Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 aprile 2021

Ha usato proprio la parola “fiasco”, in italiano, il New York Times per titolare l’articolo sulla deludente performance dell’Europa in materia di vaccini. S’è detto tante volte: il coronavirus non crea nuovi problemi, ma amplifica quelli che c’erano già. Questo riguarda anche il funzionamento dell’Unione europea, e la cosa ci riguarda da vicino. Il fragile equilibrio finanziario del Mezzogiorno dipende grandemente dai fondi comunitari che – come è scritto con chiarezza nei rapporti dell’Agenzia per la coesione – sono serviti nell’ultimo ventennio a coprire il buco dei mancati trasferimenti dallo Stato centrale.

Nella partita dei vaccini la differenza con i paesi che hanno fatto meglio, Regno Unito, Israele e Stati Uniti, è semplice da raccontare: in tutti e tre questi casi lo Stato è sceso in campo come socio finanziatore e acquirente privilegiato, investendo tanti soldi nell’impresa, fin dall’inizio, dalla sperimentazione, con le sue università e centri di ricerca, alla produzione industriale.

Alla fine, il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato che il suo paese ha ottenuto i suoi vaccini “…grazie a capitalismo e avidità”, e una cosa abbastanza simile l’ha ripetuta in un intervista a “Repubblica” Larry Fink, numero uno di Black Rock, il più grande fondo di investimento privato al mondo, secondo il quale “grazie al capitalismo abbiamo battuto la pandemia”.

E’ evidente che si tratta di uscite propagandistiche, perché è vero esattamente il contrario: Inghilterra, America e Israele hanno agito proprio come avrebbero fatto Marshall e Keynes, usando potentemente la leva dell’investimento pubblico, assieme alla propria sovranità, come strumento di grado superiore per conseguire finalità di interesse generale, e fare cose che il mercato da solo non è  proprio in grado di fare. Insomma, in quei tre paesi lo stato ha fatto bene il suo mestiere.

L’Unione europea, che pure si vanta col resto del mondo per il suo sistema di programmazione economica e sociale che protegge i cittadini, ha sciaguratamente scelto in questa vicenda di agire sul piano asettico delle regole e della negoziazione, dismettendo la propria sovranità e comportandosi come un acquirente privato qualunque, come se la soluzione al problema fosse quella di stipulare sul mercato ben confezionati contratti di fornitura.

Il risultato è stato deludente, un fiasco per dirla con il New York Times, evidenziando un difetto di autorevolezza e pure di politica: i  programmi di vaccinazione procedono a rilento, il conto delle vite resta alto, il contenzioso legale con le ditte non porterà a nulla, e la conclusione è che in tutta questa vicenda l’Unione non è riuscita ancora a comportarsi come uno Stato vero.

La speranza è che questa amara lezione possa servire all’Europa. Per attuare bene l’ambizioso piano di recupero che è stato messo in campo servono politiche pubbliche coraggiose, anche dure, ma mirate all’obiettivo, piuttosto che formalismi procedurali asettici.

Pure i pregiudizi non aiutano, e bene ha fatto Draghi nei giorni scorsi a troncare a un certo punto le polemiche sterili con ambienti di Bruxelles e pezzi rilevanti dell’opinione pubblica nord europea, sulla credibilità del Recovery plan italiano, chiedendo direttamente alla signora von Der Layen più rispetto per un paese che ha pagato in Europa il prezzo più alto alla pandemia. E’ una partita che il capo di governo aveva già dovuto affrontare da presidente della Banca centrale europea, quando riuscì a imporre una gestione più equa e lungimirante del quantitative easing. Per noi cittadini del Mezzogiorno d’Italia, che è Mezzogiorno d’Europa, sono parole giuste, e va bene così.