Tre brevi riflessioni, pubblicate da Repubblica Napoli tra agosto e inizio settembre. I temi sono diversi. Il rapporto Svimez, sulla sempre più preoccupante situazione del Mezzogiorno. Il pezzo sulla nuova strategia della Lega è uscito prima della rottura del governo giallo-verde, forse un po’ ha portato bene. E poi l’inaccettabile morte di un operaio agricolo, al lavoro sotto una serra a Varcaturo.

 

Il Sud come periferia

Antonio di Gennaro, 4 agosto 2019

Che effetto fa leggere l’ultimo rapporto Svimez dopo averle girate da poco, per conto di questo giornale, alcune di queste terre: le periferie d’Appenino,  dal Matese al Fortore al Cilento; e quelle di città, da San Giovanni a Teduccio a Pianura.

La cosa che più mi ha  colpito nel viaggio è una certa identità di pensiero.  Alla domanda su quali fossero le cose fa fare, i sindaci delle aree rurali interne  hanno risposto allo stesso modo dei parroci e degli operatori delle periferie urbane, indicando senza incertezze una terna costante: educazione, connessione, lavoro. Senza scuola non ci sono bambini e ragazzi; senza lavoro mancano i loro genitori. Per i collegamenti poi, l’aspirazione era per un muoversi meno faticoso di persone, merci e informazioni, che non dipendesse da una stradaccia pericolosa mezzo franata tra le colline; da una linea internet a singhiozzo; o da un autobus precario di periferia, senza più regola ed orario.

La cosa che Svimez dice ora, è che in questa nuova, inedita congiuntura, fatta di recessione e spopolamento assieme,   le città e le campagne del sud condividono ormai lo stesso declino, che é diventato di sistema. Il calo delle nascite e l’emigrazione, che hanno già dimezzato nel giro di un cinquantennio la popolazione della cintura verde appenninica, minacciano ora alle aree urbanizzate, che pure sembrano ancora congestionate di funzioni e persone. Insomma, è l’intero Mezzogiorno che si trasforma in periferia, la sterminata area interna di un Paese che non c’è più.

Calo demografico e recessione producono insieme un mix pericoloso, un avvitamento in picchiata: se le persone vanno via, cala il gettito fiscale e previdenziale, e non si ricostituisce più il capitale pubblico necessario  a tenere in sicurezza l’economia,  i territori, le comunità. Una precarietà gestionale che sperimentiamo già ora, nell’incapacità di mantenere  in condizioni minime di efficienza e decoro un capitale urbano e infrastrutturale che dal 1960 si è comunque sestuplicato, strappando il Sud Italia, nel bene e nel male, da un medioevo che sembrava non dovesse finire mai.

E’ una trappola che Gianfranco Viesti ha definito “dello sviluppo intermedio”: la condizione incerta dei territori che sono comunque troppo costosi, rispetto all’Est europeo ad esempio, per attrarre le nuove manifatture;  troppo poveri per interessare i circuiti globali dell’innovazione e dell’eccellenza.

Il percorso per uscire da questa situazione appare complicato. In tempi di autonomia differenziata, con le regioni del Nord che contrattano con lo Stato centrale le nuove regole di convivenza, quasi già fossero paesi terzi, viene meno la possibilità stessa di immaginare le necessarie politiche di riequilibrio, che non possono che essere nazionali e statali.

A livello locale, la macchina della pubblica amministrazione nel suo complesso, è in fase avanzata di dismissione, come effetto del prolungato blocco del turn over e dei prepensionamenti di Quota Cento. C’è poi la questione della continuità amministrativa: per ottenere risultati occorrerebbe costanza, pazienza, evitando di buttare all’aria ogni volta quello che è stato fatto in precedenza.

Rimangono di conforto alcune esperienze dal basso, come quelle che Francesco Erbani ha raccontato nel suo ultimo libro “L’Italia che non ci sta” (Einaudi), nel quale ha cucito insieme storie esemplari, dalle Catacombe di San Gennaro alle Grotte di Pertosa, accomunate da un aspetto: la riappropriazione, la cura e la gestione, da parte di comunità locali,  del patrimonio territoriale e culturale, generando in questo modo occupazione e nuove opportunità, insomma i beni pubblici che mancano.

Si tratta naturalmente di esperienze seminali, con il valore di esempi, fonti d’ispirazione. Hanno in comune il fatto di basarsi sulle persone, e di mettere al centro proprio le tre parole chiave incontrate nel viaggio – educazione, connessione, lavoro – con le quali hanno evidentemente molto a che fare.

 

L’inganno di Lega1 e Lega 2

Antonio di Gennaro, 13 agosto 2019

Torna alla mente il racconto di Massimo Troisi, col Senatur Umberto Bossi imbarazzato quando dalla sua libreria spunta fuori a sorpresa il 45 giri con dedica di “Tu si’ na malatia” del grandissimo  Peppino di Capri. E’ evidente che quella di Troisi non era comicità, ma scintilla di intelligenza cosmica, straniamento sublime, comprensione profonda delle cose.

Chissà se gli attuali strateghi e consulenti d’immagine della Lega ci hanno pensato, ma loro sono  andati comunque volutamente oltre, verso un trash scientificamente perseguito, col pancione in fuori sulla spiaggia, le cubiste che ballano l’inno, e il crocifisso attorno al pugno, esibito come amuleto magico-superstizioso, non più simbolo di fraterna universalità ma di identità rissosa, di insofferenza ostile verso i più deboli.

Ma non è questa nuova strategia comunicativa che interessa, quanto l’ingegneria elettorale che c’è dietro, che per certi aspetti ricorda quella che a sorpresa Berlusconi dispiegò nelle elezioni politiche del 1994 contro la gioiosa macchina da guerra di Occhetto, con un alleanza differenziata al nord con la Lega e al sud con Alleanza Nazionale.

Questa volta l’alleanza differenziata è tra due pezzi della Lega stessa: il pezzo più vecchio, chiamiamolo Lega1, quello che già governa le città e le regioni del Nord, e che per inciso nell’attuale parlamento è il partito che vanta la maggiore anzianità. Ed il pezzo nuovo, la Lega2, nata per drenare inaspettati consensi al Centro-Sud, che si giova della colorita, scientifica attrezzatura comunicativa descritta in precedenza.

E’ evidente che i due pezzi hanno obiettivi e funzioni del tutto diverse. La Lega1 una strategia precisa ce l’ha, è quella dell’autonomia differenziata, e del taglio fiscale alla Trump, che la Ragioneria Centrale dello Stato ha già valutato come assolutamente incompatibile con gli equilibri finanziari del Paese.

Sugli aspetti di incostituzionalità e iniquità dell’autonomia differenziata, così come delineata nelle ipotesi di intesa che circolano, hanno autorevolmente scritto Massimo Villone sulle pagine di Repubblica, e Gianfranco Viesti nel suo libro “La secessione dei ricchi”. Carlo Iannello sul Manifesto ha sottolineato un altro aspetto, che è l’impossibilità, una volta che il provvedimento passasse, di attuare politiche nazionali di qualunque tipo, con una competenza dello Stato centrale di tipo residuale, e l’Italia che scivolerebbe verso la condizione grigia e cinica pre-unitaria di paese “senza centro”, desolatamente descritta da Giacomo Leopardi nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”.

Ad ogni modo, il disegno è chiaro: rastrellare con la Lega2 – che un disegno proprio non ce l’ha, se non un astuto, bizzarro coacervo di slogan tra loro confliggenti, del tutto estranei ai reali bisogni del Mezzogiorno –  i voti che servono per attuare finalmente la strategia della Lega1, che mira a sganciare a qualunque costo il destino delle regioni più prospere da quello incerto del resto del Paese.

Qualche problema di convivenza tra le due Leghe sembrerebbe emergere, se sui social iniziano a fioccare commenti perplessi di elettori della Lega1 nei confronti della nuova, avventurosa strategia espansiva. Che però, nella sua inverosimiglianza, sta lì, chiara, alla luce del sole, impudente, evidente a tutti, e per questo alla fine magari ce la fa.

 

L’agricoltura clandestina

Antonio di Gennaro, 02.09.2019

Stava lavorando in serra Pasquale quand’è morto. La raccolta dei meloni a Varcaturo era finita da tempo, ma c’era comunque da preparare il terreno, le porche per la coltura successiva. Pasquale era un O.T.D., un operaio agricolo a tempo determinato. Un bracciante. Moglie e tre figli, a 55 anni era uscito di casa alle quattro del mattino, da Caivano, per una paga giornaliera di 40 euro. Come raccontato da Raffaele Sardo ieri su Repubblica, dei lavoratori che quel giorno erano in azienda, Pasquale e un altro erano a nero, gli altri regolarmente assunti.

La morte tragica di Pasquale Fusco costringe a ritornare sulla questione delle condizioni di lavoro in agricoltura. In Italia muoiono sul lavoro due persone al giorno, nel 2018 gli infortuni mortali sono stati 704, 83 in agricoltura, il 21% delle morti è al Sud. Nella piana campana la situazione è estremamente difficile. Le aziende sono particolarmente piccole, frammentate. La crisi della terra dei fuochi le ha ulteriormente mortificate, spinte alla clandestinità, il sommerso è enorme. La superficie agricole censita dall’ISTAT è solo un terzo di quella reale. Per di più si lavora su margini irrisori: i prezzi agricoli sono fermi da tre decenni in termini reali, mentre i costi di produzione – fertilizzanti, energia, manodopera – seguono invece fedelmente i rialzi del costo della vita.

La situazione ha aspetti paradossali. Le aziende agricole che cercano manodopera qualificata non la trovano. C’è invece nell’hinterland disordinato della piana campana un serbatoio di persone povere, come Pasquale, che in un modo o nell’altro devono lavorare. E gli immigrati, dall’Africa e dall’Est Europa, la loro paga è più bassa, sino alla metà. Ma qui la questione non è tra italiani e stranieri, ma invece tra chi è povero e ha bisogno, e tutti gli altri.

Ragionare del lavoro in agricoltura è dunque difficile, una questione troppo intrecciata ai temi delicati della marginalità, del disagio, della legalità, del controllo del territorio. Solo un’altra faccia della sofferenza sociale complessiva che affligge la grande area metropolitana. I Servizi Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro della ASL dovrebbero, controllare, monitorare la salute delle persone, la qualità degli ambienti di lavoro, ma il servizio sanitario nazionale, in grave affanno qui al Sud, non ce la fa proprio a stare dietro ai fabbisogni particolari del settore agricolo.

Le aziende agricole non dovrebbero essere lasciate sole. Una buona strada è quella della cooperazione: mettere insieme i piccoli perché possano finalmente difendersi in mezzo a un mercato globale spietato, con competitori che hanno costi inferiori ai nostri , una migliore organizzazione, oltre che sistemi-paese più vicini alle attività agricole. Solo le reti cooperative possono aiutare i piccoli produttori a spuntare margini più equi nella filiera del valore, nei confronti di commercianti e distributori, e ad adottare i necessari protocolli di legalità. In Trentino l’80% del valore della produzione agricola è gestita dalle O.P., le organizzazioni dei produttori riconosciute dall’Unione europea; al Sud la media è del 20%.

La morte di Pasquale Fusco è un evento doloroso, senza rimedio, le parole e i ragionamenti non servono. Resta il compito di dare ordine senso e prospettiva a un’agricoltura semiclandestina, che pure continua a gestire il 65% del territorio della grande area metropolitana. Se ci credessimo, il discorso potrebbe addirittura capovolgersi. Una filiera agricola ordinata, rafforzata dall’associazionismo, potrebbe significare per la Campania e il Mezzogiorno un’occasione importante di assorbimento e integrazione degli immigrati, di lavoro per i connazionali, insomma un ammortizzatore sociale attivo e produttivo, forse sotto certi aspetti migliore di quelli che stiamo mettendo in campo. Le persone, il territorio, l’agricoltura non possono andare avanti da soli.