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Tutti insieme, gli articoli pubblicati sull’edizione napoletana di Repubblica dal luglio 2023 ad oggi. Come un diario. Tra le altre cose, i due reportage scritti con Giuseppe Guida dopo la pubblicazione di “Sette pezzi facili”. Se il librino del 2022, scritto durante la pandemia, si muoveva tutto dentro i confini della città, questa volta il viaggio è nella grande area metropolitana, la pianura scombinata, e poi Caivano. Ci sono alcune pagine che è stato più difficile scrivere, il saluto a Pio Russo Krauss che ci ha lasciati lo scorso mese di agosto, una persona importante per molti di noi, per la città, un fratello.
La città diseguale

Antonio di Gennaro, 9 novembre 2024
Ce la farà la città a reggere il boom turistico? I numeri sono importanti: 140mila sono i turisti che, stando alle stime rese pubbliche, hanno scelto Napoli per il ponte di Ognissanti (per inciso, a Firenze sono stati 480.000): è come se in quei giorni la popolazione urbana fosse cresciuta del 15%; come se una città come Rimini avesse deciso, in blocco, di venire a stare un po’ da noi.
I numeri sono importanti, soprattutto per il fatto che il carico non è equamente distribuito, grava in buona parte sul centro storico, già congestionato di suo, mandando in sofferenza i funzionamenti urbani e la gracile rete dei servizi. È evidente, lo ripetono in molti, che la cosa va governata: senza una strategia, come già successo altrove, il turismo, che è solo una parte dell’economia di una città, finisce per consumare e trasformare la risorsa che lo ha generato.
Di gratificante, oltre al fatturato, c’è l’interesse, l’attrattiva, il soft power che la città oggi è in grado di esercitare, e pure è stato evidenziato da molti come questa narrazione positiva rischi di fare da coperta ai problemi, che rimangono crudi e irrisolti al di sotto.
È vero, non dobbiamo aver paura dei cambiamenti, e il successo turistico un effetto sicuramente positivo può averlo, quello di costringerci finalmente a definire una strategia, a tracciare una traiettoria deliberata per la Napoli che immaginiamo. Partendo dall’aspetto che in questo momento, ci piaccia o no, ci definisce di più, che è la disparità di condizioni di vita tra le persone e i territori che tutti insieme compongono la città.
Tra le grandi città italiane non c’è alcun dubbio che Napoli sia quella dove le distanze e le diseguaglianze sono maggiori. L’alleanza che si è formata sul campo tra ciò che rimane della scuola pubblica, il terzo settore e la Chiesa ha aiutato sino ad ora a fronteggiare l’emergenza delle innumerevoli povertà (abitativa, economica, educativa, sanitaria, di servizi e spazi collettivi), supplendo in qualche modo alla gracilità delle politiche e delle strutture pubbliche, ma ora questo non basta più, la guerra dei quindicenni armati è lì a ricordarcelo.
Se non agiamo sulle diseguaglianze, quartiere per quartiere, ogni politica di rilancio economico della città è destinata a fallire. I ragazzi continueranno ad andar via, la città a svuotarsi delle sue energie migliori. I tempi delle grandi trasformazioni che sono state avviate, a cominciare da Bagnoli, sono ancora lunghi e incerti: senza un pensiero che li tenga insieme, senza una maglia di politiche diffuse che interessi l’intero tessuto cittadino, quello che rimane è un parco progetti di grandi opere che, come in passato, non ce la fanno a cambiare la vita delle persone.
Dobbiamo lavorare sulle distanze che ci separano. Lasciando pure a Greta Cool, la diva decadente di Parthenope, nel suo universo onirico, tutta la libertà di disquisire sulle tare insanabili del nostro carattere collettivo: noi abbiamo un altro lavoro da fare, maledettamente più pratico e urgente.
Una vita dalla parte degli ultimi

Antonio di Gennaro, 17 agosto 2024
Ci ha lasciati d’improvviso Pio Russo Krauss, una malattia crudele se l’è portato via in poche settimane. Medico pediatra valente, una vita nella sanità pubblica al servizio dei piccoli, degli ultimi, degli esclusi. Un percorso lungo, su tanti fronti diversi, iniziato da ragazzo nei primi anni ’70, nel movimento cattolico, poi in quello delle comunità cristiane di base. Ma Pio è stato anche pioniere a Napoli della cultura ambientalista e pacifista, animatore cocciuto e instancabile di innumerevoli iniziative e battaglie in campo medico, culturale, sociale.
Per molti di noi è stato il fratello maggiore, e non era questione d’età: c’entra invece la personalità solida, la serietà, il lavoro di preparazione e studio che metteva in tutte le sue cose, senza fanatismi, vagliando con pazienza problemi e situazioni, alla luce della ragione, della fiducia nella persona, della responsabilità indefettibile verso gli ultimi che gli veniva dal Vangelo.
Alimentava tutto il suo amore per la vita, la musica, la letteratura: la passione per il cinema la mia generazione l’ha coltivata al cineforum del Centro Culturale Giovanile che lui ha diretto per un decennio. E poi la passione per la natura, le lunghe, indimenticabili escursioni in montagna, la sua conoscenza della sentieristica era vasta e precisa, con lui non ti perdevi mai.
È riuscito a tenere insieme tanti mondi diversi. Nel suo messaggio di commiato pubblicato in rete il giorno della fine ha scritto: “La vita ha senso se spesa per gli altri, per migliorare la società, per prendersi cura di chi è in difficoltà, per aiutare gli ultimi a sollevarsi.
La vita è bella. Godete delle bellezze della natura, dell’arte, della compagnia di chi vi vuole bene. Il denaro dà la felicità solo a chi ne ha poco, ma molto spesso può rovinare l’esistenza a tutti gli altri. Non affannatevi per esso e siate generosi con chi è povero, molto generosi, ma con intelligenza per aiutarli efficacemente.
Non credete a chi vi offre spiegazioni semplici dei problemi della nostra società (e non solo di essa), a chi propone soluzioni facili, a chi promette troppo: la realtà è complessa e difficile da cambiare, ma cambia e noi possiamo indirizzarla in un verso o in un altro.”
In questo momento di dolore ci stringiamo a Gigliola, la compagna di una vita, alle tre figlie Irene, Chiara e Giovanna che sono state il suo amore e il suo orgoglio. La città gli deve molto, è stata un posto migliore e più umano perché c’era lui, e anche un po’ più giusto. Che la terra ti sia lieve.
Ricostruire Ischia partendo dal paesaggio

Antonio di Gennaro, 9 luglio 2024
Dei tre gioielli del Golfo è Ischia, l’isola verde, per molti aspetti l’ecosistema più fragile, una storia lunga e dolorosa di sismi e dissesti ricorrenti nei secoli, sino a quelli più recenti, il terremoto del 2017, poi le frane del 2022: la vita di tre comuni – Casamicciola Terme, Lacco Ameno e Forio – scossa ancora una volta alle radici.
Per la ricostruzione questa volta, vista l’ampiezza dell’area interessata, e la complessità dei problemi da affrontare, c’è voluta una legge dello Stato, con la scelta opportuna di assegnare a un piano unitario la definizione degli interventi sul patrimonio distrutto, lesionato, a rischio, affrontando in maniera integrata e non più settoriale gli aspetti urbanistici, i rischi ambientali, il paesaggio.
Un piano di ricostruzione che ha quindi caratteristiche nuove rispetto alla disciplina precedente, che nasce dal dialogo necessario e dal lavoro comune tra le diverse competenze istituzionali, i livelli di governo, i centri di competenza e il mondo della ricerca.
Uno dei risultati importanti di questa collaborazione è l’accordo siglato dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli, e l’Assessorato al Governo del Territorio e all’Urbanistica della Regione Campania, sulla nuova disciplina paesaggistica per l’Isola d’Ischia, il nuovo quadro di riferimento cui il piano di ricostruzione è chiamato a conformarsi.
Si tratta di un lavoro fondamentale, tenuto conto del fatto che il territorio dell’isola è interamente sottoposto a tutela: un paesaggio unitario che va dal crinale dell’Epomeo al mare, passando per i boschi, i terrazzamenti agricoli, i pezzi di città storica, sino alle bellezze della fascia costiera, non tralasciando naturalmente gli insediamenti recenti, cresciuti troppo e male in un sessantennio di governo a bassa intensità.
La disciplina messa a punto da Soprintendenza e Regione è precisa e rigorosa, e ha per oggetto, una ad una, tutte le diverse componenti di questo mosaico paesaggistico complesso, dettagliatamente cartografate, con la definizione chiara degli usi non ammissibili e di quelli ammissibili a condizione, con l’obiettivo di garantire la tutela e la conservazione di ciascun bene – boschi, terrazzamenti, città storica, fascia costiera – ma anche di definire le modalità concrete per la loro gestione attiva, cura, manutenzione, messa in sicurezza.
Gli obiettivi sono maledettamente concreti: rigenerare pienamente la capacità protettiva dei boschi sofferenti dell’Epomeo, dopo un sessantennio di abbandono; curare e ripristinare i terrazzamenti agricoli tradizionali che sono la vera matrice della civiltà millenaria dell’Isola; conservare forma e identità della città storica; rispettare gelosamente il suolo fertile che rimane, e poi quel bene primario per l’economia dell’Isola che è lo straordinario sistema costiero, considerato nel suo insieme.
E’ il metodo che si sta impiegando per redigere l’intero Piano paesaggistico regionale, del quale il protocollo sottoscritto per Ischia costituisce in qualche modo un’anticipazione, con l’obiettivo di fornire da subito al Piano di ricostruzione, tenuto conto dell’impellenza di legge, un riferimento normativo che ne garantisca piena efficacia e coerenza, un percorso e tempi celeri di attuazione.
In una storia dolorosa, la notizia buona è il fatto che le istituzioni stiano lavorando insieme, impiegando per una volta le rispettive competenze come strumenti di soluzione, piuttosto che come elementi di contesa. La ricostruzione questa volta parte dal paesaggio, dalla consapevolezza della nostra storia, della ricchezza e fragilità della terra che abitiamo, non è cosa da poco.
La collina e noi

Antonio di Gennaro, 21 giugno 2024
Giovedì mattina ore sei. Dallo svincolo rampante del Vomero la collina non si vede più, c’è una luce buia d’afa nuvole e fumo che copre questo pezzo di città, dietro la cortina il sole è un disco pallido. Continuando sulla perimetrale di Soccavo l’odore è acre, la pioggia di cenere ha coperto tutto, colonne di fumo s’alzano dalle praterie carbonizzate, ma lingue vivide di fuoco guizzano ancora in alto tra i lecci e gli olmi, nei lembi di bosco dei valloni che scendono dai Camaldolilli. E’ l’alba della prima notte tropicale dell’anno, il termometro segna già 25 gradi, chi ha agito lo ha fatto con cognizione
L’incendio è stato appiccato nella giornata di mercoledì, bisognerà capire bene quando, i punti d’innesco, localizzati ad arte, sono stati individuati. Le operazioni di spegnimento con le squadre a terra e i mezzi aerei, sono iniziate con qualche difficoltà, continuate fino a che c’è stata luce, poi col buio gli aerei si sono dovuti posare, una norma nazionale non ne consente l’impiego notturno, gli uomini a terra sono rimasti a presidio delle abitazioni, l’incendio però ha potuto estendersi per l’intero versante, e sembrava domato infine con la ripresa dei voli nella mattinata di giovedì, anche se gli elicotteri hanno ancora dovuto levarsi nel pomeriggio di ieri per focolai ancora attivi sul versante di Pianura.
Il bilancio ad oggi è che il mosaico di ecosistemi verdi sul versante collinare che guarda Soccavo, un ricamo di praterie, macchie, garighe, boschi misti s’è bruciato su quasi ottanta ettari, a fuoco anche alcuni vigneti di pregio, è come se il Parco di Capodimonte fosse andato in fumo per due terzi.
Stiamo parlando di pezzi di paesaggio importanti della città, sul versante bruciato riemerge a tratti la trama dei ciglionamenti medioevali che è ancora presente, nascosta dalla prateria, dopo che negli anni sessanta l’agricoltura eroica ha abbandonato queste terre cariche di storia. Intanto, negli impluvi spogliati della vegetazione, l’acqua lanciata per lo spegnimento ha già solcato il suolo fragile, un lavoro erosivo che le piogge nel tempo completeranno.
Sono pezzi maltrattati della collina che continua a vivere seppur incastrata nella città, una miniera sorprendente di biodiversità, suolo ancora vivo che nonostante l’incuria continua a lavorare per noi, in silenzio, producendo i servizi ecologici necessari alla città per funzionare: mitigazione del microclima urbano, assorbimento della CO2 e del particolato, infiltrazione dell’acqua, produzione agricola di prossimità, habitat di vita di una comunità sorprendente di organismi. Tutti servizi che, oltre al mantenimento della vita, partecipano di fatto con un loro preciso valore monetario all’economia della città, anche se ci ostiniamo a non capirlo.
Di fronte a eventi come quello di mercoledì la città deve decidere che farsene di questo capitale naturale. L’incendio questa macchina verde l’ha colpita, azzerata, ridotta a una landa fumante su una superficie pari a 112 campi di calcio. Prima di pensare alla moda della nuova forestazione urbana, bisognerebbe impegnarsi per curare la natura che abbiamo già, e a metterla in sicurezza, prima che vada a fuoco o ci frani addosso.
Le parole chiave sono prevenzione e rapidità d’intervento. I rischi si combattono vent’anni prima. Gli ecosistemi verdi in città devono essere curati, tenuti in ordine, monitorati. Bisogna investire attivamente su di essi, prima che le cose succedano. E quando accadono, essere pronti ad agire con tempestività: nella lotta attiva agli incendi, quelli di interfaccia col sistema urbano innanzitutto, il fattore tempo è tutto, se il fuoco prende piede la dinamica diventa incontrollabile. Tutte cose che devono entrare a far parte della programmazione e gestione ordinaria, nel tempo mutato nel quale ci troviamo a vivere concetti, come “eccezionale” o “emergenza” devono essere espulsi definitivamente dalla prassi e dal vocabolario.
Il villaggio della sicurezza a Bagnoli, subito
Antonio di Gennaro, 22 maggio 2024

Nella sequenza infinita degli annunci, c’è una cosa concreta da fare subito a Bagnoli, in risposta a questo momento difficile per la città e l’intera area flegrea, ed è un villaggio provvisorio per la sicurezza.
Nel racconto che hanno fatto i media di tutto il mondo, l’aspetto più penoso è il senso di precarietà, le immagini dei molti concittadini di Napoli, Pozzuoli, Bacoli e non solo, che hanno trascorso la notte all’aperto, o accampati in macchina, nel parcheggio dormitorio improvvisato fuori l’ex base Nato.
Evitando di incoraggiare allarmismi inutili, è evidente come nella fase di incertezza che stiamo vivendo, sia comunque utile e doveroso prevedere ricoveri provvisori per le persone e le famiglie che nei momenti di maggiore attività sismica non si sentano sicuri all’interno delle mura domestiche.
Ieri su queste pagine l’antropologo Giovanni Gugg ha spiegato con chiarezza come sia difficile e importante ricostruire nella lunga durata un rapporto consapevole con queste terre che si muovono, che pure abitiamo da millenni. E’ una lezione che non è acquisita per sempre: l’esperienza vissuta negli anni ’70 e ‘80, per molti versi ben più difficile e drammatica di questa, purtroppo non ci viene in soccorso, le fasce giovani non l’hanno conosciuta, ed allora dobbiamo ripartire da zero.
Gli esperti ci dicono che lo sciame sismico, che tanto scuote la nostra psiche, contiene invece un aspetto di sicurezza, è un’energia che il sistema dinamico libera gradatamente, evitando accumuli di tensione pericolosi, in una successione di eventi la cui magnitudo è ritenuta sopportabile dal patrimonio edilizio che abitiamo.
Ma tutto questo alle persone non basta, e la domanda generale è quella di informazioni puntuali e adeguate sulla vulnerabilità, non della città nel suo complesso, ma del condominio, dell’appartamento nel quale ciascuno di noi vive.
Nel frattempo che questo accada, città importanti come Napoli e Pozzuoli devono poter disporre di spazi provvisori di accoglienza e ospitalità per i momenti più acuti, e Napoli questo spazio ce l’ha, nella fascia di quindici ettari che costeggia via Diocleziano, passato il ponte ferroviario e l’auditorium. E’ spazio aperto, sicuro, vicino alla città, nel cuore di uno dei quartieri che più sta soffrendo la crisi, ben servito dalla rete stradale e del ferro.
Si tratterebbe di un uso provvisorio, certo, e sarebbe anche finalmente il modo di far rientrare pienamente queste aree sequestrate da un trentennio di bonifica inutile, costosa, senza fine, nel circuito urbano, nella vita pulsante della città, ora che veramente ne abbiamo bisogno.
Dietro le quinte a Caivano

Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 2 giugno 2024
C’è un blocco in autostrada, e allora dopo l’aeroporto prendiamo la vecchia statale sannitica che divide San Pietro a Patierno da Secondigliano, ora è diventata il corso della sterminata città senza nome che si è formata da sola dopo il terremoto dell’80, della quale la statale attraversa ad uno ad uno i quartieri: Casavatore, Casoria, Afragola, Cardito. Dopo nove chilometri e pochi minuti è il turno di Caivano, corso Umberto I è una bella strada di centro storico, con le masserie e le dimore padronali restaurate. Giriamo per via de Nicola, ancora poco, a ovest, il Parco Verde è l’ultimo avamposto della metropoli napoletana, sulle sponde del fiume residuo di campi agricoli che la separa, non si ancora per quanto, dall’altro pezzo di conurbazione, quella aversana.
All’ingresso del “parco” troviamo ad aspettarci Bruno Mazza, in bicicletta, assieme a Sobir, un ragazzino di colore di dodici anni tutt’occhi, sveglio e silenzioso. La famiglia di Bruno è venuta qui nell’86 dai container della Sanità, per lui una giovinezza sbagliata, il carcere, poi il cambiamento di vita, la decisione nel 2008 di fondare un’associazione, “Un’infanzia da vivere”, per aiutare i piccoli come Sobir a non subire lo stesso destino.
Il giorno prima si è tenuto qui lo show governativo, quello delle parolacce, ma dietro le quinte, spente luci e telecamere, nessuna traccia è rimasta, con Bruno e Sobir percorriamo il quartiere viale per viale, tra i prefabbricati pesanti lo stato di abbandono è totale, le aiuole sono muri di erbacce altissime e rifiuti, le botteghe chiuse, in rovina, una signora dalla macchina ci chiede gridando quando vengono a ripristinare l’illuminazione nel suo viale, sono al buio da quindici giorni.
“Quello che il quartiere continua inutilmente a chiedere” ci dice Bruno “è semplicemente un minimo di cura, di manutenzione, presidio, attenzione quotidiana, pulizia, spazi decenti e sicuri da vivere e abitare”. Ed è proprio quello che nel suo piccolo l’associazione cerca di fare da quasi vent’anni.
Arriviamo ai campetti di calcio che un “Infanzia da vivere” ha realizzato e gestisce in Via Rosa – qui i nomi dei viali sono esclusivamente floreali – con un finanziamento della Fondazione Con il Sud, che fin dall’inizio ha creduto in questa storia. All’ombra di un grande pioppo c’è un casotto aggraziato, un orto, i campi e le attrezzature sono perfetti, arriva un gruppo di ragazzini col pallone, salutano Bruno, si vede che c’è educazione e rispetto per i luoghi e le persone.
Un’altra oasi come questa è a trecento metri da qui, in via Tulipano, un parco giochi per i piccoli da 0 a 6 anni, si chiama “Ohana”, una parola hawaiana che significa “famiglia”, sempre realizzata con l’aiuto della Fondazione Con il Sud, cento bambini vengono a giocarci ogni giorno.
Percorriamo viale delle Magnolie sino alla chiesa di San Paolo Apostolo, davanti la parrocchia l’associazione di Bruno ha adottato un’aiuola triangolare, un’altra piccola oasi in mezzo allo squallore, è dedicata alla lotta sulle violenza sulle donne, c’è una panchina rossa, la sagoma grande di una scarpetta rossa sul prato verde ben tosato.
Addossata alla parrocchia c’è Villa Andersen, un’area verde attrezzata per l’infanzia grande quasi un ettaro, era prevista nel progetto urbanistico che ha generato Parco Verde, ora è in stato di sfascio totale. Con Bruno e Sabir ci inoltriamo cauti nella vegetazione fitta che ha divelto pavimenti, tombini, impianti, distrutto scivoli e giostrine, in rovina anche il campo di calcio.
Trent’anni fa l’accesso dal lato della parrocchia fu chiuso, ci pensarono i capi-famiglia della droga a riaprire l’area facendo breccia nel muro di cinta sull’altro lato del giardino, da allora questo è stato il luogo del consumo e delle morti per overdose. Dal balcone di uno dei prefabbricati affacciato sulla villa una donna quando ci vede inizia a gridare, dalla vegetazione incolta le entra in casa ogni genere di volatile, chiede quando faranno finalmente pulizia.
“La rinascita di Caivano doveva partire da qui” ci dice Bruno “gli abitanti e le associazioni del quartiere lo avevano chiesto con forza al governo, dei 1300 bambini del rione 500 vivono intorno a Villa Andersen, a contatto quotidiano diretto con questa bruttezza”. Restituire finalmente la villa a condizioni quotidiane di legalità sicurezza e decoro sarebbe davvero per tutto il quartiere il segno autentico della svolta.
Eppure inspiegabilmente quest’area che è il vero epicentro dell’illegalità e del dolore, non è entrata negli ultimi programmi governativi, sintetizzati nel cosiddetto Decreto Caivano. L’intervento più reclamizzato è invece quello che riguarda il centro sportivo comunale e la piscina oggi denominata “Pino Daniele”, a mezzo chilometro da qui, oltre la strada perimetrale a scorrimento veloce, ben distante dal quartiere e dalla vita di ogni giorno. Per gli abitanti del rione certamente non la priorità.
Alla fine quello che si percepisce è il carattere, neppure tanto celato, dell’intervento governativo per Caivano: l’idea di una politica esemplare e simbolica, più che risolutiva dei problemi; paternalistica (sappiamo noi cos’è meglio per te, tu plaudi e ringrazia); emergenziale, con i commissari e i poteri straordinari che vengono e vanno senza incidere sul contesto: al comune di Caivano nell’ultimo ventennio i commissari straordinari sono stati 8, l’ordinarietà è stata la vera eccezione.
Il risultato è la totale mancanza di ascolto, e l’esclusione dal programma governativo di ogni tipo di contributo, ideale, organizzativo, gestionale, da parte della rete di associazioni del quartiere, che pure una visione e una capacità operativa in tutti questi anni hanno dimostrato di possedere.
Nei locali in viale Margherita dove ha sede l’associazione con Bruno proviamo a buttar giù una mappa orientativa della rete sociale attiva a Caivano. Accanto a “Infanzia da vivere”, in un rapporto di stretta collaborazione, c’è la cooperativa sociale “Nessuno resti solo”, nata per iniziativa di Cristina Giordano e di trenta giovani mamme del quartiere. Un ruolo decisivo, come si è detto, lo ha avuto la Fondazione Con il Sud con il presidente Stefano Consiglio; un sostegno importante è venuto da “Impresa Sociale” diretta da Marco Rossi Doria. Dalla collaborazione con il “Centro di servizio per il volontariato di Napoli” (CSV) è nato un corso per la formazione di 10 volontari civili da impiegare nei programmi per il quartiere; quella con il “Banco Alimentare Campania” consente gli aiuti settimanali alle famiglie in difficoltà. Tra le aziende private che hanno sostenuto il processo c’è la Farvima spa, importante realtà nel campo farmaceutico.
Se la priorità è la qualità e la sicurezza degli spazi di vita quotidiana nel quartiere il passo successivo per le istituzioni, una volta superata l’ottica emergenziale che nulla ha prodotto, sarà mettere mano a questa sorta di terra di mezzo nella quale realtà come il Parco verde si trovano disperse, riannodando i fili di un territorio smembrato, ma straordinariamente ricco di risorse.
«Quando nei primi mesi del 1982 ci recammo sull’area del progetto per il primo sopralluogo ci trovammo di fronte ad una sterminata piana agricola, inframmezzata da lunghi filari di vite maritata al pioppo», così ci racconta Francesco Bruno, allora docente di Progettazione Architettonica alla Facoltà di Architettura di Napoli e autore del progetto planivolumetrico dell’intero insediamento, ben disegnato da un punto di vista tecnico e allineato ai migliori canoni del tardo modernismo allora in voga e dimensionato per circa 750 alloggi. Gli edifici del Parco Verde furono progettati dall’architetto aversano Arturo Pozzi, per la realizzazione fu utilizzato un sistema di prefabbricazione pesante, stile città sovietica anni ’70, con prestazioni energetiche e termiche pari a zero.
Ancora oggi, se alzi lo sguardo, ti accorgi di come la radice rurale dell’antico casale sia ancora viva, il Parco Verde si affaccia su un’area agricola immensa, oltre duemila ettari che sono parte della grande pianura dei Regi Lagni. Qui si produce ancora un quarto della produzione nazionale di patate, e sono le più pregiate e richieste, al di là delle cose infondate che su questa agricoltura sono state dette.
Oltre i campi, superato il borgo antico di Pascarola, c’è un’area industriale tra le più importanti del Mezzogiorno e d’Italia. Ora è una sorta di repubblica autonoma, al check point quando chiediamo di entrare ci guardano con sospetto, all’interno tutto è ordine, con le grandi strade alberate, il caos e le sofferenze restano fuori del recinto.
Un chilometro più avanti, superata l’Alta velocità, l’altro grande polo industriale, orafo, della Coca Cola, dove la Olivetti negli anni ’70 impiantò su progetto di Marco Zanuso ed Eduardo Vittoria uno stabilimento avanzatissimo per la produzione di macchine computazionali, dando ancora vita alla visione del suo fondatore, di una piena integrazione tra urbs, civitas e produzione industriale.
È di una visione come questa che abbiamo ancora bisogno. La cosa da fare è trasformare senza indugio questa terra di mezzo in un grande parco agricolo e produttivo, riattivando le antiche strade interpoderali, lungo i tracciati della centuratio, rigenerando all’originaria funzione la canalizzazione storica dei Regi Lagni che innerva l’intera area, riaprendo i varchi che separano le aree produttive dal territorio intorno.
Superando anche le barriere mentali, che sono le più dure di tutte, perché Parco Verde non è una monade nel nulla. La distanza tra il quartiere e la stazione dell’alta velocità di Afragola è la stessa che intercorre tra la stazione Centrale di Napoli e il quartiere di Chiaia. Così come la distanza tra Caivano e Napoli è la medesima che passa tra l’Eur e i Parioli a Roma. Parco Verde è un pezzo di Napoli, popolato all’80% da cittadini che in origine risiedevano a Napoli, che però sentono di essere altrove, in una terra priva di riferimenti e coordinate, ma non è così.
Mentre percorri questo mondo complicato, ti chiedi come sia possibile, con queste risorse economiche e paesaggistiche, che a prevalere sia stata l’economia criminale e non quella industriale e agricola che sta proprio di fonte al Parco Verde; perché non si intravedano all’orizzonte grandi programmi di rigenerazione del territorio che mettano allo stesso tavolo tutti gli attori che popolano quest’area, con le proprie responsabilità, per ricomporre i pezzi della conurbazione, sostenere forme di sviluppo innovative, condivise, coraggiose; dare finalmente risposta alle urgenze dolorose di vita quotidiana e di futuro possibile che Bruno e Sabir ci hanno con semplicità mostrato e fatto conoscere.
L’azzardo Bagnoli

Antonio di Gennaro, 2 aprile 2024
L’articolo di Pasquale Tina pubblicato su queste pagine il giorno di Pasqua (“Napoli, la guerra dello stadio”) mette ordinatamente in fila tutte le cose che sappiamo intorno alla questione del nuovo stadio. Rispetto alle notizie dei giorni precedenti la novità riguarda l’avvenuto incontro del presidente e proprietario del Calcio Napoli Aurelio De Laurentis con Bernardo Mattarella, presidente di Invitalia, la società pubblica alla quale la legge “Sblocca Italia” del 2014 ha assegnato la proprietà dei suoli dell’area ex Ilva di Bagnoli.
Dall’incontro sarebbe scaturito un via libero preventivo di Invitalia alla proposta di De Laurentiis di realizzare proprio a Bagnoli il nuovo stadio da 60mila spettatori, come parte di un più ampio complesso sportivo e ricettivo, con l’indicazione di una possibile data di inaugurazione della struttura, nel luglio 2027.
Di segno opposto l’opinione del sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, che è anche commissario straordinario di governo per il risanamento di Bagnoli, secondo il quale l’opzione realistica consiste nell’adeguamento dello stadio Maradona, essendo la proposta del nuovo stadio a Bagnoli non praticabile, a causa della tempistica (il completamento della bonifica richiederà un periodo di tempo non inferiore ai 3-5 anni), e per il fatto che la proprietà dei suoli è di Invitalia, con la necessità quindi di un acquisto preventivo delle aree da parte di De Laurentiis.
Sul restyling del Maradona il sindaco ha ragione da vendere. Sta di fatto che Invitalia nella vicenda di Bagnoli non è un soggetto qualsiasi, assommando i ruoli di soggetto attuatore della bonifica, oltre che di proprietaria dei suoli. L’apertura a De Laurentiis, se confermata, starebbe a indicare che i vertici di Invitalia ritengono le obiezioni del sindaco Manfredi in qualche modo superabili.
Ciò che colpisce in tutta questa vicenda è il completo prevalere delle questioni procedurali su quelle di merito. La disciplina urbanistica, che la Costituzione e le leggi italiane assegnano ancora agli enti di governo territoriale, in primis i comuni, e non ai proprietari delle aree (sia chiaro, Invitalia, per quanto società di intera proprietà pubblica, è un soggetto di diritto privato come gli altri), nonché il quadro complessivo dei vincoli, non consentono assolutamente la localizzazione a Bagnoli di un’attrezzatura del rango del nuovo stadio, e ha ragione allora Giuseppe Guida, nel suo intervento su queste pagine dell’11 marzo scorso, a derubricare la questione nell’ambito della patafisica.
Anche volendo prescindere da tutto questo, c’è una questione di buon senso grande quanto una casa, che dovrebbe sconsigliare la localizzazione di un nuovo stadio da 60.000 posti nel bel mezzo della zona rossa dei Campi Flegrei, istituita nel giugno 2016 dalla pianificazione nazionale di emergenza per il rischio vulcanico, che comprende l’intera piana di Bagnoli, assieme al promontorio di Posillipo.
Un’area nella quale, stando al sito del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile “… l’evacuazione preventiva è, in caso di allarme, l’unica misura di salvaguardia per la popolazione. In caso di eruzione, sarebbe infatti esposta al pericolo di invasione di flussi piroclastici che, per le loro elevate temperature e velocità, rappresentano il fenomeno più pericoloso per le persone.”
Il dibattito scientifico e istituzionale sull’evoluzione recente del rischio vulcanico e bradisismico nell’area flegrea, le preoccupazioni per l’incompletezza delle nostre conoscenze e capacità previsionali, oltre alla presa d’atto dell’insufficienza delle vie di fuga (a proposito, come si evacuano 60.000 persone dal cul de sac di Bagnoli?), hanno occupato fino a ieri pagine intere dei quotidiani. Come sia possibile rimuovere completamente la questione dal dibattito in corso sul nuovo stadio rimane uno dei misteri della mente umana.
Le vicende storiche che stiamo vivendo dovrebbero indurci invece a immaginare una strada nuova, sobria intelligente per Bagnoli e la zona occidentale, che metta insieme, a partire dai bisogni delle persone, le ragioni dell’economia e del paesaggio, con l’obiettivo di costruire una città più sicura e resiliente. Il nuovo piano urbanistico della città dovrebbe farsi carico di tutto questo, sempre ricordando che Napoli è un segmento di un sistema vulcanico ed ambientale più ampio, maledettamente problematico, ed è a questa scala vasta che le soluzioni ragionevoli vanno ricercate.
C’è un altro modo di dividere il paese

Antonio di Gennaro, 21 marzo 2024
Andiamo sempre più scoprendo in questi ultimi mesi che esiste un diverso modo di mandare in frantumi l’unità del paese, oltre all’autonomia differenziata di Calderoli, ed è l’approccio con il quale l’attuale governo sta trattando partite importanti, a partire da quelle che riguardano l’uso delle risorse finanziarie.
Le recenti modifiche apportate unilateralmente, senza spiegazioni, al Piano nazionale di recupero e resilienza, comporteranno il ridimensionamento di linee di investimento rilevanti, dalla rigenerazione urbana, agli asili, al dissesto idrogeologico. A farne spese saranno soprattutto le città del centro-sud.
Sui tagli alla sanità la levata di scudi è generale, coinvolgendo tutte le regioni, anche quelle governate dal centro-destra, costringendo la Corte dei conti a una denuncia chiara dell’abuso di potere nei confronti dei poteri locali.
Con la Campania la partita è se possibile ancora più aspra, con il mancato accordo sull’impiego delle risorse del Fondo di sviluppo e coesione, dal quale dipendono grandemente le politiche di sviluppo.
In merito all’aspro contenzioso in corso, le dichiarazioni del ministro Fitto a margine di un recente convegno organizzato dalla CGIL sono rivelatrici delle motivazioni alla base dell’atteggiamento governativo: “Il Governo non ha alcun obbligo previsto in nessuna legge di dare le risorse alle 20 Regioni italiane. È una scelta del Governo dare risorse alle Regioni italiane” ha dichiarato il ministro.
Inutile dire che una simile affermazione cozza contro una manciata di articoli della carta costituzionale: le risorse di cui parla il ministro non sono patrimonio del governo ma della repubblica, che è composta, oltre che dallo stato, dalle regioni, le città metropolitane, le province e i comuni, che cooperano secondo il principio di sussidiarietà, cioè partendo dai livelli amministrativi più prossimi alla vita dei cittadini.
Le Relazioni sui Conti Pubblici Territoriali pubblicate dall’Agenzia per la Coesione Territoriale, l’ultima è relativa al 2021, hanno confermato lo squilibrio nella distribuzione delle risorse tra le diverse aree del paese: nell’ultimo ventennio il Mezzogiorno, con il 35 per cento di popolazione, ha percepito mediamente il 27 per cento della spesa pubblica ordinaria. L’obiettivo fissato per legge nel 2017, di riservare al Sud almeno il 34% delle risorse, è stato vistosamente mancato.
Alla fine, stando sempre alle Relazioni dell’Agenzia per la Coesione, nel ventennio considerato sono mancate al Sud risorse per un importo stimabile intorno ai 2,6 miliardi l’anno. A riequilibrare in parte le cose sono intervenute le risorse integrative, in primis i fondi europei, e i fondi di programmazione nazionali, come l’FSC, che non costituiscono più a questo punto risorse aggiuntive, erogate al Mezzogiorno per recuperare il ritardo di sviluppo, ma risorse sostitutive di una quota della spesa pubblica ordinaria che manca.
Stando così le cose, l’erogazione di risorse come quelle del Fondo di sviluppo e coesione non può dipendere da scelte unilaterali e discrezionali del governo, ma da una seria e leale cooperazione istituzionale, nel rispetto degli obiettivi di coesione che la costituzione e le leggi ordinarie ancora impongono. A soffrirne le conseguenze, qualora ciò non avvenisse, sarebbero solo le persone, oltre a ciò che rimane del senso di giustizia e di unità del paese.
Se dieci anni vi sembran pochi

Antonio di Gennaro, 3 febbraio 2024
Il prossimo 12 di settembre, appuntiamoci la data, è una ricorrenza importante, si celebra il decennale del decreto Sblocca-Italia, il provvedimento che doveva mettere fine alle lungaggini e inefficienze che hanno segnato la storia complicata del recupero alla città, dopo un secolo di siderurgia, della piana e del litorale Bagnoli.
Dieci anni sono tanti, siamo passati dal breve al medio termine, basterebbe questo per esprimere una valutazione di efficacia: la verità, dopo un decennio, è che siamo ancora ai preliminari, per il completamento degli interventi di bonifica, le opere di urbanizzazione primaria e gli espropri del waterfront occorreranno 1200 milioni di euro, i fondi per la bonifica a terra ci sarebbero, mentre mancano all’appello 650 milioni per i fondali e la colmata.
Quella della bonifica dei fondali è veramente una storia curiosa. Studi autorevoli della Federico II hanno accertato come lo stato di salute dei fondali del litorale industriale di Bagnoli non sia dissimile da quello del litorale industriale di San Giovanni a est, e da quello del litorale industriale di Pozzuoli a ovest. E’ l’effetto di cent’anni di un sistema industriale costiero diffuso sull’ecosistema marino delle due baie sulle quali si affaccia la città. Sono situazioni che in altri stati con trascorsi simili si affrontano con pragmatismo, lavorando seriamente sul monitoraggio, l’adattamento, la valutazione rigorosa delle condizioni effettive di rischio.
Da noi, quello che si sta preparando invece, è il provvedimento esemplare, un po’ sullo stile di Caivano: interventi localizzati e massicci, non replicabili per costo e intensità a situazioni simili, prossime, che pure ne avrebbero bisogno, perché l’obiettivo è soprattutto simbolico: rappresentare, una capacità d’azione risolutiva, una volta per tutte, dei poteri pubblici, con un carico d’enfasi e prosopopea alla lunga difficilmente digeribile.
Un intervento comunque irragionevole e controverso, tenuto conto dell’impatto devastante sull’ecosistema marino del dragaggio dei fondali, e dei problemi non risolvibili legati al destino delle enormi quantità di fanghi che l’insensata e costosissima operazione produrrà.
Al di là delle valutazioni di efficacia, restano intatti, a distanza di dieci anni dall’approvazione del decreto Sblocca Italia, i motivi fortissimi di perplessità sulla sua impostazione, e sulle procedure stabilite per il recupero dell’area siderurgica di Bagnoli.
Inutile girarci intorno: in un momento nel quale la città, come Costituzione prevede, sta definendo la sua nuova strategia, Bagnoli di fatto resta fuori, in una sorta di extraterritorialità, il suo destino essendo legato alle decisioni di una cabina di regia nella quale, da dieci anni, il Comune siede, privo di prerogative particolari, assieme allo Stato e agli altri enti territoriali, con un ruolo guida energicamente esercitato dal soggetto attuatore, Invitalia, che è anche proprietaria dei suoli.
Si tratta di una situazione veramente al limite: Invitalia è una società per azioni: per quanto interamente di proprietà dello Stato, è a tutti gli effetti un soggetto di diritto privato, al quale il decreto Sblocca Italia ha affidato come si è detto non solo la proprietà dei suoli, ma anche una preminenza di potere nel deciderne la disciplina. Si tratta di distorsioni alle quali altre legislazioni emergenziali ci avevano pure abituato, ma mai sino a tal punto.
Il risultato di questa situazione è il congelamento della visione futura di Bagnoli all’interno di uno schema urbanistico, quello del Piano di rigenerazione urbana partorito dalla cabina di regia, la cui attuabilità e rispondenza agli attuali bisogni della città restano francamente tutte da verificare.
Il tutto comunque condizionato ai risultati di un nuovo onerosissimo progetto di bonifica, che solo ora si accinge a partire, con cronoprogrammi ai quali l’esperienza non consente di dare molto credito, e che risponde ancora a burocratiche logiche tabellari, anziché a fondate e sobrie analisi di rischio, come si fa nelle altre parti del mondo.
Di fronte a questi ragionamenti il mantra di Invitalia è che “non è possibile fermare un treno in corsa”, ma è un’argomentazione che, alla vigilia del mesto decennale dello Sblocca Italia, risulta francamente logora.
Sforzandoci di guardare avanti, le riflessioni problematiche svolte dal sindaco Manfredi in Consiglio comunale, e nel recente incontro in Municipalità a Bagnoli, sulla fattibilità della rimozione della colmata, sono un segnale positivo, se indicatrici della volontà dell’amministrazione comunale, dopo un decennio, di riequilibrare opportunamente i pesi all’interno del processo decisionale per Bagnoli, proponendo un percorso realistico e credibile, ben integrato nella nuova visione di città “giusta, sostenibile e attrattiva” che il piano urbanistico si è impegnato a definire.
Dove finisce la pianura

Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 18 dicembre 2023
La terra nera dov’erano le fragole e le piante alte di noce ora è un tracciato largo, polveroso, lo percorriamo per centinaia di metri, ai lati è una teoria ininterrotta di cantieri, le reti di metallo e plastica rossa segnano il dedalo dei lotti, il lavoro di uomini e macchine è febbrile, c’è di tutto, villette, case plurifamiliari, palazzine, in un trionfo spontaneo di stili, gusti, velleità, in questa città-strada che sta nascendo in fretta alla periferia di Parete, ai confini del nulla. Come mezzo secolo fa nelle periferie di Napoli, ora è qui, nei comuni della seconda corona tra il capoluogo e Caserta, che la fame di case chiede anarchicamente risposta, e la scena è la stessa.
In un posto dove già attrezzature, spazi pubblici e urbanizzazione primaria scarseggiano, questa nuova scacchiera di case sperdute nelle terre significa, nel giro di pochi mesi, qualche migliaio di abitanti in più: per un comune che ne conta 12.000, una cosa epocale. La domanda è chi pagherà poi, a cose fatte, il debito di standard e servizi essenziali, che è il parametro che trascina ancora questi luoghi al fondo della classifica di qualità della vita.
Come ci fosse una regia, questi momenti di trasformazione convulsa seguono un loro turno. Dopo l’esplosione di Giugliano, nel corso dell’ultimo ventennio è successo in centri come Trentola Ducenta, Orta di Atella, un comune per volta, dove si crea la combinazione giusta di fattori perché la reazione si scateni. Questi cicli locali rapidamente si compiono, la forma urbis va in frantumi, poi l’epicentro si sposta, il gioco a perdere dell’edilizia a debito passa di mano, mentre le carte comunque stanno a posto, anche grazie alle deroghe del “piano casa” che Berlusconi ha piazzato una quindicina di anni fa al centro della scena.
Sono cose che succedono nel cuore di Campania felix, le terre nere nate sulle ceneri flegree di quindicimila anni fa, i suoli agricoli più fertili della galassia. Il valore delle produzioni agricole è il più alto in Italia, Langhe e Chianti esclusi. Proprio a Parete, c’è la più importante produzione di fragole a scala nazionale, di una qualità eccelsa, la grande distribuzione europea fa a botte per assicurarsela. È un’industria verde che crea lavoro, reddito, esportazione, competenza, coesione sociale: una delle poche poste attive di un territorio in sofferenza.
E non è la sola. Non lontano da qui, incontriamo Francesco D’Amore, nella sua bella azienda in località Santa Maria, a Frignano. Francesco è un agronomo visionario, in collaborazione con il Mulino Caputo, una delle più antiche aziende che produce farine a Napoli, si è messo in testa di ricostruire, proprio qui, il paesaggio cerealicolo come lo vide Goethe, arrivando a Napoli da Roma, un pomeriggio di fine ‘700, coi campi di frumento a perdita d’occhio, nel disegno dei filari alti di vita maritata.
L’intuizione è importante, la guerra Russia-Ucraina ci ha fatto comprendere l’importanza strategica dei cereali, del grano, la necessità di diminuire la nostra dipendenza dalle importazioni di quest’oro bianco che è alla base della nostra gastronomia, storia, identità culturale. Così, sulle terre nere, Francesco sperimenta le varietà di frumento e grano duro adatte ai nuovi andamenti climatici, l’innovazione assoluta sono le varietà a semina primaverile, una vera rivoluzione. Tutte queste cose sono diventate un progetto di filiera innovativo, grazie a un finanziamento del ministero dell’agricoltura interesserà tremila ettari qui, in Campania e in altre regioni del Mezzogiorno.
Poi, nel centro storico di Frignano, la sede storica delle Cantine Magliulo è una sosta obbligata della memoria. L’asprinio che beviamo è di un’eleganza assoluta, perché come ha scritto Mario Soldati “non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio, nessuno…”. Raffaele Magliulo ci conduce giù, nella grotta scavata nel tufo grigio, sotto la dimora ottocentesca, dove il vino si affina, poi al podere dove si conservano i filari ad alberata, e l’emozione si ripete: dai ceppi secolari di vite, franchi di piede, si diramano a raggiera i tralci che si elevano fino a quindici metri, sul colonnato solenne dei pioppi. Sono monumenti verdi che raccontano 2.500 anni di storia, furono gli Etruschi a pensarli, ce n’erano 18.000 ettari ancora all’inizio degli anni ’70, oggi ne restano un paio di centinaia, grazie all’opera di custodi appassionati come Raffaele.
Nel viaggio ci accompagnano Gena Iodice e Tommaso Maglione, due interpreti importanti della nostra cultura gastronomica, sposati nella vita, lei è una chef apprezzatissima, che fa vivere la tradizione e la rinnova con intelligenza; Tommaso è un agronomo di esperienza e visione, ha organizzato nella piana una rete di aziende agricole, che lui segue, promuove, consiglia, per produzioni di alta qualità, che poi Gena elabora nelle sue ricette, alla “Tenuta Maglione”, nell’emozionante borgo settecentesco dei mulini, a Triflisco; e all’osteria storica “La Marchesella”, a Giugliano. E’ qui che ascoltiamo il racconto del loro lavoro, rapiti dal menù di Gena, il suo ripieno con scarole crude, capperi olive e noci, e gli spaghettoni con cacio pepe e baccalà, sono cose che non si dimenticano.
Ma è tempo di riprendere il cammino, e quello che avverti girando la pianura è il destino segnato di queste terre fertili, insieme all’imperativo ineludibile di rispettarle, se aspiriamo ancora a un futuro, ma è una cosa che manca, anche all’iniziativa pubblica. Basta andare alla stazione dell’Alta Velocità di Afragola, anche qui, una cattedrale nel nulla, non s’è capito perché, ci arrivi percorrendo poco più che una poderale, fino ai 4 ettari sterminati di parcheggio, tutta la fortezza avvolta da una rete divisoria, come fosse una base militare, senza uno straccio di inserimento, avverti il terrore del vuoto che l’attornia.
Il nulla attorno alla stazione non è un vuoto fisico. Anzi, i campi ancora coltivati che la bordeggiano sono un esperimento un po’ naif di landscape urbanism, di urbanistica rurale, ecologica, di paesaggio. Il vero vuoto attorno a questa stazione è il vuoto di regole, di terre affidate al sottobosco opaco dei passaggi di proprietà. È l’anomia. È un vuoto quindi che ribolle, magmatico, un vuoto di attesa, di un qualcosa che prima o poi dovrà verificarsi: al posto dei campi, nuovi parcheggi, piccoli e grandi hotel, resort, logistica, case. Ed è un vuoto di progetti da realizzare.
È per questo che per arrivare all’immaginifica opera di Zaha Hadid (che comunque, se la osservi da vicino, mostra già i suoi acciacchi, segno di un’italica scadente qualità esecutiva), devi uscire dalla statale e ficcarti sui tracciati di antiche strade campestri, oggi sbrigativamente asfaltate. Dalle terre in subbuglio di Parete la stazione dista venti minuti, da Giugliano poco più, attraverso il mitico Asse Mediano, segno viario dell’infrastrutturazione post-terremoto, oggi declassato a strada quasi urbana a servizio della dispersione insediativa tra Napoli e Caserta.
Luoghi che gravitano su Napoli, ma verso i quali Napoli volta le spalle. Di queste trasformazioni che incombono non si accorge l’urbanistica cittadina, ma nemmeno quella di area vasta, se il piano territoriale della Provincia di Caserta, che pure gli anticorpi e i dimensionamenti li aveva per contrastare queste cose, è stato messo sbrigativamente in soffitta, quello della Città metropolitana di Napoli è là da venire, col risultato che la pianificazione, quando c’è, resta miope, affidata ai soli comuni, ficcati nei loro confini amministrativi.
E invece i luoghi di questo racconto si vedono tutti, volendoli vedere: le villette international style di Parete per napoletani espulsi dal mercato immobiliare della loro città; i suoli in ibernazione attorno alla stazione dell’Alta Velocità. Persino le poche architetture di qualità e d’autore presenti vengono sacrificate. È il caso dell’edificio dell’Agenzia Brionvega di Franca Helg e Franco Albini ad Arzano, oggi imbrigliato in pannellature di plastica che ne hanno alterato l’aspetto. Oppure il destino dell’edificio ex Covit a Grumo Nevano progettato da Eduardo Vittoria e demolito qualche mese fa per far posto a palazzine da realizzare, ancora una volta, in deroga alle norme urbanistiche, con il consueto “piano casa”.
Sono luoghi che dichiarano la crisi della civiltà urbana, almeno così come l’abbiamo conosciuta e realizzata anche nel secondo ‘900. Quando si sono cimentati, lasciando un’eredità certo a volte complicata, architetti, paesaggisti, scuole di architettura e di ingegneria, sempre comunque in risposta ad una legge, un piano, una programmazione (Ina, 167, Pser, 219, Titolo VIII, ecc.). Oggi non più, in questa sterminata terra di mezzo, vige l’anomia e l’autonomia del fare, e il disordine tollerato oggi contiene in sé e in nuce l’immagine di questi territori sfortunati tra vent’anni. Difendere la terra, stabilire una volta per tutte dove passa il confine della città resta la soluzione. Attendere non è più dato.
Le cose cambiano

Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 25 novemre 2023
In mezzo agli assilli e alle contrarietà della vita Port’Alba era un rifugio sicuro, quanto piacere e gratificazione c’era nell’esercizio di ricerca, la serendipità felice nel frugare delicatamente quell’arcipelago unico e imprevedibile di libretti, quante sorprese. Non avevamo capito quanto quell’ecosistema fosse delicato, fragile, ora che il meccanismo di competenze e tradizione s’è rotto, riprodurlo a tavolino non è cosa facile. Poi il pensiero si allarga, e rifletti che è solo un ulteriore segnale che la città sta cambiando, era rimasta ferma vent’anni, che ci piaccia o no le cose si sono rimesse in moto, velocemente.
Ora c’è il turismo, non è una nostra decisione, è lui che ha scelto noi, nel passa parola globale è giunto il nostro turno, anche qui, pensavamo che l’ecosistema grande che è il centro storico fosse robusto abbastanza, avesse la forza vitale e gli anticorpi per resistere a tutto, stiamo vedendo che non è proprio così, che ogni cosa è in gioco, nel bene e nel male. A far girare la macchina ci sono tre possenti motori – l’aeroporto, il porto, l’alta velocità – ancora una volta si tratta di forze che rispondono a input e processi più grandi di noi, la sensazione è che la decisione e il controllo non stiano proprio nelle nostre mani.
Poi è arrivato il flusso imponente di soldi del PNRR, lo slogan anche questa volta è stato “presto, che si perdono i soldi”, che per una buona programmazione non è proprio il massimo, speriamo che vada tutto bene, ma una strategia d’insieme sembra mancare, o comunque nessuno l’ha raccontata. Tra l’altro proprio le risorse per i pezzi di città più strategici ed importanti, Scampia e Taverna del Ferro, sembra stiano venendo meno per decisioni incomprensibili del Governo che, su questi temi, ha ostinatamente deciso di non cambiare idea.
Come sempre nella vita, ci sono differenze: se alcuni pezzi di città sono rapiti dal flusso vorticoso del mutamento, altri restano ai margini, a guardare. Così, i due grandi giacimenti del rinnovamento della città stanno immobili, Bagnoli e Napoli est, un capitale sterminato ostaggio di una bonifica all’italiana che non deve concludersi mai, tra propaganda e cinismo, e gli investimenti si tengono alla larga.
Nel frattempo i più giovani e i più bravi – che studino o lavorino – comunque vanno via, hanno deciso che non è più il tempo di aspettare.
Perché non manchi proprio nulla, una bella sballottata l’ha data madre terra, con la ripresa del bradisismo, un respiro millenario del suolo che c’è solo qui al mondo, e sarebbe l’occasione per ripensare Napoli nel territorio ampio che l’avviluppa, quel mosaico metropolitano fragile, squilibrato, gravido di sofferenze e risorse, anche quest’anno relegato in fondo alla classifica di qualità della vita, rispetto al quale un pensiero, l’indicazione di una possibile via di uscita ancora mancano.
In attesa di una visione istituzionale di area vasta, flussi di cose e persone di muovono comunque e l’aggressione ad uno dei territori più densi d’Italia è in corso: Arzano, Parete, Orta di Atella, Pomigliano d’Arco, Volla, ecc., stanno crescendo in un disordine edilizio che erode suolo agricolo per realizzare residenze prive di attrezzature, servizi, standard, per napoletani in fuga dai valori immobiliari alterati al rialzo nella loro città o per semplici investitori, spesso di aree grigie dell’economia.
Nei prossimi giorni i rappresentanti dell’Unesco saranno a Napoli per la loro conferenza sul “Cultural Heritage”, e la domanda è se saranno valutate queste dimensioni, o ci si limiterà ad uno sguardo zenitale e di facciata (nel senso costruttivo del termine) dell’area perimetrata del centro storico.
Tracciare una visione complessiva della città vuol dire pensare largo, nel tempo e nello spazio, sospinti da quella che il sociologo Carlo Donolo ha definito l’intelligenza delle istituzioni: enti pubblici che lavorano per il bene comune, che sono essi stessi beni comuni. Nel flusso impetuoso di mutamenti che ha rimesso in gioco la città, costruire le condizioni per restare, per non andare via, è questo il bene comune più importante.
Se la campagna non c’è più

Antonio di Gennaro, 9 settembre 2023
Il dibattito sul disegno di legge di modifica della legge urbanistica regionale entra nel vivo, come è giusto che sia. Tra i punti che necessitano di una ulteriore riflessione vi sono senza dubbio quelli relativi alla disciplina del territorio rurale che rischia di diventare, se il testo non dovesse mutare, una sorta di optional, un’area a statuto e destinazione incerti, dove tutto può ancora succedere, in contrasto con gli obiettivi di contrasto al consumo di suolo e alla dispersione insediativa, che pure il testo di legge dichiara di voler perseguire.
Il problema sta innanzitutto nelle definizioni. Diversamente da altre leggi regionali – pensiamo soprattutto alla Toscana e all’Emilia-Romagna – il disegno di legge campano istituisce tra la città e la campagna, tra il territorio urbanizzato e quello rurale, una sorta di terra di mezzo, lo spazio periurbano, che comprende sostanzialmente i paesaggi della campagna urbanizzata a bassa densità.
Nella legge toscana e in quella emiliana il territorio urbanizzato comprende solo la città densa, continua, consolidata, dove è giusto e opportuno procedere a tutte le riqualificazioni, recuperi, completamenti necessari. Al di fuori del confine della città consolidata inizia tout court il territorio rurale, che comprende, si badi bene, anche le aree di dispersione insediativa, e qui l’obiettivo è quello della tutela dei suoli non urbanizzati, la valorizzazione agricola multifunzionale, l’edificabilità rurale, sulla base di piani aziendali approvati dall’amministrazione, e basta.
Nel disegno di legge campano avviene per ora il contrario: in assenza di parametri, indici quantitativi misurabili, basta la presenza di pochi fabbricati e un minimo di urbanizzazioni nella campagna aperta per qualificare questi spazi come periurbani, ed allora può succedere di tutto, con la possibilità-limite che nei piani urbanistici la campagna come tale non esista più.
Questi timori sono tanto più giustificati in ambiti come quello della fascia metropolitana regionale, dove il 45% dello spazio è fatto di suoli fertili, con 20.000 aziende agricole che, attorno alla città, spesso dentro di essa, producono sul 15% della superficie coltivata il 40% del valore della produzione agricola regionale. Si tratta dei grandi sistemi rurali della campagna abitata: la piana campana, le colline flegree, i versanti vesuviani, i terrazzamenti della Penisola: paesaggi rurali storici, che in assenza di un ripensamento potranno cascare in larga parte nel limbo periurbano, ed allora che il Signore ci protegga.
Occorre nel disegno di legge un chiarimento profondo di prospettiva. Rispetto ai problemi posti dal cambiamento climatico, dal declino di biodiversità, dalla corrosione dei paesaggi storici, gli spazi agroforestali pregiati che fortunatamente rimangono attorno alla città, compenetrati con essa, sono la nostra assicurazione sul futuro, l’ecosistema di compensazione, regolazione e sicurezza che può aiutare la città a non collassare.
La disciplina di tutela gelosa di questo capitale naturale deve essere meglio declinata nel disegno di legge, con criteri certi, misurabili e verificabili. C’è tutto il tempo per migliorare: la campagna urbana con la sua complessità è parte di noi, pensiamo ai modi giusti per proteggerla, farla vivere ancora.
Le tre pacificazioni che attendono città

Antonio di Gennaro, 4 gennaio 2023
Con l’articolo importante di Laura Lieto, assessore all’urbanistica del comune e vicesindaca del comune di Napoli, pubblicato mercoledì scorso su queste pagine, riparte il discorso pubblico sul futuro della città. Il percorso proposto è una sintesi ragionevole di pragmaticità e strategia. Prima di tutto c’è la necessità di sbloccare/velocizzare le trasformazioni necessarie che il piano regolatore vigente già prevede, soprattutto nella zona orientale. Lo strumento è una variante normativa, da approvare nei tempi brevi. Poi c’è la visione del futuro, con un’agenda articolata di strategie, obiettivi, progetti guida, il tutto sintetizzato in un “Documento strategico per una città giusta, sostenibile e attrattiva”, attualmente all’esame della Commissione urbanistica del Consiglio comunale.
Nel suo articolo l’assessore Lieto giustamente sottolinea l’importanza del processo di ascolto, confronto, partecipazione che da questo momento si avvia, con lo scopo di dotare la città del nuovo piano urbanistico.
Le prime riflessioni, a caldo, riguardano tre urgenze indifferibili, che meritano un’attenzione ulteriore, e che proviamo schematicamente a sintetizzare così: per voltare veramente pagina la nostra città ha bisogno di una triplice pacificazione: con il territorio metropolitano, con i suoi 30 quartieri, con i suoi abitanti di oggi.
Nessun discorso di attrattività può arrestarsi dentro i confini cittadini. La soluzione dei problemi più urgenti (abitazione, rifiuti, trasporti, impianti tecnologici, rischi ambientali ecc.) è perseguibile solo alla scala metropolitana. D’altro canto, ci piaccia o meno, è alla scala metropolitana che gli osservatori esterni, dalla stampa specializzata alla commissione europea, misurano la qualità del nostro sistema di vita e assegnano i loro ranking. Al momento Napoli e il restante territorio metropolitano non si fidano l’uno dell’altro, si guardano con sospetto, sfiducia, la rivendicazione prevale sul senso di cooperazione.
Tornando a noi, all’interno dei suoi confini Napoli rimane un’aggregazione provvisoria di villaggi. Eppure, molti dei suoi quartieri, per peso demografico e territoriale, sono vere e proprie città nella città, ciascuna con un proprio carattere, uno specifico cahier di sofferenze, bisogni, necessità. Per riabbracciare finalmente questo universo complesso all’interno di un destino comune è necessario dimostrare a ciascuna realtà territoriale, numeri alla mano – da Pianura a S. Giovanni, passando per Scampia e S. Pietro a Patierno – che si sta anche operando in direzione di un loro beneficio concreto, di una risposta alle specifiche esigenze locali.
In ultimo, ogni discorso sul futuro deve partire dal riconoscimento delle condizioni difficili e dall’incertezza di prospettive che i napoletani di oggi vivono quotidianamente. Soprattutto nei confronti delle fasce giovani di popolazione la città non è mai stata tanto spietatamente avara. L’articolo dell’assessore Lieto dedica a questi aspetti lo spazio doveroso, ci sembra solo che, prima di pensare all’attrattività per “nuove popolazioni”, la priorità rimanga quella di dare risposta ai cittadini di oggi, offrendo un percorso misurabile di miglioramento dei servizi essenziali, quartiere per quartiere. Sarà un percorso graduale e difficile, nessuno può reclamare miracoli, ma qualche obiettivo verificabile bisogna pure stabilirlo.
Nel lavoro che ci attende verso la costruzione del nuovo piano della città, queste tre pacificazioni, queste tre alleanze da costruire con l’hinterland, i quartieri e i cittadini di oggi, saranno la cartina al tornasole per misurare e selezionare le reali priorità, migliorando e riammagliando l’esistente, mettendo a frutto quanto il PRG già consente, curando e rispettando i suoli della città, riconducendo al governo cittadino il controllo di aree e processi fondamentali, a partire da Bagnoli.

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