Le colline del Fortore, uno dei paesaggi più belli e importanti, tra i meno conosciuti della Campania. Qui erano i querceti a perdita d’occhio e le praterie dei Sanniti. Iniziarono i Romani a tagliare i boschi, il diboscamento proseguì in epoca comunale, ma il cambiamento epocale avviene nel XVIII secolo, con l’avanzare della granicoltura. Giuseppe Maria Galanti, a fine ‘700, racconta questo processo come una grande crisi ambientale, con l’erosione rapida e il dissesto dei suoli, privati della protezione arborea. Al posto del manto boschivo si forma un nuovo ecosistema, che Giacomini nel suo volume sulla flora d’Italia per il Touring Club definisce “steppa mediterranea”: un mosaico a perdita d’occhio di cereali e praterie, pure caratterizzato da una inaspettata biodiversità, e frammentato in un patchwork di minuscole proprietà e appezzamenti, a volte appena sufficienti per seppellire un uomo, per usare le parole di Manlio Rossi Doria, che proprio per questi paesaggi conia l’ossimoro del “latifondo contadino”.
E’ uno dei paesaggi più belli della Campania e d’Italia: il mosaico rarefatto di campi muta colore con le stagioni: sono le terre della openess, dell’apertura, della vastità, dell’essenzialità, della sobrietà. Un pezzo appartato di mondo troppo delicato, inerme contro l’ horror vacui, la nostra incapacità di comprenderne il respiro, percependolo alla fine come spazio vuoto, da riempire e snaturare con una teoria di generatori eolici.
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