Antonio di Gennaro, 4 dicembre 2013

S’è completamente dimenticato del “Rasoio di Occam” l’estensore del decreto del 2 dicembre sull’emergenza rifiuti nella piana campana: il principio secondo il quale è sempre meglio evitare, nella risoluzione dei problemi, la moltiplicazione non necessaria degli enti. Il provvedimento è infatti basato su un’architettura barocca fatta di comitati e commissioni inter-ministeriali, con il supporto di una nutrita schiera di enti nazionali di ricerca e dell’Arpac, chiamati a produrre un intreccio aggrovigliato di indirizzi, decreti, studi, relazioni, programmi straordinari di intervento, in un meccanismo a cascata, in apparenza serrato, che rischia, per come funzionano poi queste cose nella realtà, di durare anni.

Anche l’obiettivo finale, in apparenza chiaro, di identificare con decreto del governo nazionale “i terreni della regione Campania che non possono essere destinati alla produzione agroalimentare”, in quanto “interessati dagli effetti contaminanti di sversamenti e smaltimenti abusivi, anche mediante combustione”, appare mal formulato. La realtà è diversa, e necessita di una strategia di intervento ben più lineare. Certo, c’è sempre da studiare e approfondire, ma il cuore del problema è già correttamente identificato nel Piano regionale di bonifica dei siti inquinati, nelle due versioni del 2005 e del 2013, ed è costituito dalle “aree vaste”: i grappoli micidiali di discariche della piana tra Napoli e Caserta, che hanno inghiottito per un trentennio rifiuti urbani e industriali, fungendo da principale recapito dei traffici leciti e illeciti. Stiamo parlando di 800-900 ettari da mettere urgentemente in sicurezza, una superficie paragonabile a quella dell’Ilva di Piombino, senza perder altro tempo, sviluppando ulteriormente l’approccio già messo a punto dal Commissario di governo per le discariche di Giugliano, ed applicato nei lavori , in corso di affidamento, di messa in sicurezza della discarica ex-Resit. Si tratta di isolare e impermeabilizzare queste aree, piantandoci alla fine sopra dei boschi di protezione ecologica, che riqualificano anche il paesaggio, e tutt’intorno delle fasce verdi no food per l’ulteriore assorbimento dei potenziali inquinanti.

Questa parte del lavoro va fatta subito, non ci sono ragioni per procrastinare, né l’esigenza di attendere l’esito di studi e accertamenti in corso: bisogna attuare celermente il piano che la Regione si è già data, e dovrebbe essere questo il vero obiettivo del decreto, piuttosto che l’ideazione di un imponente marchingegno burocratico, come se fossimo all’anno zero, e la situazione ci fosse completamente sconosciuta.

Così com’è scritto il decreto si presenta come un commissariamento tout court, da parte del governo di Roma, dei poteri locali, però utilizzando i loro fondi, e la cosa potrebbe anche essere giustificata dall’inazione che ha caratterizzato l’ultimo quindicennio, nel corso del quale la filiera Regione-Province-Comuni si è dimostrata incapace di governare e contrastare questi fenomeni, seppur noti nelle loro linee fondamentali, anche se il giudizio va necessariamente esteso a importanti pezzi dell’apparato investigativo e repressivo dello Stato centrale. Eppure, questa strada di deresponsabilizzazione non convince, perché alla fine sono le capacità locali di governo e controllo del territorio che vanno potenziate, al di là dell’introduzione delle nuove fattispecie di reato, degli inasprimenti delle pene, di tutte quelle cose insomma che, da sole, troppo somigliano a vane grida manzoniane.

Pubblicato su Repubblica Napoli, venerdì 6 Dicembre.