Antonio di Gennaro, 27 febbraio 2019

Un fine settimana di grecale, il vento gelido dei Balcani, con raffiche a oltre cento chilometri l’ora e fiocchi di nevischio impazzito, e in città è di nuovo emergenza. Il senso della gravità lo dà l’appello di protezione civile diramato dall’Amministrazione comunale, non era mai successo, con la richiesta di aiuto volontario rivolta ad agronomi, periti agrari ed agrotecnici, per effettuare le verifiche sulla stabilità degli alberi, in risposta alle centinaia di segnalazioni e richieste di intervento ricevute. In più, tredici scuole chiuse, assieme alla Villa Comunale, e chiusa pure un’arteria importante come viale Antonio Gramsci, dove cinque alti pini si sono pericolosamente inclinati.

E’ bene dire con chiarezza che quei giganti verdi lì non ci stanno bene: furono piantati a metà del ‘900 al posto dei lecci che c’erano prima, quando viale Principessa Elena, come allora si chiamava, fu realizzato alla fine dell’800; opportunamente l’amministrazione aveva iniziato negli ultimi anni la loro sostituzione, con il ritorno del leccio. Del resto, basta guardarli: molti dei pini residui sono cresciuti obliqui, verso la carreggiata, nel tentativo di guadagnare lo spazio vitale per il vasto ombrello della chioma, con la distanza dalle facciate storiche ridotta al minimo.

Dimentichiamo a volte che alberi come questi non sono oggetti d’arredo, ma esseri viventi con le loro precise esigenze, in termini di suolo e spazio aereo: quando li si mette a dimora bisogna immaginarseli cinquant’anni dopo, ma questo basilare esercizio di razionalità non sempre è stato praticato, ed ora ne paghiamo le conseguenze. Poi c’è il fatto che anche il clima è cambiato, su questo non ci sono più dubbi: la frequenza degli eventi estremi, portatori di rischio – pioggia, vento, siccità – è drasticamente mutata, e il fatto grave è che non disponiamo nemmeno più di modelli previsionali adeguati, ogni volta veniamo colti di sprovvista.

Nella vita degli uomini l’unico antidoto all’incertezza è la programmazione, dotarsi di una strategia. Bisogna lavorare in anticipo, giorno per giorno, aver cura e manutenere il proprio ambiente di vita, per prevenire le possibili criticità. Ma proprio questa possibilità ci è di fatto negata. L’inusuale appello ai tecnici, i più esperti dei quali hanno opportunamente risposto (del resto in queste cose occorrono competenze specifiche, e le responsabilità sono gravi), mostra che il re è nudo. Il comune non dispone più della macchina, dei servizi tecnici per curare e tenere in sicurezza il verde urbano. Con la finestra dei prepensionamenti offerta da “quota cento”, l’amministrazione resterà di fatto, di qui a breve, senza agronomi, e con pochissimi giardinieri, la grave crisi finanziaria dell’ente fa il resto, negando i mezzi e le risorse necessarie per le attività di manutenzione, ordinarie o straordinarie che siano.

Una boccata d’aria potrebbe venire dal finanziamento di cinque milioni di recente erogato dalla Città metropolitana, ma bisogna fare i conti con i tempi burocratici, e anche capire a cosa serve il carburante, se la macchina non ce l’hai più. Perché dovremmo averlo compreso, qui non si tratta di piantar alberi, ma di aver cura di quelli che si sono già, un patrimonio ingentissimo di spazi verdi, come l’immenso castagneto urbano dei Camaldoli, e alcuni grandi parchi della Ricostruzione, di fatto chiusi, inaccessibili, ed è la forma di povertà più amara, quella di possedere le cose, ma non aver nemmeno più la forza di goderne.

(Una sintesi dell’articolo è nell’editoriale “L’ambiente senza cura muore”, pubblicato su Repubblica Napoli il 27 febbraio 2019)