Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 2 febbraio 2018
Stando ai dati del ministero per i Beni culturali, la Campania è risultata nel 2017 seconda solo alla Toscana per numero di visitatori dei musei e dei siti monumentali. Eppure, scorrendo la graduatoria dei siti regionali che hanno contribuito al successo, si scoprono presenze inattese e storie da raccontare.
Dopo le superstar – Pompei, Ercolano, Reggia di Caserta, Museo Archeologico, Paestum, Capodimonte – a sorpresa compaiono infatti in classifica le Grotte di Pertosa-Auletta, con 61mila visitatori paganti, con una crescita del 30% negli ultimi due anni, ed è un po’ come il Leichester che vince il campionato inglese, la matricola che a sorpresa entra con autorevolezza nel giro delle grandi.
I motivi di curiosità sono molteplici, a partire dal fatto che il sito di Pertosa-Auletta è tra i primi in graduatoria a non avere alle spalle una gestione statale.
Qui non troviamo il ministero e la soprintendenza, e neppure investimenti milionari, ma due piccole comunità, poco più di tremila persone in tutto: due minuscoli centri alle spalle degli Alburni, tra un mare di olivi e boschi, nel paesaggio ordinato di quella terra di mezzo che è il Cilento interno, tra la Campania e la Basilicata. Auletta e Pertosa hanno saggiamente deciso di non farsi la guerra, e gestiscono insieme le grotte, attraverso una fondazione che si chiama Mida (Musei integrati dell’ambiente), nata nel 2004, che ha tra i soci fondatori, oltre ai due comuni, la Provincia di Salerno e la Regione. Quello di Pertosa-Auletta è quindi un modello di gestione dei beni culturali e ambientali “dal basso”, diverso e complementare rispetto a quello “ministeriale” dei siti più blasonati.
L’altro motivo di interesse è che dietro il successo non ci sono solo le grotte, ma tutto un sistema di musei, e una rete di attività di promozione e ricerca, che hanno trasformato l’intero paesaggio dei due comuni in un grande museo del territorio, e fatto della fondazione Mida una delle principali aziende culturali della Campania.
Di queste cose parlo con Francescantonio D’Orilia, il presidente della fondazione, passeggiando il lungo fiume, un corridoio ombroso di alberi, davanti all’ultima creatura Mida, il Museo del suolo di Pertosa. Franco è una delle persone che queste cose ha cominciato a immaginarle e vederle una quarantina d’anni fa, da ragazzo con la cooperativa “Carlo Levi” già lavorava per il riscatto di queste terre, ha vissuto le ultime lotte contadine degli anni ‘70, poi il terremoto del 1980, che poteva essere la fine di tutto, e invece è stato l’inizio.
«Fu allora che capimmo che bisognava giocare d’attacco, smetterla di piangerci addosso, e costruire un presidio attivo delle nostre terre. La chiave che individuammo è quella della conoscenza: per contrastare il declino e lo spopolamento, e cambiare l’inerzia delle cose, dovevamo studiare gli equilibri che il terremoto aveva sconvolto – economici, agricoli, insediativi, sociali. E soprattutto essere consapevoli del capitale naturale sul quale potevano contare. Non solo le grotte quindi, ma l’archeologia, l’agricoltura, il paesaggio. Dovevamo andare oltre la visita rapida delle scolaresche e dei turisti di paesaggio. È così che abbiamo scoperto, anzi ri-scoperto molte cose fondamentali. A Pertosa-Auletta c’è un raro esempio di cultura palafitticola in grotta, che risale all’età del bronzo, 1500 anni prima di Cristo. Le palafitte, sommerse dall’acqua del fiume che scorre lungo i tre chilometri di caverne, si sono miracolosamente conservate fino ad oggi. La scoperta è di fine ‘800, ma gli studi più recenti hanno accertato che le grotte sono state frequentate come luoghi di culto in età greco-romana, fino al medioevo, quando erano dedicate all’Arcangelo Michele».
I reperti archeologici che raccontano questa storia lunga tremila anni sono conservati nei musei di Napoli, Salerno e Roma, ma la fondazione Mida ha pensato che occorresse allestire qui, sul territorio, un luogo per raccontarla, e così è nato il Museo speleo-archeologico, un edificio di architettura moderna ben inserito nel contesto, la piazza di Pertosa bella e aggraziata, con le facciate del centro storico dipinte di suggestivi colori pastello. Nelle sale del museo, le ricostruzioni accurate della vita quotidiana di quei nostri lontani progenitori.
L’ultima realizzazione, sempre a Pertosa, è il Museo del suolo, il primo in Italia, uno dei pochi al mondo con quelli di Wageningen e Washington. L’ha pensato la direttrice scientifica della Fondazione, la professoressa Mariana Amato dell’Università della Basilicata. «La nostra idea», mi dice Mariana, «è che le grotte, con la loro suggestione e bellezza, sono il nostro primo museo, perché è proprio in questo mondo segreto, che puoi veramente capire come le acque le rocce e la terra lavorano per dare vita ai paesaggi visibili, quelli nei quali viviamo, e che ricadono sotto la nostra percezione». Il Museo del suolo si è rivelato subito un successo, con più di diecimila visitatori nell’ultimo anno e mezzo.
All’interno sono esposti monoliti dei più importanti suoli della Campania, con presentazioni multimediali che spiegano i meccanismi della fertilità e della produzione agricola, ma anche i processi di autodepurazione, che fanno del suolo il principale filtro dell’ecosistema, a protezione della nostra salute.
Sempre in tema di agricoltura, la fondazione Mida ha realizzato un questi anni un progetto di ricerca per salvare la preziosa varietà locale di carciofo, il bianco di Pertosa, tradizionalmente coltivato sui terrazzi fertili lungo il Tanagro, che rischiava di scomparire, insieme agli agricoltori e ai paesaggi agrari tradizionali. Ora è nato un presidio Slow Food, i ricercatori dell’Università di Salerno hanno studiato le particolari proprietà di questa pianta, e l’antico carciofo ha riportato un buon successo all’ultimo Terra Madre di Torino.
«Quello che è chiaro», mi spiega D’Orilia «è che tutte queste attività non possono reggersi sul volontariato. La Fondazione ha quindici dipendenti, giovani del luogo, che hanno dovuto studiare e migliorarsi per costruire una loro professionalità, ed ora fanno le guide ai musei e alle grotte, conoscono le lingue, si occupano della promozione, dei rapporti con gli enti di ricerca e con la stampa, dell’accoglienza ai dei turisti. C’è poi una rete di collaboratori esterni, docenti universitari, giornalisti, economisti, che ci aiutano a ideare e promuovere i progetti di ricerca. Tutto questo lavoro evidentemente deve essere remunerato, e noi ci riusciamo con la vendita dei biglietti, 604mila euro nel 2017, stando alle tabelle del ministero è un incasso superiore a quello del Museo di Capodimonte.
L’introito medio è di 10 euro, e per giustificare questo esborso dobbiamo garantire una qualità elevata, e rinnovare continuamente l’offerta. Quindi, non solo le grotte, ma i musei, le gite in canoa sul Tanagro e il rafting per i più ardimentosi, i laboratori didattici per le scuole, ma anche la sagra del carciofo. Dobbiamo invogliare i nostri visitatori a programmare una permanenza più lunga, che comprenda magari anche la visita agli altri gioielli del Cilento, come la Certosa di Padula o il centro storico di Teggiano».
Assistiamo così al ripetersi, in questo paesaggio integro e appartato, a un’ora appena di autostrada dalla città, di un modello di rinascita del territorio, assai simile a quello che sta restituendo speranza ai quartieri storici di Napoli, a partire dalla Sanità, e colpiscono soprattutto le similitudini: il puntare sui giovani, la conoscenza e la formazione; sulla sostenibilità economica di esperienze che devono essere in grado di reggersi da sole, al di là dei finanziamenti pubblici. Sono i semi di una nuova economia cooperativa, dal basso, e la scommessa è ora quella di passare da una graduatoria arida di siti e musei, per quanto lusinghiera, a un sistema, una rete di territori che tenga finalmente insieme tutte queste cose.
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