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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 dicembre 2021

Nel suo editoriale dello scorso 5 dicembre (“Il riformismo non profuma di Chanel”) Ottavio Ragone osservava come il completamento di un moderno ciclo industriale dei rifiuti in Campania dopo trent’anni di discussioni sterili, non possa prescindere da un dialogo serio e trasparente, tra cittadini e amministratori, sul percorso da fare per rimettere in ordine il territorio scombinato delle periferie e dell’hinterland.

In realtà dopo l’articolo un dibattito pubblico importante, a distanza, è iniziato, ma non nella direzione auspicata da Ragone. Così, una nota della SIR del 14 dicembre, l’agenzia di stampa dei vescovi italiani, riporta le riflessioni del presidente della Conferenza episcopale campana mons. Antonio Di Donna, in occasione di un incontro pubblico presso la Biblioteca diocesana di Acerra, la “città martire che si sacrifica per tutta la Campania”. Il riferimento, prosegue l’agenzia, è “al mega inceneritore, unico della regione, imposto contro il volere della città, intorno al quale continuano a sorgere o chiedono di essere autorizzati tanti altri impianti per i rifiuti.” Ed è proprio rispetto agli impianti di trattamento che mons. Di Donna auspica “che venga scongiurato questo accanimento”, perché “è sconcertante la ciclicità con la quale il nostro territorio diventa suolo appetibile per la realizzazione di impianti di smaltimento e stoccaggio di rifiuti”.

E’ di pochi giorni dopo invece, siamo alla vigilia di Natale, la lettera al presidente Draghi di trenta sindaci delle città dell’area nord tra Napoli e Caserta, tra le quali Giugliano e Aversa. Come raccontato su queste pagine da Raffaele Sardo, i sindaci chiedono al presidente del consiglio una moratoria nella costruzione degli impianti di rifiuti: “Nessun impianto di rifiuti, di nessun genere, deve essere previsto sui nostri territori, fino a che le matrici ambientali non siano finalmente risanate”, scrivono i primi cittadini.

Certo, un po’ più di equilibrio e obiettività da parte di amministratori e presuli non guasterebbe perché, non scherziamo, il capoluogo non sta affatto meglio: se consideriamo il peso ambientale di porto, aeroporto, petroli, depuratori, centrali energetiche, più le 150mila autovetture che ogni santo giorno entrano a Napoli per lavoro e servizi, semplicemente non c’è partita. Il racconto di un capoluogo che riversa sull’hinterland il peso dei suoi problemi non sta in piedi, e la strada rimane quella indicata da Ragone, di un dibattito pubblico che riesca a guardare ai problemi dei diversi territori, stando alla larga da localismi consolatori e sterili.

In tutta la vicenda poi, gli aspetti paradossali non mancano, perché la contrarietà agli impianti è assolutamente generalizzata, finendo per comprendere ad esempio anche gli impianti per il compostaggio della frazione organica. Si tratta di rifiuti domestici, ordinari, né speciali, nè tossici, nè pericolosi, per i quali la direttiva europea stabilisce per i territori regole rigorose di autosufficienza e prossimità. Questo significa che il rifiuto aprioristico di questo tipo di impianti pone automaticamente la Campania al di fuori della legge europea, ma anche di una buona amministrazione, se dei 293 impianti di compostaggio italiani solo 4 sono in Campania. E se le 415mila tonnellate di umido che mandiamo oltre regione a caro prezzo costituiscono addirittura un quarto del rifiuto organico prodotto in Italia che viene trattato al di fuori della regione di provenienza.

Se anche il processo di compostaggio, che pure è sempre stato considerato anche dall’ambientalismo più intransigente come un tassello fondamentale di un moderno sistema di riciclo, finisce sotto processo, non c’è alcuna speranza di uscire dalla crisi, che a questo punto diventa antropologica-strutturale. E diventa pure inutile ricordare che il compostaggio è il procedimento che più emula il funzionamento dell’ecosistema, perché in fondo è un modo di fabbricare l’humus, la chiave della fertilità del suolo, mettendo a frutto i procedimenti della natura. Si tratta di un processo che avviene oramai completamente in regime di depressione, cosicché neanche gli odori escono all’esterno. Tanto più che questi impianti sono sottoposti a controlli assai rigidi, e quindi, se di qualcosa si deve aver timore, riguarda il resto, le cose che accadono al di fuori di questo ciclo industriale e legale.

Insomma, stiamo parlando dei fondamenti, della basi dell’economia circolare e della transizione ecologica delle quali tanto ci riempiamo la bocca. Ma la speranza è l’ultima a morire, che un dialogo serio possa partire, nelle istituzioni, nella Chiesa, lasciando da parte parole fuori luogo, qui si ragiona coi dati, il negazionismo per cortesia lasciamolo ai no-vax.

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