Antonio di Gennaro, 12 novembre 2013

La notizia del sequestro di 43 ettari di coltivazioni agricole e di 13 pozzi per irrigazione nel cuore della piana campana, a Caivano, è dolorosa in sé, ma lo è ancor di più in prospettiva, per le possibili conseguenze che essa potrebbe avere per l’agricoltura regionale e nazionale.
Per capire cosa è successo è utile ricapitolare alcuni aspetti della vicenda. Il primo dato è che la magistratura napoletana ha disposto il sequestro delle aree agricole sulla base di analisi di acque irrigue provenienti da pozzi legalmente autorizzati, effettuate volontariamente dagli agricoltori, nell’ambito di un monitoraggio promosso dall’amministrazione comunale di Caivano. A fronte di un comportamento all’insegna della responsabilità, per gli agricoltori è paradossalmente scattata una denuncia penale per inquinamento della falda idrica.
Molti dei pozzi sono stati sequestrati per elevati contenuti di fluoruri, manganese, arsenico. Si tratta di composti naturalmente presenti nella falda di una pianura vulcanica. Questo significa che si tratta di “valori di fondo” dell’ecosistema, che quelle sostanze nell’acqua ce le ha messe la natura, non l’uomo, proprio come nel caso del viterbese.
In alcuni pozzi è stata rilevata la presenza di triclorometano, un composto organico volatile che si disperde in atmosfera con un semplice gorgogliamento delle acque. In ogni caso, come dimostrato dall’Istituto Superiore di Sanità per l’area ex-Resit di Giugliano, questi inquinanti organici non si rinvengono nei prodotti agricoli irrigati con acque che pure ne contengono. La conclusione è che non esiste nessun rischio per la salute umana. D’altro canto la legge prevede che eventuali provvedimenti interdettivi delle attività agricole si basino su una rigorosa analisi del rischio, proprio quello che non si è fatto a Caivano, dove si è proceduto al sequestro delle coltivazioni senza effettuare analisi della sanità dei prodotti. Se passasse il ragionamento della Procura di Napoli dovremmo dismettere mezza agricoltura regionale, proseguendo a stretto a giro con le altre pianure italiane, che da questo punto di vista hanno problemi a volte ben superiori ai nostri.
C’è poi il fatto, in questo scombinato paese, che una normativa specifica per i suoli e le acque ad uso agricolo ancora non esiste: nel vuoto legislativo si procede quindi per analogie, per inferenze che, come nel caso di Caivano, non stanno proprio in piedi. Anche perché il Piano di tutela delle acque dell’Autorità di Bacino Nord-Occidentale dimostra come la situazione riscontrata a Caivano, sia per i valori di fondo che per i contaminanti antropici, caratterizzi ad ampio raggio l’intera falda della piana campana, e non si capisce quindi quali sarebbero le responsabilità penali del singolo agricoltore.
Il faro che la magistratura ha acceso sulla piana campana è doveroso, ma la caccia alle streghe non serve a nessuno. Dovremmo con calma comprendere come le attività agricole in Terra di lavoro non costituiscono una fonte di rischio, più di altre attività umane con le quali pacificamente conviviamo, ma piuttosto una forma di presidio economico, culturale, civile del quale abbiamo bisogno ora e in futuro.
Nell’ultimo quarantennio il territorio della piana campana è stato maltrattato, ora ha bisogno di un grande intervento di cura, messa in ordine, ripristino di civili condizioni di vita. In questa immane opera gli agricoltori sono i nostri principali alleati, non il capro espiatorio da gettare in pasto a un’opinione pubblica suggestionata.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 13 novembre 2013.

caivano_web