottica di interesse generale. La creazione nei Campi Flegrei di questa rete unitaria, vivente di storia e di natura, è probabilmente il solo modo per arginare la frammentazione, il degrado, l’abbandono; per rispondere alla richiesta disperata di un territorio che abbia senso per le persone, che funzioni meglio, nel quale sia più bello e facile vivere”.

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 4 giugno 2018

Non sappiamo quali fossero i progenitori, nel sottobosco ombroso di qualche foresta cinese o birmana, ma dopo una quindicina di secoli di incroci e selezioni il limone è veramente la pianta delle meraviglie, l’albero della vita, perennemente verde e rifiorente, coi fiori, i frutti acerbi e quelli maturi contemporaneamente presenti sulla stessa pianta. Da noi è arrivato con gli Arabi nell’undicesimo secolo, in Penisola la coltivazione moderna l’hanno iniziata i Gesuiti alla metà del ‘600, proprio al podere del Gesù a Massalubrense, che è ancora lì, se nel frattempo non ci costruiscono un parcheggio.

Insomma, dopo i versi celeberrimi di Goethe (“Conosci il paese dove fioriscono i limoni?”), è questa la pianta che da sola definisce il giardino mediterraneo, cioè quanto di più vicino all’Eden ci sia dato immaginare, e il mistero è ancora vivo, se la comitiva di tedeschi che mi precede, spontaneamente zittisce e sgrana gli occhi entrando nell’ombra verde del Giardino di Vigliano, a Massa Lubrense, il limoneto storico tra i più belli della Penisola: una cattedrale di foglie e costellazioni di frutti luminosi, sotto il pergolato connesso di pali di castagno, le pagliarelle e i frangivento, in una costruzione lignea perfetta, da villaggio medioevale.

E’ Peppino Nunziata l’agricoltore autore e custode di tanta bellezza, da quarant’anni ha cura del limoneto affacciato sul mare, è un’eredità di famiglia, prima c’erano i coloni; al tramonto del secolo d’oro degli agrumi, dalla metà dell’800 all’ultimo dopoguerra, stava andando in rovina, lui l’ha restaurato, ha ricostruito le pergole, alte come una casa di due piani, con i pali tenuti insieme da legature sapienti, i chiodi spaccherebbero tutto; ha ripreso e curato le antiche piante ad una ad una. “Il limone è una pianta straordinaria, risponde alle attenzioni come un bambino. Coltivarla in Penisola è una follia, un azzardo, l’inverno è troppo freddo, basta un’ora di tramontana per distruggere all’istante fiori e germogli. Di qui la necessità delle protezioni, che sono il frutto di una sperimentazione lunga quattro secoli, a partire dal lavoro pionieristico dei Gesuiti.”

“Un’opera che si conclude all’inizio del ‘900” mi dice Tonino De Angelis, massimo esperto di paesaggio e cultura materiale della Penisola. “E’ negli anni della Grande guerra che il pergolato tradizionale assume finalmente la forma che conosciamo. Allora l’economia del limone e dell’arancio, con l’esportazione via mare verso l’America e il Nord Europa, era fonte di benessere e ricchezza diffusa, gli agricoltori divennero benestanti, riuscirono a comprare la terra, i grandi commercianti diventavano sindaci e armatori. Poi negli anni ’60 l’inizio della crisi, coi proventi agricoli che cominciarono a finanziare l’edilizia piuttosto che il rifacimento delle pergole e dei terrazzi, l’associazionismo agricolo che non decolla, il turismo di massa che esplode, ora sono i proprietari d’albergo ad esprimere la leadership e dirigere la comunità.”

Nel frattempo, la civiltà degli agrumi aveva costruito in Penisola il paesaggio straordinario dei terrazzi, che è un miracolo, perché frutto di singoli investimenti familiari, mirabilmente coordinati, come in un progetto collettivo non scritto, perfetto come un orologio, col sistema di strade e drenaggi, la casa rurale e l’arboreto che sono un tutt’uno, e l’agrumeto che è allo stesso tempo macchina produttiva e giardino di piacere, ornato di rose, ortensie e camelie. “Un paesaggio nato senza bisogno di architetti” mi dice Tonino con un fondo d’ironia “dove la bellezza è il prodotto secondario di un’economia e una cultura”.

E’ a partire da questa bellezza che quarant’anni fa Peppino Nunziata decide di far nascere la sua azienda. “Fu una visione a guidarmi, l’idea di tenere insieme l’agricoltura storica della Penisola, con le tecniche tradizionali del pergolato e del terrazzo, che non potevano essere tradite; la coltivazione biologica del limoneto; l’accoglienza dei turisti in azienda, pensata come un museo vivente, per raccontare una storia lunga cinque secoli.” L’idea ha funzionato: il Giardino di Vigliano è stabilmente inserito negli itinerari dei più importanti tour operator tedeschi, coi turisti che arrivano apposta, come si visita un monumento celebre. Una missione che ha finito per conquistare i due figli di Peppino e Ida, Luigi e Valentina, che sono ora il motore dell’azienda.

Ci sediamo in giardino, nell’ombra chiazzata di luce, Peppino è un uomo piccolo e vigoroso, il profilo affilato e lo sguardo battagliero. “Una cosa importante” mi spiega “è stato il riconoscimento comunitario del limone di Sorrento, un marchio di qualità che valorizza il limone, insieme ai prodotti trasformati, a partire dal Limoncello, che assorbe oggi più del 60% della produzione. E’ stata la nostra salvezza, perché sul mercato del fresco siamo in difficoltà, con le produzioni argentine e spagnole ad alta meccanizzazione che si commerciano a 30-40 centesimi il chilo, quando il nostro costo di produzione è perlomeno doppio, c’è da coprire il lavoro, interamente manuale, per la cura delle piante, i terrazzi, le pergole e il paesaggio.”

Nel frattempo i turisti siedono ai tavoli, nell’aia del casale medioevale, sotto la torre cinquecentesca che svetta tra gli arboreti, sull’azzurro del golfo. Parlano a bassa voce, stanno gustando un piatto semplice e raffinato di ricotta freschissima, spolverata con scorzetta di limone, è la sintesi perfetta di un paesaggio, dai pascoli dei Lattari agli arboreti sul mare, un’esplosione indimenticabile di aromi e sapori.

“La strada immaginata da Peppino” mi dice Grazia Stanzione, agronomo dell’Assessorato regionale all’agricoltura, “è l’unica per mantenere in vita l’agricoltura eroica della Penisola: le aziende devono aprirsi al mondo; essere in grado di incorporare nelle produzioni il valore di questo paesaggio unico, delle esperienze e suggestioni che è in grado di suscitare. Le potenzialità restano enormi, ora che anche l’associazionismo è finalmente partito, con la cooperativa Solagri che raccoglie e valorizza il prodotto  di 300 agrumicoltori piccoli e grandi della Penisola. Certo è un lavoro impegnativo, non tutti ce la fanno, sono molti i poderi abbandonati, ed è un problema, il paesaggio storico si trasforma in boscaglia, senza manutenzione i terrazzi franano. Dobbiamo imparare dalle Cinque Terre, lì gli incolti sono recuperati grazie al Parco e affidati a giovani agricoltori.”

Torniamo all’idea del grande progetto collettivo, ma da queste parti l’agricoltura tradizionale, che pure è all’origine della grande bellezza, non è ancora la priorità, minacciata su fronti opposti, dall’abbandono e dall’urbanizzazione. “E’ triste dirlo” mi spiega Giuseppe Guida, urbanista, che in questa terra ci è nato “ma le tutele di fatto sono saltate. Prima con la legge sui box interrati, poi con il Piano casa, si è di fatto introdotto un regime di deroga permanente alla pianificazione ordinaria. Il consumo di suolo in Penisola è inarrestabile, con una serie incessante di grandi e piccole trasformazioni, che finiscono per erodere irreversibilmente il capitale storico di arboreti, terrazzamenti, masserie. Sono troppi i recuperi di annessi rustici finanziati coi fondi comunitari, che si trasformano poi in casa-vacanze, bisognerebbe controllare. Insomma, occorrono nuove regole e strategie, altrimenti non c’è partita: l’edilizia batte l’agricoltura, anche quella multifunzionale di Peppino Nunziata, di due ordini di grandezza. L’industria del turismo deve capire che così non c’è futuro, che è il paesaggio il motore di tutto, se solo riusciamo a rispettarlo, curarlo e farlo vivere.”

 

Ugo Leone, Repubblica Napoli 31 gennaio 2018

Quella in atto si potrebbe chiamare la lezione del Vesuvio. Della montagna. Del vulcano che quelli un po’ più attenti alla sua presenza guardano con attenzione quando non con timore. Quello che Renato Fucini ha definito “ il grande delinquente dalle bellissime forme che tutti ammirano perché è feroce, che tutti amano perché è bello”.Giusto quattro mesi fa se ne era già accorto Antonio Di Gennaro (“ La natura rifiorisce sul Vesuvio”) osservando che cosa vi era restato dopo i disastrosi incendi dell’estate. E scriveva il 15 settembre, dopo averne parlato con Antonello Migliozzi del Laboratorio di ecologia applicata della Federico II, che “ pochi giorni dopo il grande incendio le querce e le ginestre hanno ripreso a ricacciare, piccole mani verdi si distendono nuovamente nello spazio senza vita, l’ecosistema vulcanico ha già ripreso il suo corso”.
E quel corso l’ha effettivamente ripreso come si può vedere anche da lontano. Segno che il vulcano non è un grande delinquente. Al contrario si riprende dopo aver subito ogni tipo di delinquenze. Peraltro in aggiunta a quelle che di suo è in grado di manifestare.
E mi fa pensare ad un possibile confronto, sia pure a scala e per situazioni appena un po’ confrontabili, tra gli incendi e la distruzione estiva e il paventato rischio di una sesta estinzione che incomberebbe sull’umanità a causa dei forti mutamenti climatici.
Questa nostra estinzione verrebbe dopo quella che 65 milioni di anni fa portò all’estinzione dei dinosauri.
Ma quello che è importante sapere proprio con riguardo al Vesuvio e alla sua lezione, è che dopo ogni estinzione, c’è stato quello che l’etologo Danilo Mainardi definiva un “rigoglio evolutivo” favorito dalla scomparsa della causa che le aveva prodotte. Di più, Enrico Alleva presidente della Federazione di scienze naturali e ambientali, nota che “quando gli uomini abbandonano zone coltivate, lasciano agli animali un’esplosione di risorse”.
“Le viti o gli alberi da frutto producono certo di meno senza la cura degli agricoltori, ma lasciano i loro prodotti agli animali. Uccelli e roditori se ne nutrono, favorendo così i serpenti che sfamano a loro volta i rapaci”. Insomma “quando l’uomo va via, il bosco si espande. Gli scoiattoli sotterrano le ghiande e poi le dimenticano”.
“Idem fanno le ghiandaie. Gli alberi crescono, a meno che il capriolo con i suoi denti a scalpello non li mangi da piccolo. E anche altre specie come lupi e cinghiali aumentano di numero”.
Ecco, sia pure in misura diversa e, fortunatamente, senza la proliferazione di specie come lupi e cinghiali, e senza i danni del capriolo, è quanto sta avvenendo sul Vesuvio. Dopo i roghi estivi e l’inevitabile allontanamento di esseri umani le piante hanno “ ripreso a cacciare”; i roditori sono ricomparsi e persino s’ode augelli far festa.

vesuvio

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 16 ottobre 2017

Ancora in volo sul gigante ferito, la partenza è dall’Aeroporto militare, in una mattina grigia di nuvole, l’elicottero dei Carabinieri si solleva, resta sospeso in aria, il giovane pilota è Tom Cruise spiccicato, aspetta l’attimo giusto, poi taglia veloce le piste di Capodichino, attraversa la zona orientale, l’area dei petroli, in un niente siamo sul vulcano. Sono con il colonnello Angelo Marciano dei Carabinieri Forestale, con Stefano Mazzoleni, ecologo della Federico II, e con Riccardo Siano, tutto imbracato, toccherà a lui poverino sporgersi dal portellone aperto, e catturare le immagini del vulcano bruciato.

Giriamo subito dietro il vulcano, il drappo verde dei castagneti, sui valloni del Somma, è striato di bruno, come in un innaturale autunno precoce: Stefano mi spiega che sono le chiome degli alberi scottate dal fuoco, che si è propagato veloce nel sottobosco, poi è divampato verso l’alto, formando sulla cresta cupi ventagli neri, di foresta completamente arsa.

Dall’alto, il manto vegetale del grande vulcano appare lacero, consumato dopo l’estate di fuoco. Sul versante di Terzigno, la grande pineta è ridotta ad un alone di cenere, con un arcipelago di chiazze verdi superstiti, cerchiate di bruno; si vedono già alcuni segni d’erosione, lunghe colate di suolo e detriti, grazie a Dio sono ferite localizzate, da curare in fretta; come in fretta, tra i carboni, c’è già il verde dei germogli di lecci e robinie, i segnali dell’ecosistema che riparte.

Alla fine, in una contabilità drammatica, che non ha precedenti, sono andati distrutti o danneggiati dagli incendi sul Vesuvio poco meno di duemila ettari: settecento di pineta (il 40% dei boschi di conifere piantati cinquant’anni fa), trecento ettari di boschi di latifoglie, i restanti mille ettari sono un mosaico di ginestreti, praterie, vegetazione pioniera, con il fuoco che non ha risparmiato nemmeno le distese lanuginose di licheni sulla colata del ’44 che ora, nella Valle del Gigante, è un fiume nero di antracite.

L’elicottero si libra sulla cima, sorvoliamo il cratere di rocce rosse e grigie, è uno spettacolo strepitoso, che emoziona, ti ricorda che il vulcano, per quanto imprigionato in mezzo alla città, rimane un dio potente, un monumento naturale tra i più famosi e amati del mondo.

Siamo tornati sul Vesuvio per riordinare le idee, lunedì 16 ottobre a Napoli, a Palazzo Reale è in programma un importante convegno nazionale, organizzato dal Comando Generale dei Carabinieri: non una passerella rituale, ma il primo dibattito pubblico, approfondito, sulla lezione di questa estate difficile, a partire proprio dal caso studio del Vesuvio, per ragionare concretamente su come “Tutelare i boschi dagli incendi: proposte e azioni per la salvaguardia e il recupero del territorio”.  Ci saranno i massimi vertici dell’Arma, e quelli politici e amministrativi dei Ministeri dell’Ambiente e dell’Agricoltura, della Regione, del Parco nazionale, assieme a ricercatori italiani e stranieri, e rappresentanti delle associazioni ambientaliste.

La domanda urgente, cui dare risposta, è come gestire quel 30% del territorio italiano, quasi nove milioni di ettari che, stando ai dati dell’Inventario forestale nazionale, è costituito da boschi: aree verdi multifunzionali, assolutamente preziose per la salute dell’ecosistema, la riproduzione dell’acqua, dell’aria e del suolo e che, come nel caso del Vesuvio, dopo la sovra-urbanizzazione del paese dell’ultimo mezzo secolo, non costituiscono più una dimensione remota, ma qualcosa che è ormai prossimo alle nostre case e alle città, che può rivelarsi quindi risorsa benigna, portatrice di svago, biodiversità e paesaggio; ma anche insidiosa sorgente di rischio, quando prende fuoco o, come a Sarno, ci frana improvvisamente addosso.

Certo, la lezione dell’estate 2017 dobbiamo comprenderla e studiarla bene, i dati del satellite Copernicus dicono che è stato l’anno nero degli incendi in Europa, con il Portogallo che è risultata la nazione più colpita in termini di superficie boschiva interessata, e proprio dal Portogallo interverrà al convegno Francisco Rego dell’Università di Lisbona, probabilmente il massimo esperto europeo di incendi forestali, per ragionare su quale strategia l’Unione dovrà mettere in campo per proteggere i suoi boschi, in uno scenario di cambiamento climatico che ha mutato radicalmente le condizioni di rischio.

Poi viene l’Italia, che è in testa per numero di incendi, e che ha pagato probabilmente un prezzo al recente riordino delle competenze, con la scelta di affidare ai soli vigili del fuoco il compito dello spegnimento, e ai carabinieri forestali quello della prevenzione. Sul Vesuvio, quest’estate, i vigili del fuoco hanno fatto un lavoro eccezionale per difendere le abitazioni e le vite umane, evitando una tragedia dai contorni maggiori, ma è risultato evidente come l’attuale strategia di intervento non comprenda ancora la protezione del bosco, oltre che quella nostra e delle nostre case.

In Campania, ulteriori difficoltà sono venute dalla riorganizzazione che c’è stata, proprio quest’anno, dell’anti-incendio boschivo, passato dall’assessorato agricoltura e foreste, alla Protezione civile. A questo s’è aggiunto il fatto che, negli anni passati, le squadre di intervento erano dirette da personale del corpo forestale, che ha perso questa competenza, ed ora bisognerà formare in fretta 200 direttori operativi di spegnimento, un compito delicato, che richiede autorevolezza e sagacia, una profonda conoscenza dei luoghi e del comportamento del fuoco, oltre che, naturalmente, la capacità di coordinare l’intervento aereo, assieme al lavoro delle squadre.

Poi c’è la prevenzione, che rimane compito del corpo dei Carabinieri Forestale, ed è un concetto anche questo che va probabilmente ripensato, nello scenario di cambiamento climatico che abbiamo davanti. Una missione che comprende certamente l’attività di repressione e controllo dei reati contro il patrimonio forestale, e qui probabilmente, come mi spiega Angelo, è anche necessaria una manutenzione della legge quadro del 2000 in materia di incendi boschivi, che individua una serie di comportamenti illeciti, per i quali manca poi una sanzione adeguata, rendendo vano il loro perseguimento.

Ma tenere in ordine nove milioni di boschi in Italia – una superficie in costante aumento a causa dell’abbandono agricolo – non è solo un problema di repressione, perché molto dipende dalla gestione, dalla cura costante e quotidiana delle foreste, per renderle più resistenti al fuoco, e più resilienti, cioè maggiormente capaci di recupero dopo l’incendio. In un’intervista a Radio Rai dello scorso giugno Davide Ascoli, docente del dipartimento di Agraria, che pure insieme a Stefano interverrà al convegno, ricordava l’indicazione dei maestri: “Gli incendi si combattono venti anni prima”.

Il senso del convegno è proprio questo: riannodare i fili, coordinare un’azione di lungo respiro dei diversi livelli istituzionali, costruire in questi tempi difficili di cambiamento una comunità di scopo, dallo stato centrale alle regioni al volontariato al mondo della ricerca, organicamente impegnata nell’obiettivo ultimo, che è quello di proteggere l’ecosistema Italia, del quale il grande vulcano che stiamo sorvolando, ferito e acciaccato, ma vivo, costituisce un simbolo, un pezzo importante.

Geppino Cilento, 1 ottobre 2017

Nel mentre inizio a scrivere queste note ancora non compare l’alba, ma non potevo dormire, nonostante queste giornate di intenso lavoro.
Mi si affollavano nella mente le immagini del trattore radiocomandato, che ieri nelle prime prove si è mosso leggero, potente e sicuro nei nostri uliveti con il carico disinvolto dello scuotitore, che si allunga ben equilibrato sulle altezze delle nostre piante.
Il nostro entusiasmo pensoso e soddisfatto.
Ma mi tornavano anche nella mente le ricerche affannose di una serata triste in cui Pietro, un nostro operaio, con il suo trattore non si trovava e non avrebbe fatto mai più ritorno a casa. Il suo ritratto ha campeggiato al centro del nostro frantoio gelosamente conservato dai suoi colleghi di lavoro, che quando finiscono di molire si dedicano alle coltivazioni.
Oggi voltiamo pagina rispetto a queste storie dell’asprezza della collina e della montagna, il 76% del territorio italiano, per i cui problemi si possono costruire tante soluzioni.
Che vivessimo in un sistema in cui problemi e soluzioni non si incontrano ce ne eravamo resi conto molte volte conto con Angelo Napoliello. Di qui la nostra decisione di non visitare più in maniera frettolosa le fiere della meccanizzazione agricola, per orientare qualcuno verso le problematiche a lungo irrisolte della collina e della montagna.
C’era e c’è nel nostro paese un grande bisogno di far incontrare
problemi e soluzioni, il Nord e il Sud, di mettere a lavorare insieme le forze sane. Giorni intensi a Bologna di lavoro a far incontrare i produttori dei trattori radiocomandati con quelli degli attrezzi agricoli ci portano al risultato delle prove di stamattina. E poi altre fiere e altri incontri, altre discussioni, altre prove e altre speranze.
Sottolineo questo aspetto, perché ritengo che ci sia un enorme bisogno di proseguire e intensificare questo impegno, che in questo caso sta sulle spalle di due pensionati, quali siamo io e Angelo Napoliello.
La collaborazione di due imprese, HYMACH e SPEDO, ha prodotto una bella macchina, che associa i requisiti della leggerezza e della potenza, della sicurezza e della efficacia, che affronta pendii pazzeschi senza scomporsi e cammina sulle reti di raccolta senza danneggiarle, che vibra le piante con buoni risultati e che non compatta i terreni per la sua leggerezza.
Ora abbiamo posto l’esigenza di associare alla macchina altri attrezzi agricoli, di proseguire la sperimentazione con attrezzi leggeri e rispettosi della vita della terra. Le macchine hanno bisogno sempre di essere migliorate.
Oggi mostriamo la macchina su terreni difficili, per cui chiediamo la collaborazione di quanti verranno, per non creare problemi di traffico.
Nel pomeriggio continua la discussione sui radiocomandati, ci occupiamo seriamente di concentrare la valutazione degli oli sugli antiossidanti benefici, che dovranno essere misurati nel frantoio, e di valorizzare gli scarti di produzione con impianti, semplici e non costosi di compostaggio.
Nel frattempo l’alba si è affacciata al mio balcone e la giornata ricomincia.
Mi auguro che tante persone di buona volontà si associno con umiltà e senso di collaborazione al nostro impegno per migliorare qualcosa.

La natura rifiorisce sul Vesuvio

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 15 settembre 2017

LA pioggia è tornata, l’estate crudele del fuoco grazie a Dio è finita, ma i pensieri rimangono, come qualcosa che s’è rotto per sempre. Ci sono innanzitutto gli aspetti quantitativi, le cartografie del satellite europeo Copernicus dicono che nel 2017, con quasi 400 roghi, siamo il primo paese in Europa per numero di incendi boschivi, con 72mila ettari andati in fumo, il 60% in più rispetto al 2016.

Tre incendi, più di altri, hanno occupato la nostra mente e le pagine dei giornali, quelli del Vesuvio, di Castel Fusano, e quello del Morrone, la montagna sacra di Celestino V. Sarebbe a dire il vulcano attivo più famoso del mondo, assediato da una caotica città anulare con 800mila abitanti; il bel litorale sabbioso a sud di Roma, così simile a quello nostro domizio, come lui avvilito dagli abusi e dalla marginalità; i rilievi poveri e severi della Majella, nel cuore dell’Appennino abruzzese, i luoghi delle mie estati, delle passeggiate in montagna con Argo. Tre paesaggi diversi, tre pezzi importanti d’Italia, con quell’intreccio lungo di storia naturale, umana e di problemi, che è poi la cifra della nostra identità.

Un aspetto importante lega questi paesaggi feriti, un filo rosso che più di altri può forse aiutarci a comprendere la nostra condizione attuale, a cercare una strada d’uscita, se tutte le evidenze dicono che l’estate che ci lasciamo alle spalle non può essere considerata un’eccezione, quanto piuttosto uno scenario nuovo, di lunga durata, dentro il quale pure dovremo imparare a muoverci. L’aspetto che accomuna i tre incendi è che non hanno colpito formazioni naturali, ma boschi che abbiamo piantato noi. La pineta di Castel Fusano l’hanno impiantata all’inizio del diciottesimo secolo i Sacchetti, che ne furono proprietari, sulle dune costiere spoglie, al margine dell’antica palude dove ora è il caos urbanistico del quartiere dell’Infernetto: il capostipite della ricca famiglia era banchiere nella Firenze del ‘200, Dante lo cita nel XVI canto del Paradiso, mentre il povero Celestino, a causa del gran rifiuto, è relegato in eterno tra gli ignavi. Anche le pinete andate in fumo sul Monte Morrone in Abruzzo, proprio attorno all’eremo di Celestino, e quelle alla base del Gran Cono del Vesuvio, le abbiamo piantate noi, ma queste sono pagine di storia importanti dello Stato unitario, i grandi miglioramenti fondiari, frutto delle politiche pubbliche che vanno dalla legge sulla montagna del 1923, alla legge Serpieri sulla bonifica integrale del ‘33; fino alla nascita della Cassa per il Mezzogiorno, nell’agosto 1950.

Insomma, queste pinete sono la testimonianza vivente di un impegno pubblico di scala nazionale, a beneficio delle aree più arretrate del paese, in quello che nel bene e nel male è stato il nostro New Deal: il tentativo collettivo di costruire un territorio e un paesaggio più produttivo e sicuro, anche piantando nuovi boschi, sul Vesuvio come in Appennino, o in riva al mare, sulle dune di Castelvolturno e di Eboli, in funzione anticiclica, creando lavoro ed occupazione nei momenti difficili, come dopo la crisi del ‘29, o nell’immediato dopoguerra. Quest’azione lo Stato l’ha condotta grosso modo fino agli anni ‘70, poi è cessata di botto, con il tramonto delle grandi politiche territoriali, l’ingarbuglio delle competenze, il passaggio a un regionalismo inconcludente. Certo non sono mancati gli errori. Sul Vesuvio, ad esempio, furono impiegate assieme alle conifere anche la robinia e la ginestra dell’Etna, che si sono poi comportate come infestanti invadenti. Ad ogni modo, con l’esaurirsi di quel ciclo storico, i rimboschimenti del ‘900 sono rimasti soli, senza manutenzione, senza gli sfolli, i diradamenti, la pulizia del sottobosco, tutti gli interventi necessari a mitigare il rischio del fuoco, e a facilitare il compito che alle conifere era specificatamente richiesto: quello di far da pioniere, di preparare il terreno, l’humus e il microclima per il ritorno a seconda dei casi di querce, lecci, frassini, faggi. Con la fine delle grandi politiche novecentesche di cura attiva del territorio, i rimboschimenti storici sono diventati come un’opera incompiuta, un paesaggio cristallizzato e sospeso.

Ho chiesto ad Antonello Migliozzi del Laboratorio di ecologia applicata della Federico II che sensazione ha provato nei sopralluoghi alle pinete carbonizzate sul Vesuvio, il 40% di quelle presenti sul vulcano, con le ceneri ancora fumanti e i tronchi neri, spettrali, spogliati e pur rimasti in piedi. In molti punti le ceneri erano bianche, segno che la combustione ha toccato i mille gradi, un’energia elevatissima, invincibile con qualsiasi mezzo. La sua risposta mi ha colpito: “È un disastro della nostra mente, prima che ecologico”, ricordandomi lo stupore atterrito di Orazio nell’Amleto, all’apparizione dello spettro (“È come un pruno nell’occhio della mente”).

Penso che Antonello si riferisse, oltre che alla pena per la foresta pietrificata, proprio a questa nostra incapacità di comprendere il patrimonio ricevuto in eredità, di percepirne il significato, la storia, di proteggerlo nell’unica maniera giusta, la cura e la prevenzione, che poi significa tenere il bosco pulito, aperto, evitando l’accumulo di una necromassa legnosa che, in tempi di cambiamento climatico, rende la foresta un’immensa polveriera. Se non si dice questo, tutto si trasforma in una storia criminale di piromani contro canadair, che è un racconto parziale, perché in mezzo manca proprio il territorio, e il nostro lavoro quotidiano su di esso. Pochi giorni dopo il grande incendio, continua Antonello, le querce e le ginestre hanno ripreso a ricacciare, piccole mani verdi si distendono nuovamente nello spazio senza vita, l’ecosistema vulcanico ha già ripreso il suo corso. In che direzione, lo vedremo. Abbiamo ora il privilegio, dopo il dolore e la paura, di assistere a un grande esperimento a cielo aperto, non è detto che si debba subito ripiantare qualcosa, la natura un suo piano di lavoro ce l’ha, siamo noi che dobbiamo metter mano al nostro, e starle responsabilmente accanto.

Pubblicato con i titolo “La natura rifiorisce sul Vesuvio”

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