Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 4 maggio 2020
In molti nel mondo si interrogano ora se tra le grandi vittime del virus non ci sia proprio la città, l’idea che sia meglio vivere densi, in quel concentrato di esperienze, stimoli, connessioni, condivisioni che solo l’habitat urbano è in grado di offrire. Di queste cose parla il reportage di Anais Ginori e Federico Rampini su “Repubblica” del 30 aprile scorso (“Da New York a Parigi, così la distanza sociale ridisegna le città”), e quello di Sabrina Tavernise e Sarah Mervosh, apparso pochi giorni prima sul New York Times (“Le più grandi città americane stavano già perdendo il loro fascino”).
La domanda è fino a che punto il distanziamento porti anche con sé una rivincita del sobborgo, la periferia dispersa, il piccolo centro: la possibilità di godere di spazi di vita ampi e riservati che la grande città non è strutturalmente in grado di offrire; assieme all’attitudine a spostarsi individualmente, col mezzo privato – auto motorino bici e monopattino che sia – oggi più sicuro rispetto all’affollamento carico di insidie del trasporto pubblico.
L’architetto Stefano Boeri l’ha detto chiaramente, per lui il tempo della grande città è finito, tra le conseguenze buone della pandemia potrebbe esserci un ritorno ai piccoli centri, a una dimensione di maggiore sostenibilità e armonia con la natura e i paesaggi. Della stessa idea lo scrittore Franco Arminio, secondo il quale è questo il momento di varare politiche serie di ripopolamento delle aree interne, dotando di mezzi e finanziamenti adeguati la strategia pensata da Fabrizio Barca alcuni anni fa.
In attesa che questi scenari epocali si chiariscano, resta a noi cittadini il compito di riorganizzare al meglio la nostra quotidianità in una città come Napoli, scoprendone magari aspetti e risorse insospettate. Perché il capoluogo è meno denso di quel che appare, ha al suo interno i suoi boschi e le sue campagne, tremila ettari di verde (un quarto del territorio cittadino) che saggiamente il piano regolatore ha tutelato, con le cinquecento aziende agricole che esso contiene.
Le campagne urbane formano una cintura verde, se stiamo attenti possiamo ripercorrerla dagli orti di Ponticelli ai frutteti di Pianura, passando per le masserie di Posillipo e le selve di castagno dei Camaldoli. Gran parte di queste aree verdi sono dentro il Parco Metropolitano delle Colline di Napoli, una creatura in sonno che sarebbe il caso di risvegliare.
Stiamo parlando di un patrimonio di aree agricole e forestali in città che vanno ora ripensate come spazi sociali, per i nostri piccoli, i ragazzi e i nonni, luoghi più salubri e sicuri per l’educazione e la vita all’aria aperta, da utilizzare come è ovvio con tutte le precauzioni e l’autodisciplina che il momento di transizione richiede.
Un esempio clamoroso sono i cento ettari di castagneto pubblico del bosco dei Camaldoli, del quale questo giornale si è più volte interessato, inspiegabilmente chiuso alla cittadinanza da anni. E’ un perfetto bosco appenninico in città, con tutto il profumo le macchie di luce i fruscii e la biodiversità. Sarebbe bello poterlo percorrere quest’estate, certo con cautela, in attesa di tornare, speriamo presto, sui sentieri d’Appennino.
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