Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli, 20 dicembre 2017
L’annuncio di Invitalia che bisognerà ripetere la bonifica sull’intera area ex- Ilva, anche quella sulla quale si è già lavorato, è stato accolto con una certa freddezza da un’opinione pubblica già provata da vent’anni di opacità e inconcludenza, e viene da chiedersi cosa augurarsi ora dalla cabina di regia di domani, e in che modo sia possibile ridare smalto e credibilità al progetto istituzionale per Bagnoli. Certo, il comunicato di Invitalia pone alcuni interrogativi. Con lodevole trasparenza, l’Agenzia aveva tempestivamente pubblicato sul proprio sito i risultati dell’attività di caratterizzazione dei suoli e delle falde. Il passo successivo, stando alla legge, era quello dell’analisi di rischio, ma a questo punto c’è stata un’improvvisa accelerazione, dai dati di base si è passati direttamente all’annuncio che le gare per i lavori di bonifica sarebbero state avviate già a partire dal 22 dicembre prossimo, sull’intera area.
Il percorso delineato dal decreto legislativo 152/06 è diverso, lo ha spiegato bene Carlo Iannello nel suo articolo del 17 novembre scorso, proprio su queste pagine. Come scrive Iannello: « Le bonifiche dei suoli inquinati vanno eseguite solo dopo un’analisi di rischio che attesti la pericolosità sanitaria e ambientale di un sito: non è sufficiente il superamento delle soglie di contaminazione » . Il discorso di Carlo non fa una piega: con l’analisi di rischio noi passiamo da un rischio solo ipotizzato, ad un rischio concreto, specificatamente riferito a quell’ecosistema, all’uso che intendiamo farne, al contesto nel quale ci troviamo. Da una bonifica astratta, tabellare, ad una bonifica pragmatica, che misura gli sforzi in funzione degli obiettivi concreti da raggiungere. Nel dettagliato rapporto 2016 di Confindustria sulle bonifiche, una delle cause di inefficienza del sistema a scala nazionale ( sino ad oggi in Italia si è riusciti a bonificare poco meno di un quinto delle aree contaminate presenti nei Siti di interesse nazionale) è identificata proprio in questo aspetto: nell’incapacità di applicare la legge per intero.
A Bagnoli questo ragionamento non è stato ancora fatto, e ci si chiede allora come sia possibile definire i capitolati d’appalto, non avendo determinato le soglie di rischio; come siano state individuate le aree da bonificare e i relativi obiettivi, e cosa in definitiva chiederemo di fare alle ditte che eseguiranno i lavori.
Tanto più che i dati di caratterizzazione dei suoli evidenziano, specie nel primo metro di profondità, criticità piuttosto localizzate, che andrebbero ad ogni modo confrontate, se si intende ancora una volta applicare bene il decreto 152, con i valori di fondo, non solo quelli naturali ma anche quelli antropici, derivanti cioè dalle nostre molteplici attività. Abitiamo un’area densamente antropizzata, motorizzata e (nel bene e nel male) industrializzata, nella quale molte delle sostanze rilevate a Bagnoli dalle attività di caratterizzazione sono ubiquitarie, e la prospettiva, se si ragiona così sbrigativamente, sarebbe quello di dover sbaraccare mezza città metropolitana.
Resta il fatto che la formula istituzionale che il ministro De Vincenti è riuscito a costruire è quella giusta: la cabina di regia nella quale cooperano e dialogano i diversi livelli di governo, dallo Stato al Comune, passando per Regione e Città metropolitana, è la materializzazione dell’idea sacrosanta che il recupero di Bagnoli è una questione nazionale, che richiede il contributo di tutti. Alla cabina è dunque lecito chiedere una serie di cose.
La prima è che si faccia la bonifica giusta, quella prevista dalla legge – tutta la legge – senza forzature. Quello che i cittadini chiedono in questo momento non è un’azione esemplare, simbolica, riparatoria, ma buone decisioni e buona amministrazione. Bisogna usare bene i 270 milioni stanziati, che sommati ai 600 già spesi fanno quasi 900 milioni, poco meno di quanto è costato Expo, con la differenza che noi abbiamo investito questa considerevole cifra non per generare conoscenza, turismo, immagine, ma piuttosto per fare movimento terra.
La seconda cosa indispensabile per dare credibilità al processo è il cronoprogramma, con valore di patto inderogabile con la collettività, e con le unità di misura che non devono essere espresse in anni ma in mesi. Sarebbe bene poi relazionare periodicamente alla città e all’Italia su quanto si sta facendo, i risultati ottenuti, le difficoltà incontrate, i soldi spesi.
E, soprattutto, aprire finalmente l’area ai cittadini, c’è da abbattere un muro fisico oltre che di diffidenza, e tutto un rapporto tra la gente e i luoghi da ricostruire. Infine, se davvero si vuole dare il segno che si sta facendo sul serio, bisogna privilegiare la sostanza, i funzionamenti basilari del nuovo quartiere che sta nascendo. In Europa i nuovi insediamenti partono dal ferro, Copenaghen fa scuola, il principio è: prima il treno quindi le case. La linea 6 non basta, è una navetta da parco tematico.
Bisogna ridare priorità nei piani di investimento alle due linee previste dal piano regolatore, mettendo veramente la nuova Bagnoli, fin dall’inizio, in rete col resto della città e dell’area metropolitana. Dobbiamo liberare il quartiere storico dalla mortificante stretta dei binari della Cumana e della Metropolitana. Pensare al trasporto sostenibile, prima che ai porti turistici e agli alberghi. L’uso sobrio dei fondi deve servire anche a questo.
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