Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 11 luglio 2017

“Padroni in casa nostra” è stato lo slogan guida degli ultimi trent’anni, e questo vale dal livello condominiale, fino ad arrivare alle conclusioni politiche dell’ultimo G20 ad Amburgo. In un sistema mondiale che crolla da tutti i lati, l’unico conforto che ci rimane, in quanto piccoli uomini smarriti, è la promessa di un controllo individuale, totale ed esclusivo, almeno del nostro spazio privato di vita, quale esso sia: la casa, il rione, la città, la nazione. Soprattutto all’interno dei nostri poveri sistemi metropolitani – privi oramai di ogni leggibilità, dismessa da tempo ogni velleità di governo e controllo – l’unica sovranità e sicurezza che ci vengono concesse sono quelle delimitate dalle mura domestiche.

Si tratta evidentemente – le otto vittime di Torre Annunziata sono lì a gridarlo – di una promessa fasulla, di una semplificazione malsana, perché il destino e la qualità delle nostre vite e delle nostre abitazioni rimane purtroppo legato a una dimensione collettiva, il mondo lo abitiamo e lo modifichiamo insieme agli altri, le nostre azioni (ed errori) individuali hanno conseguenze pubbliche, e un governo del territorio, sia che parliamo del fabbricato che abitiamo, sia del paesaggio e del bacino idrografico intero che accoglie le nostre esistenze, è ancora indispensabile, al di là della propaganda, per garantire alle nostre vite un minimo di ordine, umanità, sicurezza.

L’area metropolitana che abitiamo, da Capua a Battipaglia, è raddoppiata due volte nell’ultimo sessantennio. La prima ondata edificatoria è quella che va dal dopoguerra al 1980; la seconda, spesso sottovalutata dagli storici, è quella legata alla ricostruzione, e va dal terremoto ad oggi. Il passaggio dal sistema settecentesco che vedeva Napoli, con  suoi cento casali, immersi nella campagna, a quello attuale, di mosaico illeggibile fatto di pezzi di città in mezzo a spazi rurali sbriciolati, è avvenuto in larga misura al di fuori delle leggi repubblicane che regolano le modificazioni del territorio. Metà della città metropolitana non ha alle spalle nessun piano, nessuna previsione. E’ una città nata spontaneamente, sotto la spinta disordinata di visioni e convenienze strettamente individuali. Ma il fatto è che il mondo non lo abitiamo da soli, e prima o poi paghiamo il conto.

Soprattutto la qualità ingegneristica ed edilizia di molti dei manufatti urbani della prima ondata edificatoria, quella fino agli anni ’70, è modesta, da terzo mondo, insicura. E’ un fatto che Aldo Loris Rossi denuncia inascoltato da più di vent’anni. Per di più, questi fabbricati scadenti sono stati a più riprese sopraelevati e modificati in libertà, ancora una volta sotto la spinta di insindacabili pulsioni individuali, neanche più verificabili da amministrazioni comunali in dissesto, costrette progressivamente a dismettere uffici, servizi tecnici e competenze deputate alla sorveglianza e al controllo della città.

Lo stesso disinteresse riguarda le campagne rimaste intrappolate nel reticolo urbano, si tratti del Vesuvio, delle Colline flegree, della Penisola o dei poveri lembi di pianura fertile, o anche i gioielli delle isole del Golfo. Ho provato queste cose a raccontarle all’ultimo convengo INU che si è svolto il 7 luglio in ACEN, sulla città metropolitana. Questi ecosistemi verdi sono ormai parte della città, dobbiamo prendercene cura se vogliamo che le nostre case siano sicure, altrimenti la natura si incendia, esonda, frana, erutta, ci casca addosso. All’interno del caos metropolitano che abbiamo creato, è necessario manutenere il vulcano e il versante boscato come fossero il fabbricato nel quale abitiamo. Il fatto è che non facciamo nessuna delle due cose. L’ideologia individualista che ci acceca ha cancellato la terra come base comune della nostra vita.

Anche le buone leggi che abbiamo scritto alla fine del ‘900 sulla difesa del suolo, le aree protette, le acque e il paesaggio, si sono trasformate in burocrazia, in un caleidoscopio di competenze impotenti, che non si sono mai integrate in un moderno sistema di governo del territorio, che non può che essere unitario, come accade nelle più mature democrazie europee.

Al termine del convegno INU parlavamo sconsolati di queste cose con Marco Grassi, direttore dell’unità di missione della Presidenza del consiglio “Italia sicura”. “Sono stato criticato per aver stanziato quattrocento milioni per salvare Genova, si tratta di interventi per mettere in sicurezza le montagne alle spalle della città. Chi protesta perché vorrebbe che quei soldi fossero spesi in altro modo, non capisce che quelle montagne ormai, per come è fatto il paese, si identificano con la città stessa, sono il suo quartiere più importante”. Le montagne, il fabbricato e la città in cui viviamo, il vulcano e la pianura, il suolo minacciato dai veleni, hanno bisogno di manutenzione e di governo. L’alternativa folle è tutti padroni in casa nostra. Benissimo, il fatto è che poi moriamo.