Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida,
Repubblica Napoli del 2 gennaio 2020

Fioriscono sui giornali italiani e esteri i reportage sul destino dei grattaceli, da quelli della City di Londra a quelli di Manhattan, dalla Défence di Parigi, fino a quelli da poco completati di Citylife a Milano, tutti per adesso svuotati dalla pandemia, a causa dei confinamenti, ma soprattutto del lavoro a distanza.

Così George Hammond sul Finantial Time, una testata non certo facile alle suggestioni, si chiede se gli ultimi grattacieli che Londra ha da poco inaugurato rappresentino già il monumento a un modo di lavorare che non c’è più, e la stessa domanda se la pone Julia Kollewe su un giornale liberal come il Guardian, mentre sul New York Times Julie Creswell e Peter Eavis prendono atto del fatto che “anche se la pandemia di coronavirus sembra diminuire a New York, le aziende sono riluttanti a richiamare i loro lavoratori ai loro grattacieli e mostrano ancora più esitazione a impegnarsi a lungo termine per la città”. Insomma, è chiaro che la cosa non finisce qui, non si esaurirà nemmeno con la disponibilità del vaccino e l’immunizzazione di massa, ci stiamo tutti muovendo verso un altro mondo, un altro modo di lavorare e produrre.

È partendo da tutte queste cose che è nato il desiderio di capire cosa sta succedendo ai nostri grattaceli, quelli del Centro Direzionale di Napoli. Ci arriviamo ciascuno con la sua auto, la rampa che scende nel sottosuolo verso i garage ora semivuoti, è bordata da un filare di palme nane lasciate a un loro selvatico sviluppo, da una cascata anarchica di vite americana, e l’atmosfera è quella di una foresta tropicale  che va richiudendosi sul cemento sgretolato di una civiltà passata.

Dall’atmosfera cupa del livello “meno due” torniamo in superficie. La prima visita è alla fontana circolare ormai secca che doveva un tempo fastosamente accogliere il pedone che arriva in superficie dalla città vecchia, ora è un ricovero malinconico di lattine. Ai fianchi, le due gigantesche torri dell’Enel, svuotate da tempo, senza bisogno della pandemia. La sorpresa è trovarne una aperta, qualcuno ha rimosso le grosse catene che bloccavano le maniglie delle porte a vetro opacizzate dall’abbandono, come fosse un garage qualunque di periferia, c’è gente dentro, ci avventuriamo.

E’ una delegazione di funzionari e tecnici dell’azienda, devono effettuare un sopralluogo, si muovono con circospezione nell’atrio abbandonato, c’è acqua per terra, un armadio sventrato mostra all’aria fasci scomposti e impolverati di carte, e una scalinata un tempo sontuosa, con decori lignei da country club, ora più che mai incongrui, l’atmosfera è un po’ tesa, come archeologi che si inoltrino in un tempio sigillato da millenni. Comunque, quando scoprono che siamo lì solo per capire cosa sta succedendo al più grande pezzo della Napoli contemporanea, un po’ seccamente ci chiedono di andar via, per ragioni di sicurezza, s’intende.

Lunghe aiuole verdi bordano i viali, era un elemento di eccellenza del progetto, uno degli ultimi lavori di Pietro Porcinai, il più grande paesaggista italiano, si tratta quindi a tutti gli effetti di giardini d’autore. Porcinai scelse oculatamente specie sempreverdi della macchia mediterranea, ed è tutta una teoria quindi di lentischi, mirti, corbezzoli, filliree, oleandri, assieme a cugini esotici come la plumbago con le sue delicate infiorescenze celesti, viene dal Sud Africa ma s’è trovata assai bene, e infatti la trovi spudorata dappertutto, nei bordi strada, come un’infestante.

Il problema è che si tratta di un verde sofisticato, tecnologico, posto sul tetto di un oggetto di cemento che si sviluppa per due piani sotto, che deve quindi vivere e svilupparsi in un ambiente artificiale e confinato. Il mantenimento di questo ecosistema tecnico richiede la massima cura: irrigazione sapiente, controllo delle infestanti, potature accorte; come il “bosco verticale” delle due torri residenziali di Milano, sono in realtà cose fragilissime, che richiedono un dispendio energetico e idrico elevato.

Dopo un paio di decenni in cui le cose sono andate bene, il giardino di Porcinai è ora in piena crisi, ci sono aiuole a partire dall’ingresso in evidente abbandono, le infestanti ingoiano gli arbusti, mentre cespugli interi seccano e restano in piedi, stecchiti, su un sottobosco di bottiglie e cartacce. Assieme al rovinio della pavimentazione, con le mattonelle rotte o traballanti, frettolosamente sostituite da poveri rappezzi in cemento, il declino del verde è un ulteriore aspetto di quello più generale dello spazio pubblico, di quel tessuto connettivo che alla fine rendeva un minimo vivibile e presentabile questo luogo, che la città vecchia non ha mai voluto o potuto assimilare.

Perché alla fine il centro direzionale appare oggi esito di una modernizzazione fraintesa, arrivata in ritardo, quando i modelli post-industriali annunciavano, nel medio periodo, scenari diversi e legati ad innovazioni di cui già si aveva sentore: la digitalizzazione, le tecnologie informatiche e di comunicazione, il calo demografico delle grandi città, i mutamenti del mercato del lavoro.

E invece con un ritardo colpevole e dopo aver operato una finta riflessione tra piani attuativi concettualmente diversi durata quasi venti anni, con il contributo determinante dell’impostazione iniziale di Giulio De Luca – a sua volta basata sullo schema di Luigi Piccinato – alla fine, quasi per sfinimento, il disegno definitivo fu firmato dal giapponese Kenzo Tange. Decenni di gestazione non potevano che determinare un progetto urbano già obsoleto, concepito negli anni ’70 e privo di proiezioni al futuro e di analisi serie. Sarebbe bastato anche solo guardare all’altro lato dell’Atlantico, dove in genere le mutazioni urbane avvengono con decenni di anticipo.

Anche dal punto di vista ambientale, se c’è un’idea di progettazione urbana da portare a esempio di assoluta insostenibilità, è proprio quella che ha partorito questo enorme accrocco – per buona parte interrato nella palude dove ancora scorre sotterraneo il Sebeto – che fin dalla nascita è condannato a sfuggire alla sommersione grazie a un esercito di instancabili pompe sommerse, legando così la sua esistenza a un fabbisogno energetico perpetuo, come quello che occorre per refrigerare e riscaldare i suoi inospitali edifici in vetro-metallo.

A soffrire la crisi che li ha definitivamente chiusi sono alcuni degli edifici più rappresentativi. La coppia di torri cosiddette Wind, oggi Enel, all’ingresso dell’asse centrale, progettate da Giulio De Luca, Massimo Pica Ciamarra e  Renato Avolio De Martino, sono oggi vuote e in attesa di un difficile riuso. Eccessivamente sottili, secondo la sagoma del planovolumetrico, per recuperare un minimo di spazio all’interno i progettisti espulsero gli ascensori all’esterno ed eliminarono i pilastri: i solai di quelle torri sono appesi con dei tiranti alla grande trave visibile sulla sommità dell’edificio. Stesso destino per le due grandi torri marmoree dell’allora Banco di Napoli, progettate da Nicola Pagliara. L’abbandono sta causando il distacco di molte delle lastre e dei blocchi di marmo pregiato sagomate secondo i minuti dettagli esecutivi del progettista per il basamento e in facciata. Soltanto questi due complessi edilizi raggiungono una volumetria di poco inferiore ai 300mila metri cubi

Nonostante tutto, nel tempo questo tessuto urbano è riuscito comunque ad essere parte del quartiere. C’è riuscito, in particolare, sui bordi. Quello lungo il carcere di Poggioreale, ad esempio, si caratterizza per una connessione diretta e a livello con la via Otranto del quartiere Vasto, costeggia l’edificio più basso e a scala urbana (ex Olivetti) realizzato da Renzo Piano, sino all’istituto comprensivo “Gennaro Capuozzo”, una delle poche attrezzature pubbliche che il bulimico piano del Centro Direzionale è riuscito a produrre e sottrarre all’ingordigia dei privati che hanno gestito la realizzazione. A seguire, passando per il curioso Complesso Esedra, il percorso conduce alla nuova copertura lignea tutta a onde della stazione della linea 1 della metropolitana progettata dall’architetto italo-spagnola Benedetta Tagliabue.

Anche le torri residenziali, sul bordo opposto, restano alla fine una delle parti migliori, sicuramente più vitali di questo luogo. Certo i residenti hanno dovuto asserragliarsi dietro cancellate robuste, ma all’interno del recinto percepisci una cura, gli ingressi, le facciate, i balconi, e chiudi un occhio pure sulle verande che in molti hanno realizzato, in questo mare di spaesamento sono un segno di radicamento, finalmente, ai luoghi.

«Le città contemporanee dei servizi di Kenzo Tange» ci dice Francesca Castanò, professore di Storia dell’Architettura all’Università della Campania Vanvitelli «in Italia stanno andando incontro a destini diversi. Se a Bologna il Fiera District pare votato alla completa rivitalizzazione attraverso interventi che portano nuovi abitanti e nuove attività, qui a Napoli il Centro Direzionale, un autentico palinsesto architettonico con qualità assenti in analoghi progetti, lentamente muore, nel generale svuotamento di funzioni e di senso. Come pure la città satellite del Librino di Catania dove l’utopia di Tange è del tutto svanita»..

Ma la maggiore sofferenza di questo brano urbano è l’apparente assenza di prospettive, l’essere stato dimenticato dalla pianificazione urbanistica e da buona parte del discorso pubblico sulla città. In una logica rigenerativa, l’intervento non può prescindere dal fatto che le condizioni attorno alle quali è stato pensato non ci sono più, a maggior ragione alla luce della tragedia epocale che stiamo vivendo. Sarà necessario ristrutturare, smontare, integrare, reinventando la pelle e il contenuto degli edifici. Ma forse sarà necessario anche demolire e ricostruire (e forse nemmeno, in qualche caso) secondo modelli contemporanei di intervento e tecnologie adeguate.

Quello che è certo è che bisogna soprattutto restituire questo pezzo di città alla città, allontanando parte del terziario e mettendoci abitanti, migliaia di abitanti. E servizi, attrezzature pubbliche, per l’istruzione, la cultura, lo sport, le cose che servono alle persone per vivere. Una grande azione pubblico/privata, che conservi la traccia di questo luogo oramai stratificatosi nella città, mutandone però l’identità e l’abitabilità. Integrandolo finalmente con quello che c’è intorno, i quartieri vecchi del Vasto, di Poggioreale, con la vita certo piena di problemi e contraddizioni, i pensieri e i drammi indistruttibili di una città vera.