Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 ottobre 2016
La firma del patto per Napoli è stata una specie di fusione fredda, nonostante l’importanza dei temi in gioco gli animi non si sono entusiasmati, ed è utile capire perché. Probabilmente conta il rapporto difficile tra i contraenti, se il premier ha tirato in ballo la stretta di mano tra Rabin e Arafat il problema evidentemente c’è, ma non è questo l’aspetto centrale della vicenda.
In altri tempi, il finanziamento di un piano infrastrutturale e di ammodernamento urbano sarebbe stato considerato come un fisiologico trasferimento dallo stato centrale verso la terza città d’Italia: la modalità normale con la quale il paese tiene in ordine e in sicurezza il suo sistema urbano, insomma un atto dovuto. Adesso, questa modalità ordinaria di funzionamento della Repubblica viene spettacolarizzata, si trasforma in un evento da celebrare, e questo nelle persone sensate finisce per destare preoccupazione anziché euforia, perché l’erogazione delle risorse necessarie alla vita di una metropoli diventa quasi un atto discrezionale, che risente delle contingenze, del momento politico, dei rapporti di forza, delle esigenze comunicazione, addirittura della qualità dei rapporti personali.
Poi, c’è la vertigine della lista, nel senso che per ovvie esigenze di sintesi il messaggio che passa è un elenco di progetti eterogenei, dei quali riesci certo a cogliere l’importanza, ma la cui somma non configura immediatamente una strategia, un racconto coerente di come si intenda cambiare la città. Prendiamo l’abbattimento delle Vele, un’idea non nuova, se ne parla da un quarto di secolo, ma che da sola, se non dici cosa viene dopo, evidentemente non basta a mutare le sorti di un quartiere, a favorire quella benefica miscela di ceti, funzioni, culture, opportunità che è alla base della qualità urbana.
Quindi il fattore tempo: nella lista dei progetti alcuni evidentemente esplicheranno benefici nel medio-lungo termine, vedi il completamento della metropolitana fino all’aeroporto; altri, come l’acquisto dei nuovi treni, la messa in sicurezza delle scuole, la ripresa del progetto Sirena (perché si è aspettato così tanto?), produrranno effetti in un orizzonte via via più ravvicinato, ma anche qui, non è facile per il cittadino immaginare, nel dedalo di difficoltà e malfunzionamenti che è chiamato in solitudine a fronteggiare, quale possa essere il concreto margine di miglioramento nella sua vita di ogni giorno.
Per tutti questi motivi probabilmente il patto per Napoli fatica a suscitare entusiasmi, a mutare realmente il clima che si respira, e qui comune e regione possono fare molto. Perché alla fine, a pensarci bene, i progetti presentati sono solo un segmento di un’agenda più vasta, che comprende la zona est, il centro storico, le periferie, il porto, il parco delle colline, la costruzione della città metropolitana, gli impianti per i rifiuti, oltre naturalmente a Bagnoli. Se mettiamo insieme le risorse in gioco si arriva ad una cifra da capogiro, probabilmente superiore ai tre miliardi, dieci volte quindi l’investimento del quale si è parlato in questi giorni, una cosa da far tremare le vene e i polsi. In quest’impresa, il fattore limitante non sono i soldi, ma la capacità amministrativa, la macchina per attuare – integrandole in un progetto coerente – tutte queste cose, ed è la vera infrastruttura che ci manca.
(L’articolo è stato pubblicato con il titolo:”Quello che manca al Patto per Napoli”)
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