
Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, Repubblica Napoli del 30 marzo 2021
Un viaggio nella crisi urbana sotto i colpi del Covid l’ha fatto il quotidiano Le Monde, con un ciclo di interviste ai sindaci di 14 “ville-monde”, le città globali, ed è una storia avvincente dei drammi vissuti, misure prese, visioni e strategie per il dopo, che il coronavirus ha spietatamente sollecitato.
Perché l’abbiamo visto col racconto del Centro direzionale pubblicato su queste pagine lo scorso 2 gennaio: la pandemia ha gettato ombre lunghe sul destino dei grattacieli e dei quartieri d’affari in giro per il mondo, ma è inutile girarci intorno, le difficoltà riguardano la sicurezza della città in quanto tale, a cominciare dalle città-mondo, che sembravano destinate a guidare i destini del globo, al posto dei ferrivecchi obsoleti degli stati nazionali, e all’improvviso si riscoprono luoghi affollati pericolosi e fragili.
Così la signora Yuriko Koike, sindaco di Tokyo racconta come, dosando telelavoro e didattica a distanza, sia riuscita a decongestionare il trasporto pubblico, mentre la sua collega di Barcellona, Ada Colau, in un’area metropolitana simile a quella di Napoli, parla del suo lavoro per arginare il turismo di massa, limitare la speculazione dei fitti turistici, rivitalizzare i quartieri perché ora “…la cosa più importante è coprire i bisogni primari, avere un sistema sanitario pubblico forte e servizi pubblici ben dotati.” In Canada un’altra donna, Valérie Plante, sindaco di Montreal, sottolinea come il Covid “… costringa a ripensare il ruolo dello spazio pubblico, delle aree verdi, per mantenere le attività nel cuore dei centri urbani rispettando le distanze fisiche”, mentre Andy Burnham, sindaco della Greater Manchester, la seconda area metropolitana del Regno Unito, ha puntato sulla riorganizzazione della macchina amministrativa, per costringere i responsabili dei diversi servizi pubblici a lavorare insieme, dando priorità alla protezione dei soggetti deboli, il supporto alle case di riposo, il reperimento di alloggi singoli per i 1.850 senzatetto della città.
E Napoli? Nella tragedia epocale in atto, la nostra città come sta messa, come lavora per superare l’emergenza? Con queste domande in testa ci siamo rimessi in auto, convinti ancora che sia la suola delle scarpe il principale strumento per pensare. Nessun dubbio sulla direzione: se il coronavirus ha cambiato il significato degli spazi, lo spazio di Napoli, il suo futuro, è a est, nella città orizzontale, la pianura immensa di terra e acqua, come ti appare dal viadotto della 162, sfumata nella foschia dorata di questo anticipo di primavera.
In questo palinsesto scombinato e rarefatto di industrie dismesse, frammenti agricoli in abbandono, container, serbatoi petroliferi, mulini, viadotti a scavalco verso il nulla, c’erano tre città importanti, cariche di storia. San Giovanni, a inizio ‘900 era uno dei poli industriali più importanti del Mezzogiorno e d’Italia; Ponticelli, con la sua storia di agricoltura prospera e libertà, per quattro volte capace nei secoli di riscattarsi dai signori, e di lanciare l’insurrezione al nazifascismo; l’operosa Barra, con le sue società di mutuo soccorso, il sindacalismo bianco e quello rosso a lavorare insieme, per difendere la cultura e la dignità del lavoro.
Queste tre città, assorbite negli anni ’20 nel buco nero della Grande Napoli, ospitano il 15% dei napoletani, sono circa 140.000 i residenti, su 2.000 ettari che fanno il 16% del territorio comunale. Insieme dovrebbero essere uno dei soci di maggioranza del capoluogo, la verità è che non contano un bel niente.
E da un buco nero inizia il nostro viaggio, lo sprofondo improvviso tra boati e vapori che s’è aperto d’improvviso una mattina di inizio gennaio nell’area di parcheggio dell’Ospedale del Mare, in mezzo a questo scombino, tra i binari della circumvesuviana, la rampa d’atterro della 162, le torri del Lotto Zero sullo sfondo. Sembra il cratere scuro d’un ordigno bellico, le automobili inghiottite, le tubature e i sottoservizi esposti all’aria come budella, e invece è solo il cedimento di questa terra fragile e fertile di pianura, zuppa d’acqua e di torba, che un congegno di canalizzazione capillare ha mantenuto nei secoli, ma se non la rispetti non può finire che così.
Lamiere, recinzioni eterne di cantiere ed erbacce sono anche il paesaggio intorno al Parco pubblico “Fratelli de Filippo”, 100 ettari di terra fertile, un’area grande come Capodimonte, espropriata più di trent’anni fa per gli standard, anch’essa inspiegabilmente terra di nessuno, come il Parco del resto, in tempi di Covid dovrebbe essere un presidio di salute per i piccoli e le famiglie, 140mila cittadini, e invece è abbandonato per nove decimi a un degrado fisico e vegetazionale irreversibile.
A San Giovanni ci aspetta Enzo Morreale, testimone fedele della storia sociale e operaia della città. Con lui torniamo a quel mare nascosto e negato oltre i binari, il quartiere industriale della Corradini, quasi un secolo di manifattura, chimica, arti meccaniche e vetreria, gli edifici scoperchiati sono sommersi dalla boscaglia, in una Pompei industriale struggente, sulla riva di un mare dimenticato. Attorno a noi tutto è deserto e abbandono, le plastiche e i rifiuti portati dalla tempesta. Qui doveva sorgere il porto turistico per restituire a San Giovanni il suo mare, non se n’è fatto niente, nel frattempo l’Autorità portuale continua a tombare il mare davanti, tra poco la penisola della darsena est scaccerà del tutto l’elemento liquido, cambierà ancora la geografia di San Giovanni, da città sul mare a retroporto, con l’orizzonte davanti a noi minacciosamente chiuso da una nave da crociera alta come un palazzo di 12 piani.
Eppure l’est di Napoli non è un luogo dimenticato, in attesa, privo di progettualità. È, al contrario, un’area che ribolle, di flussi, di attrezzature, di narrazioni e di speranze. La vera immagine di questi luoghi è quella dell’interruzione, un continuo paesaggio interrotto. A Ponticelli, il Piano Particolareggiato del dopo terremoto, progettato da Marcello Vittorini, fu realizzato per tre quarti. Il rimasuglio di quel progetto interrotto è ancora lì che attende. Un terrain vague sul quale dal 1997 il Comune cerca di attuare, con accordi pubblico-privati, un Programma di Recupero Urbano, pensato da Carlo Gasparrini ma che ogni lustro viene rimaneggiato e di cui oggi non si sa più nulla. Interrotta è la fruibilità del già citato vicino parco Fratelli De Filippo, per anni rimasto chiuso anche se ultimato. Oggi è soltanto in parte praticabile e tenuto vivo da alcune associazioni che curano un orto urbano e dalla presenza del presidio di Emergency. Interrotti sono tutti i progetti lungo l’interfaccia terra-mare, paesaggio privilegiato, a poche centinaia di metri dal centro città, ma negletto come un qualsiasi luogo dello scarto (drosscape, in inglese), da nascondere. Qui si è fermato il progetto per il nuovo porto turistico di Vigliena, con gli imprenditori che sono andati via chiedendo persino i danni al Comune. Interrotto, come detto, è il processo di rigenerazione urbana del complesso di fabbriche di archeologia industriale dell’ex Corradini, alle spalle della spiaggia di Vigliena. Interrotti sono i percorsi ciclabili della nuova via Marina che si dissolvono sul Ponte dei Francesi e finiscono nel caos urbano del Corso San Giovanni. Interrotto è il processo di rigenerazione della ex Cirio, cominciato con i nuovi edifici che ospitano la Apple Accademy (progettati da Francesco Scardaccione e dai giapponesi di Ishimoto Architectural & Engineering), ma che si è fermato, ancora una volta, sulla fascia a mare, dove è presente quella sorta di cattedrale industriale che è l’edificio principale del complesso, progettato nel 1925 da Angelo Trevisan, quasi simbolicamente posto all’ingresso di questo grande quartiere ad est. Interrotta è l’integrazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica con il tessuto storico: il Rione Pazzigno, Taverna del Ferro, i complessi Incis, Iacp, Pser. Gli edifici di Taverna del Ferro stanno tentando la riscoperta di una nuova dimensione identitaria con i grandi murales di Maradona e di “Essere Umani” di Jorit, ma quelle residenze, progettate da Pietro Barucci negli anni ’80 secondo modelli post razionalisti già all’epoca superati, compresa la tecnica costruttiva della prefabbricazione pesante, sono ancora degli elementi incongrui e socialmente critici nel tessuto storico di San Giovanni.
Per ricomporre questa dimensione di un continuo paesaggio interrotto sarebbero necessarie strategie chiare, che stabiliscano le priorità, indirizzino i fondi e consentano ai processi di essere portati a compimento. Ricucire, riammagliare, creare continuità nella fruibilità degli spazi pubblici e delle attrezzature. Portare a compimento il mosaico di cose cominciate. Creare poi innesti dentro le enclaves e lavorare, come sempre, sui bordi: verso il mare, verso la città centrale, verso l’area dei depositi petroliferi ed infine verso i paesi vesuviani, ancora più ad est, nella zona rossa del rischio vulcanico, nella quale anche gran parte di quest’area ricade.
Finora i progetti del Comune si sono dimostrati insufficienti ed inefficaci. Il piano regolatore aveva promesso un’altra storia, questa spiaggia e questo mare come spazio pubblico per la salute e la vita delle persone, un’esigenza basilare pienamente in linea con le strategie urbane dopo il Covid, ma nel frattempo il governo della città s’è dissolto, vent’anni di nulla, 140.000 vite in ostaggio di una storia interrotta e troppi “fatti urbani” ancora da concludere.
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