val di sangro

Antonio di Gennaro Repubblica Napoli del 27 agosto 2016

La mattina del giorno dopo devo accompagnare il figlio sull’Adriatico, a mare dagli amici, dal borgo montano d’Abruzzo dove ci troviamo. Si è dormito poco, la scossa ci ha svegliati di colpo, e la mente umana resta un gran mistero, perché al primo scricchiolio il pensiero è corso istantaneamente agli ingegneri della Cassa del Mezzogiorno, confidando che i calcoli di questo residence oramai mezzo vuoto li abbiano fatti bene. Ci mettiamo in silenzio in viaggio, il cuore è pesante, splende il sole e fa freddo, lo spettacolo dell’alta val di Sangro è meraviglioso, l’Italia povera e solenne proprio come l’ha vista Dante, col manto di boschi medievali, le chiarie scintillanti dei pascoli, i borghi in alto, con le torri arroccate, ma stamattina questo paesaggio non da’ gioia.

Arrivati al lago il navigatore ci dice di lasciare il fondovalle e di arrampicarsi sul crinale, svalicando nella valle parallela: dall’alto, Villa Santa Maria è stupenda sullo specchio d’acqua, addossata alla Penna, l’enorme lama di roccia viva d’arenaria, che sembra il muro di un ciclopico bastione. Tutta la valle è un arazzo medievale, ed è gemella delle valli appenniniche laziali, umbre e marchigiane scempiate dal terremoto. I piccoli comuni che attraversiamo sono lindi, ordinati, con la rocca, la piazza del municipio, la scuola e il monumento ai caduti della Grande guerra. Di valli come questa l’Appennino ne ha cento, ma il numero non inflaziona il valore unitario, anzi l’aumenta, perché questi luoghi fanno sistema, sono l’ossatura storica e naturale del paese, ma stamattina il cuore resta pesante, perché la bellezza che attraversiamo è inerme.

La strada tortuosa si srotola in mezzo a pascoli ordinati come un salotto, senza l’algoritmo di Google non l’avrei percorsa mai, è una provinciale ed è tutta in frana, l’amministrazione che dovrebbe manutenerla abbiamo pensato bene di abolirla, e i soldi comunque non li troveremo mai. Scendiamo finalmente a Gissi, sulle colline dietro la costa, in mezzo a un mare di ulivi, il corso l’hanno dedicato a Remo Gaspari, che per questi suoi comuni ha fatto tutto, le strade, le case, gli impieghi pubblici, e pure l’area industriale, che per decenni ha tirato, ora è in crisi pure lei e si va mestamente svuotando.

Al ritorno a Rivisondoli sono a pranzo con Alessandro Leon, da anni camminiamo queste montagne, i figli erano cuccioli, ora sono all’università; qualche volta ci raggiungeva anche il papà di Alessandro, il grande Paolo, con la sua ironia, il garbo e il sorriso, se ne andato da poco, ci manca molto. Alessandro si occupa di economia dei beni culturali, ragioniamo a tavola della lezione del passato, se ce n’è una, perché un paese geologicamente giovane come il nostro, che instancabilmente trema, presenta una sua ininterrotta, dolorosa casistica, con un paio di eventi rilevanti ogni decennio. La domanda è come curare queste ferite continue, ed allora il pensiero va alle ricostruzioni che sono riuscite bene, il Friuli, l’Umbria che costituisce una vera e propria “best practice”, e anche l’Emilia; ed a quelle che sarebbe meglio non ripetere, come l’Irpinia, o l’Aquila, con lo scandalo delle new town artificiali, costate un occhio della testa, mentre il centro storico glorioso muore e si disfa.

Ma il problema è che interveniamo sempre dopo. Nel rincorrersi convulso dei cicli elettorali gli investimenti per la manutenzione, la prevenzione e la messa in sicurezza del patrimonio non pagano, non producono consenso. Padoa Schioppa ripeteva che le politiche pubbliche devono ritrovare lo “sguardo lungo”, ma era ritenuto un rompiscatole insopportabile, e lo abbiamo cacciato via. Intanto, il “debito pubblico territoriale”, sarebbe a dire i soldi che non abbiamo, per le manutenzioni e le messe in sicurezza che non faremo mai, aggiunto al costo dei disastri che poi inevitabilmente avvengono, aumenta in modo esorbitante, e supera probabilmente quello finanziario. A questo punto, non solo l’eredità prestigiosa degli insediamenti storici, ma anche l’armatura territoriale costruita nel dopoguerra, con uno sforzo pubblico poderoso, che nel bene e nel male ha consentito al paese di uscire da un medioevo che nessuno dovrebbe poter rimpiangere, rappresentano per la nostra generazione quasi come una condanna, un’eredità che non possiamo permetterci di mantenere.

E comunque la mente umana è strana, Herbert Simon parlava di “razionalità limitata”, e nel mio caso aveva ragione, perché ora penso quasi con sollievo al dover lasciare questo Appennino instabile, che pure amo tanto, per tornare a Napoli, dimenticando che tra vulcani, bradisismi e terremoti abito l’area metropolitana più pericolosa d’Europa. Tutto il paese è fatto così, e l’unica è assumere finalmente sulle nostre spalle tutta la responsabilità di rimettere le cose a posto, ci vorrà tempo, un’altra politica, un’altra idea di territorio e di cittadinanza, con il cuore pesante per tutti i lutti, ma con il ciglio asciutto e lo sguardo lungo. Sono convinto che la telefonata di cordoglio che Obama ha fatto a Mattarella non fosse rituale: il mondo alla fine ama l’Italia, sente di aver bisogno di lei, siamo noi che non sappiamo che farne, ed ha ragione il sindaco, il paese non c’è più, ma purtroppo non è solo il suo, quello piccolo, ad essersi dissolto.